Giovanni Minzoni nacque a Ravenna il 1° luglio 1885 da famiglia della media borghesia.
Studiò in seminario. Ordinato sacerdote, fu destinato alla sede di Argenta (Ferrara).
Nel 1917 andò al fronte nella Prima guerra mondiale e venne nominato cappellano della 225ᵃ brigata di fanteria Veneto. Dopo la battaglia del Piave venne decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Tornato ad Argenta si avvicinò alle posizioni del Partito Popolare Italiano, fondato da Luigi Sturzo nel 1919.
Fu promotore della nascita di cooperative cattoliche tra i braccianti e gli operai e si oppose ai capi del movimento fascista dell’Emilia-Romagna: Italo Balbo, Dino Grandi e Leandro Arpinati.
Don Minzoni fu attivo promotore di opere caritatevoli, diede vita a circoli sociali per l’acculturamento delle classi umili, e ai primi nuclei del sindacalismo cattolico nella Bassa ferrarese. Si oppone alle violenze delle squadre fasciste sostenute dai proprietari terrieri retrivi, ostili alle più elementari rivendicazioni salariali dei lavoratori agricoli.
La grande influenza spirituale esercitata da Don Minzoni suscitò le avversioni e le minacce fasciste contro di lui.
Nel 1923 alcuni squadristi uccisero ad Argenta il sindacalista socialista Natale Galba; don Minzoni condannò pubblicamente il delitto, diventando così il nuovo bersaglio della violenza squadrista.
Più volte minacciato, la sera del 23 agosto 1923 Don MInzoni fu colpito alle spalle con sassi e bastoni da due squadristi. In preda a forti dolori, riuscì in un primo momento a rialzarsi per poi cadere sulle ginocchia, impossibilitato a camminare. Fu visitato da un dottore ma intorno alla mezzanotte il suo cuore cessò di battere: l’aggressione gli aveva fratturato le ossa del cranio. Nonostante il vasto moto d’indignazione popolare che aveva suscitato la sua uccisione, la dirigenza fascista ferrarese archiviò le ricerche sui responsabili.
L’inchiesta giudiziaria sull’assassinio non arrivò a nessun risultato, benché scrupolosamente condotta da Manlio Borrelli (padre di Francesco Saverio Borrelli). A consentire di riaprire il caso fu l’anno seguente, il 1924, il clamore suscitato dal delitto Matteotti.
Nella crisi che inizialmente parve travolgere il regime trovarono spazio e coraggio i giornali antifascisti. “La voce repubblicana” riparlò della morte di Minzoni, facendo espressamente il nome di Italo Balbo.
Questi querelò e il processo che ne seguì mandò assolti i responsabili del giornale.
Grazie all’impegno di un altro giornale, “Il Popolo” di Giuseppe Donati, il caso Minzoni dovette essere riaperto e arrivare a processo nel 1925.
Ma il fascismo aveva ripreso il controllo della situazione. Venivano approvate le leggi “fascistissime” che smantellavano lo Stato di diritto: gli imputati, mandanti ed esecutori del delitto, tutti appartenenti allo squadrismo locale, andarono assolti.
Verranno condannati per omicidio preterintenzionale nel 1947, quando il precedente processo fu annullato e ricelebrato a Ferrara a carico degli imputati ancora in vita, i quali furono presto scarcerati per la sopravvenuta amnistia.
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