(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di cassazione, Sezione lavoro, Ordinanza 25 gennaio 2025 n. 1833.

L’irrogazione da parte del dirigente scolastico di una misura disciplinare rispetto ad un procedimento che rientra, sulla base della competenza fissata sulla base del massimo edittale previsto per la violazione contestata, nella potestà dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, comportando minori garanzie di terzietà, determina l’invalidità della sanzione stessa

Insegnante. Sanzioni disciplinari. Avvertimento scritto. Censura. Sospensione dall’insegnamento per dieci giorni con perdita del relativo trattamento economico. Svolgimento incarichi di docenza ai corsi PON.

“[…] La Corte di cassazione

(omissis)

Fatti di causa

Il ricorrente, insegnante presso un istituto scolastico di Catanzaro, convenne in giudizio i competenti uffici del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca) per chiedere l’annullamento di tre progressive sanzioni disciplinari inflittegli dalla dirigente scolastica: un avvertimento scritto (in data 5.4.2013), una censura (il 21.2.2014) e la sospensione dall’insegnamento per dieci giorni con perdita del relativo trattamento economico (il 6.5.2014).

Il ricorrente chiese anche la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni non pagate durante la sospensione, con gli accessori di legge.

La domanda venne respinta dal Tribunale di Catanzaro, in funzione di giudice del lavoro, la cui sentenza venne confermata dalla Corte d’Appello della medesima città, rigettando il gravame del lavoratore.

Contro la sentenza della Corte territoriale D.C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

Il Ministero e l’Ufficio Scolastico regionale per la Calabria si sono difesi con controricorso.

Il ricorrente ha depositato altresì memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo di ricorso riguarda la prima sanzione disciplinare e denuncia la «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970 – Statuto dei lavoratori – in combinato disposto degli artt. 55 e 59 d.lgs. n. 29/1993».

Il ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia condiviso la tesi dell’invalidità della sanzione, in mancanza di pubblicazione della norma disciplinare mediante affissione all’interno dei luoghi di lavoro.

1.1. Il motivo è infondato.

La sanzione dell’avvertimento scritto venne inflitta per la violazione del divieto per il pubblico impiegato di assumere altri impieghi o incarichi senza autorizzazione del datore di lavoro, sancito dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 («Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi»).

In particolare, al lavoratore venne contestato lo svolgimento di quattro incarichi di docenza ai corsi PON (Programmi Operativi Nazionali) presso altre istituzioni scolastiche.

La Corte d’Appello, constatato che il precetto che si assume violato è contenuto in una disposizione di legge (art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001), ha ritenuto l’affissione non necessaria, richiamando l’orientamento espresso in tal senso della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 56/2007).

La decisione è corretta, in quanto «La previsione nella disposizione di legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, è sufficiente alla conoscenza da parte della generalità e rende inutile la suddetta affissione» (Cass. cit.).

Non è, quindi, soltanto la gravità della violazione che deroga alla necessità dell’affissione (v. Cass. n. 1926/2011 sull’applicabilità della deroga anche nel caso di sanzioni conservative), ma anche la semplice circostanza che si tratti di violazione di legge e, quindi, di una norma per definizione pubblica e conoscibile da tutti.

Né l’eventuale difficoltà interpretativa della norma di legge potrebbe essere in qualche modo mitigata dall’affissione nella sede di lavoro. Infatti, l’obbligo di affissione riguarda la norma disciplinare, non certo le interpretazioni o i chiarimenti del datore di lavoro sulla norma disciplinare.

Pertanto, una volta rilevato che la contestazione disciplinare ha ad oggetto la violazione della norma di legge e stabilito che quest’ultima è da intendersi conosciuta dalla generalità dei consociati, l’affissione della norma nei locali del datore di lavoro non avrebbe alcun valore aggiunto ai fini della prevedibilità della sanzione e della garanzia per il lavoratore.

2. Il secondo motivo, sempre riferito alla prima sanzione, censura «Violazione e/o errata applicazione dell’art. 55bis, comma 2, d.lgs. n. 165/2001».

Si prospetta la tardività della contestazione disciplinare, in quanto asseritamente non effettuata entro 20 giorni dalla conoscenza del comportamento sanzionabile.

