24 Maggio. La Grande Guerra e il lavoro delle donne.
Gianni Arrigo. 24 Maggio 202124 Maggio. La Grande Guerra e il lavoro delle donne.
di Gianni Arrigo
Il 3 maggio 1915 l’Italia denuncia il Trattato della Triplice Alleanza e il 24 maggio dichiara guerra all’Austria. Dipinta dalla propaganda interventista come un conflitto di breve durata e circoscritto ai “lontani” campi di battaglia, la guerra dilata invece i suoi tempi ed estende il suo ambito d’azione, coinvolgendo milioni di persone e stravolgendo modi di vita, ruoli e rapporti familiari. L’esercito ha bisogno di equipaggiamento e di armi. Inizia la produzione di guerra, che lo Stato provvede a disciplinare con l’Istituto della Mobilitazione Industriale, che individua e coordina gli stabilimenti ausiliari e distribuisce le commesse belliche, la cui crescita rafforza le imprese operanti nel settore chimico, elettrico, estrattivo e metallurgico-meccanico. Poiché la manodopera maschile è decimata dal richiamo alle armi, e dalla morte nei combattimenti, sono spesso le donne a sostituire gli uomini facendo ingresso in ambiti lavorativi fino allora ad esse preclusi. Guidano autobus e tram, consegnano la posta, curano la pulizia delle strade, lavorano negli uffici pubblici e nelle fabbriche. Nei campi sono soprattutto le donne ad assicurare un adeguato approvvigionamento alimentare, non solo alle truppe. L’esponenziale aumento della produzione nei settori interessati dalla guerra, in particolare quello metallurgico-meccanico, porta il lavoro operaio ad alti livelli d’occupazione, con un’ampia partecipazione di donne e fanciulli provenienti soprattutto dalle campagne. Per la prima volta il lavoro dipendente impegna masse crescenti di donne. In Italia le operaie aumentano del 60 per cento nelle imprese tessili (commesse militari), mentre nella pubblica amministrazione e nelle aziende del terziario è femminile il 50 per cento della manodopera. Alla fine della guerra sono occupate nelle imprese industriali 1.240.000 lavoratrici: quasi il doppio rispetto all’inizio del conflitto, quand’erano 650.000. Nella sola produzione bellica la presenza femminile passa da 23.000 a 200.000 unità. Questo processo di integrazione e di incipiente emancipazione è tuttavia lento e inizialmente non privo di resistenze. Le donne, alle quali viene spesso preferita la manodopera maschile ancora a disposizione, sono adibite a mansioni meno specializzate e in produzioni considerate secondarie. Ma il protrarsi della guerra e la crescente domanda di materiale bellico pesante fa sì che le operaie vengano assegnate alla produzione di armi e munizioni di grosso calibro, dove svolgono mansioni specializzate, utilizzando strumenti (fresatrici, torni, saldatrici) fino allora ritenuti di esclusivo dominio maschile. A questo processo d’integrazione nel mondo del lavoro corrisponde, sul piano educativo e culturale, una (pur minima) crescita del numero di donne che completano gli studi universitari: nel 1917 si laureano 108 dottoresse in lettere, 4 in scienze economiche, 81 in matematica, 7 in farmacia, 6 in medicina, una in ingegneria e una in agraria.
Le donne tuttavia ricevono salari più bassi degli uomini ed hanno una prospettiva d’impiego provvisoria; senza contare che aggiungono al lavoro in fabbrica quello tra le mura domestiche. La nuova consapevolezza del proprio ruolo nella società porta le donne ad organizzare proteste spontanee (non sempre sostenute dai dirigenti sindacali) contro il protrarsi della guerra e le sue conseguenze più drammatiche, come la morte di centinaia di migliaia di uomini e il grave peggioramento delle condizioni di vita ed economiche.
Finita la guerra, l’esigenza di trovare lavoro ai reduci conduce al licenziamento di migliaia di donne, soprattutto nelle imprese industriali, con il diritto al sussidio di disoccupazione solo per un breve periodo. La riduzione del lavoro femminile è rilevata soltanto nel 1921, quando risultano occupate nelle imprese manifatturiere un milione e 173.000 donne in meno rispetto al 1913, mentre le donne nell’agricoltura sono tre milioni e quelle inattive 14 milioni.
Soltanto nel settore terziario e nelle amministrazioni pubbliche l’occupazione femminile non solo mantiene i precedenti livelli ma cresce, tanto che nel 1921 le donne italiane censite come “impiegate” risultano più che raddoppiate (da 52.000 a quasi 120.000).
La rottura dei ruoli tradizionali si traduce in un ampliamento della sfera dei diritti civili (ma non di quelli politici). Mentre rimane nel cassetto la proposta di estensione alle donne del diritto di voto, nel 1919, con la Legge n.1176 (“Norme circa la capacità giuridica della donna”), le donne non sono più trattate come minori. Non serve più l’autorizzazione del marito per taluni atti negoziali, come l’acquisto o la vendita di beni immobili, e sono ammesse a pari titolo degli uomini ad esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici, con la sola eccezione, salvo espressa previsione di legge, di quelli che implicano poteri giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche o che attengano alla difesa militare dello stato.
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