(Studio legale  G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 18 luglio 2024, n. 19863.

Lavoro. Affitto di ramo d’azienda. Licenziamento collettivo. Ammortizzatore sociale del fondo di integrazione salariale. Accordo sindacale. Riduzione dell’orario di lavoro. Inadempimento dell’obbligo retributivo. Non previsto diritto di natura risarcitoria. Rigetto.

 “[…] La Corte di Cassazione.

(omissis)

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 556/2023 pubblicata in data 22/02/2023, n.r.g. 2004/2021.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 21/05/2024 dal Consigliere dott. F.P.P.

1. – Gli odierni controricorrenti erano stati dipendenti di T. di A. spa sino al 31/07/2016, quando, a seguito di affitto di ramo d’azienda, erano transitati alle dipendenze di Nuove T. di A. srl con decorrenza 01/08/2016.

Deducevano che a causa di inadempimento contrattuale della cessionaria, la cedente aveva comunicato la risoluzione del contratto di affitto, sicché, dal 07/02/2018, erano ritornati alle dipendenze di T. di A. spa ai sensi dell’art. 2112 c.c.

Precisavano che con verbale di accordo del 05/08/2016 la cessionaria e le organizzazioni sindacali avevano concordato sulla necessità di ricorrere all’ammortizzatore sociale del fondo di integrazione salariale (FIS) per il periodo dall’08/08/2016 al 07/08/2017, ma che l’INPS aveva accordato la misura soltanto fino al 04/02/2017.

Aggiungevano che Nuove T. di A. srl, con missiva del 18/01/2017, aveva avviato la procedura di licenziamento collettivo, che tuttavia, all’esito dell’esame congiunto con le parti sociali, era sfociato in un accordo con cui era stato previsto l’assegno di solidarietà con l’utilizzo del FIS, previa riduzione dell’orario di lavoro per 12 mesi a decorrere dal 06/02/2017.

Deducevano quindi che la società datrice di lavoro, per quei 12 mesi, li aveva impegnati per quote orarie ridotte fino al 70% su base mensile, retribuendo solo le ore effettivamente lavorate, mentre la residua quota oraria non lavorata era stata considerata nei cedolini paga come a carico dell’INPS a titolo di FIS.

Precisavano che, tuttavia, non avevano percepito il FIS dall’INPS per il predetto periodo di 12 mesi, poiché l’istituto aveva rigettato la relativa domanda con provvedimento del 19/07/2017.

Adìvano pertanto il Tribunale di Napoli per ottenere la condanna solidale delle due società al pagamento di tutte le differenze retributive, anche a titolo di t.f.r., per il periodo 06/02/2017-05/02/2018, calcolate sulla base dell’orario di lavoro previsto dal CCNL applicato.

2. – Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale accoglieva in parte la domanda, ritenendo che la riduzione oraria fosse stato il risultato della comune volontà delle parti sociali, sicché le conseguenze del provvedimento di rigetto dell’INPS (motivato dal superamento del c.d. tetto aziendale, poiché la s.r.l. aveva già fruito per l’anno 2016 delle prestazioni del FIS nel periodo 08/08/2016-04/02/2017), in assenza di una norma specifica, erano quelle previste dall’art. 15 d.lgs. n. 148/2015, che al co. 4 prevede l’obbligo a carico dell’impresa di pagare una somma corrispondente all’importo dell’integrazione salariale non percepita.

Pertanto non riconosceva le pretese differenze a titolo di 13^, 14^, lavoro domenicale e notturno, che presupponevano l’inadempimento dell’obbligo retributivo, nella specie ritenuto insussistente.

3. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello accoglieva in parte il gravame interposto da T. di A. spa e condannava la srl a tenere indenne la spa di tutte le somme di cui alla condanna del Tribunale, rigettava l’appello di alcuni lavoratori (volto ad ottenere l’accoglimento integrale delle loro domande originarie) e compensava le spese del grado.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) non sussiste il vizio di ultra petizione, in quanto se è vero che i lavoratori in primo grado hanno formulato una domanda di condanna al pagamento di differenze retributive, la qualificazione giuridica spetta al giudice, sicché il Tribunale che ha loro riconosciuto il risarcimento del danno pari all’integrazione salariale non percepita dall’INPS non ha mutato i fatti costitutivi della pretesa;

b) la responsabilità solidale di cedente e cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c., riguarda tutti i crediti del lavoratore, senza distinguere a seconda che si tratti di crediti di natura risarcitoria oppure retributiva, sicché correttamente il Tribunale ha pronunziato la condanna solidale delle due società;

c) l’obbligazione derivante dall’ammissione al FIS ha certamente natura previdenziale, ma nel caso in esame non è in discussione tale obbligazione, bensì il risarcimento spettante ai lavoratori a causa del rigetto della domanda di integrazione salariale da parte dell’INPS;

d) l’obbligazione risarcitoria a carico del datore di lavoro è distinta ed autonoma da quella previdenziale a carico dell’INPS.

