Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)
Corte di cassazione. Ordinanza 3 ottobre 2024, n. 25967
Licenziamento orale – Dichiarazione attestante l’intervenuto licenziamento – Lettera inviata al datore di lavoro – Errata interpretazione – Comunicazione indicativa della volontà di riprendere l’attività lavorativa – Doppia conforme
“[…] La Corte di Cassazione,
(omissis)
Rilevato che
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma, confermando il provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto la domanda proposta da T.A. nei confronti di S.D.V. tesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento orale e alla reintegrazione nel posto di lavoro.
2. La Corte territoriale ha rilevato che dalla stessa prospettazione sviluppata dal lavoratore (assunto quale assistente del D.V. dal suo amministratore di sostegno) nel ricorso introduttivo del giudizio emergeva la chiara deduzione della cessazione del rapporto di lavoro nel mese di luglio 2017 e la mancata richiesta (al datore di lavoro) di dichiarazione attestante l’intervenuto licenziamento (facoltà prevista dall’art. 39 del CCNL applicato al rapporto, circostanza invocata solamente in sede di appello e, dunque, tardivamente); ha, inoltre, osservato che a tale rapporto (inquadrato nell’ambito del CCNL Lavoratori domestici, livello BS) non si applicava la normativa sui licenziamenti individuali, e, in specie, la reintegrazione nel posto di lavoro.
3. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Il D.V. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il P. è rimasto intimato.
4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 39 CCNL Lavoratori domestici per avere, la Corte territoriale, interpretato incongruamente la lettera inviata dal lavoratore al datore di lavoro il 21.8.2017, da una parte rilevando che detta comunicazione era semplicemente indicativa della volontà di riprendere l’attività lavorativa e, dall’altra, ritenendo pacifico che il comportamento datoriale integrava un licenziamento orale.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 437 cod.proc.civ., avendo, la Corte di appello, omesso di considerare che il lavoratore aveva depositato, nel corso del giudizio di primo grado, la lettera del 21.8.2017, erroneamente interpretata dal Tribunale.
3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, avendo la Corte di appello, trascurato le deduzioni dell’appellante che aveva sottolineato come solamente all’atto della costituzione in giudizio (di primo grado) del datore di lavoro avesse appreso di essere stato licenziato.
4. Il ricorso è inammissibile.
5. 1. Le censure formulate come violazione o falsa applicazione di norme di legge e contrattuali o come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio – vizio il cui esame peraltro risulta impedito dalla presenza di una «doppia conforme» – mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.
6. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
7. Deve rammentarsi che in tema di ricorso per Cassazione, il vizio di violazione di norma di legge o di clausola dei contratti o accordi nazionali collettivi di lavoro (ipotesi parificata sul piano processuale, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n.40, a quella delle norme di diritto) consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge o di contratto collettivo e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa (riguardante, nella specie, la insussistenza, ad avviso dell’interessato, di un atto datoriale di interruzione del rapporto di lavoro e l’avvenuta richiesta di attestazione dell’intervenuto licenziamento) è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge o di contratto e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito.
8. Nella specie, le censure non colgono la ratio decidendi perché il ricorrente insiste sulla errata interpretazione della lettera inviata al datore di lavoro il 21.8.2017 ma nulla deduce sulla mancanza – nel ricorso introduttivo del giudizio – di una domanda causalmente collegata alla violazione dell’art. 39 del CCNL di settore (pacificamente applicato al rapporto), carenza (di allegazione, logicamente e cronologicamente distinta dalla produzione di un documento) posta a fondamento della pronuncia impugnata.
9. Inoltre, le censure sono prospettate con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quanto meno, trascrivere nel ricorso il contenuto della lettera inviata al datore di lavoro, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod.pro.civ.
10. In conclusione, il ricorso è inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
11. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso […]”.
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