79 anni fa. L’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.
Nota di Gianni Arrigo.
1.All’alba del 12 Agosto 1944, tre reparti della 16ª divisione Panzergrenadieren SS”, comandati dal maggiore Walter Reder, e accompagnati da bande di fascisti, circondarono l’abitato, mentre un quarto si attestava più a valle, sopra il paese di Valdicastello, per bloccare ogni via di fuga. Benché proprio agli inizi del mese Sant’Anna fosse stata dichiarata zona bianca dai tedeschi, in grado cioè di accogliere popolazione civile sfollata, in poco più di tre ore furono massacrate 560 persone, tra cui molti bambini.
L’eccidio rientra nel quadro più ampio delle violenze nazifasciste perpetrate nell’area e che culminarono nell’eccidio di Marzabotto.
I fatti di Sant’Anna di Stazzema sono rimasti ignoti fino all’estate del 1994, quando Antonino Intelisano, procuratore militare di Roma, mentre cercava documentazione su Priebke e Karl Hass, scoprì casualmente in uno scantinato della Procura Generale Militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma, un armadio con le ante rivolte verso il muro, chiuso da una catena (“l’armadio della vergogna”) contenente 695 fascicoli e un registro generale con 2.274 notizie di reato “archiviati provvisoriamente” nel 1960, riguardanti crimini di guerra commessi da tedeschi e repubblichini tra il 1943 e il 1945.
Tra gli altri eventi, le fonti riguardavano stragi passate alla storia per la loro efferatezza, quali l’eccidio delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, Monchio e Cervarolo, Coriza, Lero, Scarpanto, del Duomo di San Miniato e dell’Alto Reno.
Tra questi viene trovata anche della documentazione relativa al massacro di Sant’Anna, per il quale verrà riaperta un’inchiesta che porterà a individuare alcuni dei responsabili.
Il ritrovamento ha permesso di istruire il processo per l’eccidio di Sant’Anna.
Nel 2007 la Corte di cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo, pronunciata nel 2005 dal tribunale militare di La Spezia, contro dieci ufficiali delle SS che comandavano i reparti.
Giova ricordare che nel 2003 era stata istituita, con L. 15 maggio 2003, n. 107, una Commissione parlamentare d’inchiesta [1] sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, al fine di indagare e verificare le cause che portarono all’occultamento dei 695 fascicoli, riguardanti gravissimi fatti criminosi commessi dai nazifascisti, nel corso della seconda guerra mondiale, con la conseguenza che, in relazione agli stessi, non si era mai proceduto alle indagini necessarie all’accertamento dei fatti ed all’individuazione dei responsabili, né, conseguentemente, ad esercitare l’azione penale.
A partire dal 16 febbraio 2016 l’Archivio storico della Camera dei deputati ha reso accessibili on line, attraverso il Portale storico, gli indici dei documenti declassificati utilizzati durante i lavori dalla Commissione d’inchiesta.
2. Dalla Relazione della Commissione parlamentare (8 Febbraio 2006)
Par.6 Perseguibilita` dei criminali di guerra: momenti significativi della vicenda. L’atteggiamento e le indagini degli alleati, 1944-1947. La complessa posizione dell’Italia subito dopo la guerra e la decisione di concentrare le notitiae criminis presso la Procura generale militare (riunione tenutasi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri del 20 agosto 1945)
“[…] La più recente sentenza, quella del Tribunale Militare di La Spezia che il 22.6.2005 ha condannato all’ergastolo Gerhard Sommer e altri nove militari tedeschi per la strage di Sant’Anna di Stazzema confermando il risultato di un’indagine che, in relazione agli autori materiali di quell’eccidio di grandi proporzioni, era stato possibile avviare solo dopo la scoperta dei fascicoli a Palazzo Cesi, ha escluso anch’essa sotto il profilo della pretesa causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere per aver obbedito ad ordini dei superiori che, in base all’art. 40 C.P.M.P., tale esimente potesse essere applicata. Nel caso in esame, osserva la sentenza, anche ponendosi nell’ottica del militare tedesco impegnato nell’operazione di Sant’Anna (che si ricordi provocò ben 560 vittime civili), il fatto non poteva infatti “non manifestare sicuri indici di criminosità”
Si trattò di un episodio infatti di assoluta eccezionalità su quel fronte, caratterizzato da un sistematico ed indiscriminato sterminio della popolazione considerando “l’alto numero delle vittime, l’assoluta mancanza di ostilità dei civili, la loro estraneità agli scontri con i partigiani nei giorni precedenti ed in ogni caso l’assoluta sproporzione con qualunque perdita le stesse SS avessero subìto in quella zona”.
Quindi qualunque soldato sarebbe stato in grado di capire che, prendendo parte all’esecuzione di quell’assurdo piano criminoso, contribuiva a commettere una barbarie, un atto contrario a qualunque decenza, un sicuro crimine contro l’Umanità.