4. – Avverso tale sentenza T. di A. spa in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

5. – F.G.C. e gli altri indicati in epigrafe hanno resistito con controricorso.

6. – B.M. e gli altri dipendenti indicati in epigrafe, nonché Nuove T. di A. srl sono rimasti intimati.

7. – La società ricorrente ha depositato memoria.

8. – Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.

Considerato che

1. – Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 4), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 112 c.c. e 1362 c.c. per avere la Corte territoriale escluso il vizio di ultra petizione in cui era incorso il Tribunale, omettendo di considerare il dato letterale di cui all’originario ricorso, nel quale i lavoratori avevano sempre e soltanto fatto riferimento a differenze retributive, tanto da pretendere quelle somme a titolo di retribuzione per il normale orario di lavoro (sebbene pacificamente non svolto), secondo i parametri dettati dal CCNL, come risultava altresì dai conteggi allegati.

Il motivo non è autosufficiente perché manca la trascrizione del ricorso introduttivo, sicché questa Corte non è messa nella condizione di verificare se effettivamente la domanda introduttiva fosse stata proposta esclusivamente in termini di differenze retributive.

In ogni caso va considerato che l’art. 15, co. 4, d.lgs. n. 148/2015, dispone: “Qualora dalla omessa o tardiva presentazione della domanda derivi a danno dei lavoratori la perdita parziale o totale del diritto all’integrazione salariale, l’impresa è tenuta a corrispondere ai lavoratori stessi una somma di importo equivalente all’integrazione salariale non percepita”.

Il Tribunale – come riportato dalla sentenza d’appello – si è limitato ad applicare questa norma come parametro per riconoscere differenze retributive, sebbene parametrate a quanto l’INPS avrebbe in ipotesi riconosciuto loro a titolo di integrazione salariale.

Questo risultato è conforme a diritto: il legislatore non prevede affatto in capo ai lavoratori un diritto di natura risarcitoria, ma si limita e prevedere che, qualora l’integrazione salariale sia mancata per fatto addebitabile al datore di lavoro, questi non è liberato dall’obbligo retributivo in misura corrispondente all’integrazione salariale perduta.

Anche sul piano delle allegazioni in fatto questa conclusione – confermata in appello – non muta la causa petendi, perché anzi si fonda proprio sul presupposto della persistente validità ed efficacia dell’accordo sindacale sulla riduzione dell’orario di lavoro, rispetto a cui le vicende della mancata integrazione salariale si pongono ab externo.

2. – Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 5), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2112, 1381, 2560, co. 2, c.c., nonché motivazione apparente, perplessa e contraddittoria per avere la Corte d’Appello affermato la responsabilità risarcitoria di essa spa in qualità di cessionaria (rectius retrocessionaria) del ramo d’azienda.

Il motivo è infondato quanto all’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. vista l’ampia portata dell’art. 2112 c.c. e della solidarietà passiva ivi prevista fra cedente e cessionaria; esso è inammissibile quanto all’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. visto che la motivazione c’è ed è ampiamente sufficiente a giustificare la decisione assunta.

Va ricordato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione del preciso obbligo di legge costituzionalmente imposto (art. 116 Cost.) e cioè dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.

Quest’obbligo del giudice «di specificare le ragioni del suo convincimento», quale «elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale» è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. un. n. 1093/1947).

Alla stregua di tali principi consegue che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (ipotesi di scuola) o quelle che presentano un «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e che presentano una «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (Cass. sez. un. n. 8053/2014), ma pure quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire «di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato» (Cass. n. 4448/ 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un «ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo», logico e consequenziale, «a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi» (Cass. sez. un. n. 22232/2016; Cass. ord. n. 14297/2017).

La riformulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, conv. in legge n. 134/2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel” contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass. sez. un. n. 8053/2014; Cass. n.13977/2019).

3. – Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, tenuto conto della pluralità dei controricorrenti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”.