La sentenza del Tribunale di La Spezia, sotto il profilo dell’applicazione del Diritto Internazionale Umanitario e dell’interpretazione delle norme in tema di cause di giustificazione è di particolare rilievo in quanto, a differenza di altri processi, per i fatti di Sant’Anna di Stazzema, erano imputati non ufficiali superiori bensì ufficiali subalterni, sottufficiali e anche un graduato del reparto chiamato ad eseguire il massacro e cioè 2 sottotenenti, 7 sergenti e 1 caporal maggiore.
La sentenza del Tribunale Militare di La Spezia ha anche affrontato con particolare ampiezza di argomentazioni, proprio in ragione del grado non elevato rivestito dagli imputati, la prospettabilità di un’altra causa di non punibilità e cioè l’aver agito in stato di necessità. Secondo l’art. 54 c.p. infatti non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona… sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. In sostanza la difesa degli imputati aveva prospettato il rischio che se gli imputati si fossero rifiutati di partecipare all’esecuzione dei civili sarebbero stati a loro volta giustiziati per ordine dei loro superiori.
Tuttavia il Tribunale di La Spezia ha escluso la ravvisabilità anche di tale esimente in quanto non sufficientemente provata in fatto l’effettività del pericolo di un danno grave alla persona, diverso ad esempio da semplici anche se gravi misure disciplinari, che avrebbe reso psicologicamente inesigibile la disobbedienza all’ordine criminoso. È escluso che sia stato provato anche un solo caso di esecuzione sommaria di militari disobbedienti nel corso dei numerosi processi celebrati dagli Alleati nel primo dopoguerra nel corso dei quali furono sentite numerosissime SS che avrebbero avuto interesse ad evidenziare eventi di tal genere e del resto in relazione all’attentato di via Rasella e al successivo eccidio delle Fosse Ardeatine è emerso da tutti i processi celebrati a Roma che il maggiore Dobrick, Comandante del reparto tedesco cui appartenevano le vittime dell’attentato si rifiutò, sostanzialmente con vari pretesti, di impiegare i suoi uomini per la “rappresaglia” e ciò nondimeno non subì alcuna conseguenza.
Anche l’Ufficio Centrale delle Amministrazioni giudiziarie regionali per l’accertamento dei crimini nazisti di Ludwigsburg che a partire dal 1958 ha esaminato centinaia di casi in cui era stato affermato che la mancata esecuzione di un ordine avrebbe causato un pericolo mortale per il disobbediente, interpellato dal Tribunale, ha riferito di non aver individuato nemmeno una situazione con conseguenze di tal genere.
In conclusione da un esame delle norme riferentisi al Diritto Internazionale umanitario e della giurisprudenza interna ad esse relativa la Commissione ritiene di dover trarre i seguenti elementi di riflessione:
– l’interruzione dei processi relativi ai crimini di guerra per quasi 50 anni, dovuta all’indebito trattenimento dei fascicoli a Palazzo Cesi, ha comportato una parallela interruzione della riflessione giuridica e culturale sulle violazioni delle norme in materia di Diritto Internazionale Umanitario e le loro conseguenze penali, e ciò proprio in una fase in cui il dibattito su tali temi era assai vivo nella comunità internazionale e il lavoro dei giuristi e la codificazione dei princìpi in materia si stavano espandendo e diventando sistematiche;
– a prescindere da tale obiettiva ricaduta sulla coscienza giuridica e civile del Paese può inoltre affermarsi che alcune soluzioni adottate nelle poche sentenze che furono emesse sino all’inizio degli anni ’50 dalle Corti italiane (e dalle Corti alleate) soprattutto in tema di “rappresaglia” e di “sanzioni collettive” avrebbero portato anche nei casi “occultati” a capi d’accusa validamente sostenibili in giudizio e passibili di esiti positivi sempre che le indagini fossero state svolte e i processi celebrati raccogliendo le testimonianze e gli altri elementi di prova allora più facilmente acquisibili. In altri termini, nei casi tutt’altro che limitati oggetto dei 695 fascicoli occultati in cui i responsabili potevano essere tempestivamente individuati e le prove raccolte, si sarebbe pervenuti, già sulla base delle soluzioni giuridiche dell’epoca, verosimilmente ad un numero elevato di sentenze di condanna (in ipotesi anche in contumacia) e tale affermazione è convalidata dal numero significativo delle condanne pronunciate negli anni ’90 nei comunque pochi ma non pochissimi procedimenti che era stato ancora possibile istruire e portare a giudizio con 50 anni di ritardo;
– in alcuni casi paradossalmente l’immediata celebrazione dei processi nei confronti di alcuni imputati in presenza di ricostruzione dei fatti imprecise e lacunose e di una frammentaria comprensione del fenomeno delle conseguenze dell’ideologia nazista, avrebbe portato forse all’assoluzione “anticipata” di alcuni imputati.
Si pensi in particolare alla posizione del cap. Priebke e del magg. Hass che, se giudicati nell’immediato dopoguerra, sarebbero stati forse assolti alla pari degli altri subordinati del col. Kappler sulla base di una interpretazione eccessivamente larga, anche perchè priva della disponibilità di alcuni elementi di fatto, della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere e dell’obbedienza all’ordine del superiore.
Ciò non toglie tuttavia che l’interruzione della riflessione sui crimini di guerra o quantomeno il suo rallentamento, dovuto alla mancanza di “casi” su cui riflettere, trovandosi tutte le carte che potevano renderli vivi e reali chiuse nelle stanze di Palazzo Cesi, abbia cagionato non solo in molti casi l’impunità di molti dei responsabili ma un impoverimento e un danno al tessuto giudiziario, storico, culturale e morale del Paese.
La Commissione osserva in conclusione che gli eventi contenuti nei fascicoli con le loro specifiche caratteristiche (in particolare l’uccisione di civili da parte di Forze militari che ritenevano di poter agire solo in base alle norme che esse stesse si erano date) e la valutazione in primo luogo e necessariamente anche giudiziaria di tali eventi non avevano carattere meramente “storico” nel senso di appartenente solo passato e non riguardavano situazioni destinate di per sè stesse a non potersi ripetere.
Proprio alla fine degli anni ’90 infatti, pressoché in concomitanza con l’esplodere del caso dei fascicoli occultati, la Giustizia italiana, in questo caso quella ordinaria, ha dovuto confrontarsi quantomeno con un altro contesto di cittadini italiani uccisi da Forze militari, straniere e in questo caso operanti all’estero, che agivano al di fuori di qualsiasi quadro di legalità dal punto di vista del Diritto Internazionale Umanitario e per aberranti motivi politico-ideologici.
Ci si riferisce al caso dei generali argentini dell’Esercito e delle altre Armi, esponenti della Giunta Militare argentina al potere per sette anni in tale Paese a seguito del colpo di Stato del 24.3.1976 e responsabili della tortura, sparizione ed uccisione di alcune migliaia di civili senza imputazione alcuna, sia cittadini argentini sia, in molti casi, di altre nazionalità tra cui quella italiana, o con doppia nazionalità.
Le indagini aperte in Italia negli anni ’90 (e parallelamente in altri Paesi europei) in relazione alle vittime della Giunta di cittadinanza italiana e il dibattimento svoltosi dinanzi la Corte d’Assise di Roma e conclusosi il 6.12.2000 con la condanna all’ergastolo o a pene detentive di sette militari hanno affrontato problemi, quali le violazioni del Diritto Umanitario, il dovere di obbedienza all’ordine del superiore, le condotte sistematiche di “guerra contro i civili” ideologicamente e politicamente motivate, in larga parte analoghi a quelli presenti nei processi per i crimini avvenuti durante l’occupazione tedesca, i pochi celebrati e i molti che non è stato possibile celebrare.
Proprio solo in quegli anni, mentre si celebrava il processo dinanzi alla Corte d’Assise di Roma, il completo silenzio dell’intervento e della riflessione giudiziaria sui crimini commessi da militari si era, dopo quasi mezzo secolo, in parte interrotto con la riapertura di alcune indagini e i conseguenti dibattimenti resi possibili dalla “scoperta” nel giugno 1994 a Palazzo Cesi..
Ciò non può non significare che la mancata celebrazione di tanti processi ha riguardato stragi e atrocità che non appartenevano solo al passato ma erano passibili di ripetersi pur in contesti anche internazionali diversi e non può non far riflettere che anche per tale ragione, e per tener desta l’attenzione della Giustizia tenuta a confrontarsi con tali eventi, tali atrocità non dovevano essere dimenticate e lasciate impunite”.
[1] “La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti è stata istituita con legge 15 maggio 2003, n. 107, che ne ha fissato la durata in un anno dalla data della sua costituzione. Tale termine è stato successivamente prorogato al termine alla conclusione della legislatura con legge 25 agosto 2004, n. 232. La legge istitutiva ha dato attribuito alla Commissione il compito di indagare “sulle anomale archiviazioni “provvisorie” e sull’occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, contenenti denunzie di crimini nazifascisti, commessi nel corso della seconda guerra mondiale e riguardanti circa 15.000 vittime”. Composta da quindici deputati e quindici senatori, la Commissione si è costituita l’8 ottobre 2003, con l’elezione del Presidente, il deputato Flavio Tanzilli, e dell’Ufficio di presidenza. Al termine dei suoi lavori la Commissione ha approvato la Relazione conclusiva (relatore Raisi) l’8 febbraio 2006 (Doc XXIII, n. 18) ed è stata altresì presentata una Relazione di minoranza (relatore Carli, Doc XXIII, n. 18-bis). L’amplissima documentazione raccolta dalla Commissione è stata progressivamente declassificata nel corso della XVII legislatura e resa disponibile attraverso il sito dell’Archivio storico della Camera, recependo anche quanto previsto nella deliberazione sul regime degli atti e dei documenti approvata dalla stessa Commissione nella seduta conclusiva dell’inchiesta”. (Fonte: Camera dei Deputati. Commissioni parlamentari di inchiesta)
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