La Corte d’Appello ha fissato il momento della conoscenza dell’infrazione – e quindi il dies a quo per la decorrenza del termine per la contestazione – al 9.2.2013, quando il lavoratore presentò alla scuola un curriculum vitae in cui evidenziava gli incarichi svolti. Il ricorrente sostiene, invece, che quegli incarichi erano già stati indicati nel curriculum vitae presentato il 10.8.2012.

2.1. Il motivo è inammissibile, perché, sebbene proposto nei dichiarati termini di un vizio di violazione di legge, in realtà è volto a contestare l’accertamento del fatto.

La Corte d’Appello di Catanzaro ha preso in considerazione anche il curriculum vitae esaminato dalla direttrice scolastica nel settembre 2012, ma ha escluso che esso facesse riferimento agli incarichi non autorizzati oggetto di contestazione disciplinare (pag. 9 della sentenza impugnata: «dal confronto tra i due curriculum vitae … è agevole riscontrare che tali incarichi non risultano riportati nel primo dei due»).

Nessun errore di diritto ha commesso pertanto la Corte d’Appello, in quanto ha correttamente individuato il dies a quo della decorrenza del termine per la contestazione in quello in cui la direttrice scolastica (secondo l’insindacabile accertamento in fatto) ebbe conoscenza dell’infrazione commessa.

3. Il terzo motivo completa le censure riguardanti la prima sanzione ed è rubricato «Violazione e/o errata applicazione dell’art. 53 d.lgs. n. 165/2001».

Il ricorrente sostiene di non essere assoggettato all’applicazione dell’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, essendo «un pubblico dipendente al quale è consentito dalla normativa di settore lo svolgimento di attività libero-professionali»; invoca, in alternativa, l’applicazione dell’art. 508, comma 15, del d.lgs. n. 297 del 1994 e ribadisce la tesi secondo cui l’attività di docente da lui svolta ai corsi PON doveva intendersi autorizzata, in quanto attività libero-professionale.

3.1. Anche questo motivo è inammissibile, perché lo spostamento dell’attenzione dal d.lgs. n. 165 del 2001  al T.U. delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione non cambia la sostanza del discorso, posto che anche l’invocato art. 508, comma 15, del d.lgs. n. 297 del 1994 richiede la «previa autorizzazione del direttore didattico o del preside» per «l’esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’orario di insegnamento e di servizio».

Quantunque nel ricorso per cassazione si faccia generico riferimento a una non meglio precisata «normativa di settore» quale fonte dell’autorizzazione allo svolgimento di attività libero-professionali, nella sentenza impugnata risulta invece presa in considerazione una autorizzazione ad personam, peraltro ritenuta di «assoluta irrilevanza», perché «generica» e «carente di ogni riferimento al tipo di attività da potere svolgere».

In definiva, pertanto, ferma la regola giuridica della necessità dell’autorizzazione del datore di lavoro, anche questo motivo si riduce a una critica dell’accertamento del fatto con riferimento al giudizio espresso dalla Corte territoriale sulla inesistenza di una pertinente autorizzazione.

4. Il quarto motivo denuncia «Violazione e/o errata applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970».

La censura è riferita alla seconda sanzione disciplinare ed è volta a negare – non l’infrazione in sé, ma – il presupposto della recidiva infrabiennale contestata per il rapporto tra questa e la prima infrazione.

4.1. Il motivo è infondato.

Sebbene non menzionato nella rubrica e nell’illustrazione del ricorso, il riferimento implicito è all’art. 499 del d.lgs. n. 297 del 1994, ove si legge che la recidiva si verifica nel caso in cui venga commessa una nuova «infrazione disciplinare della stessa specie di quella per cui sia stata inflitta la sanzione dell’avvertimento o della censura».

Il ricorrente contesta, infatti, l’omogeneità tra le due infrazioni, la prima riferita allo svolgimento di incarichi senza autorizzazione e la seconda riferita a due ritardi e a una mancata partecipazione ad attività scolastiche diverse dall’insegnamento.

La Corte territoriale ha ritenuto «che sussista l’omogeneità di categoria» tra le due infrazioni, «rilevandosi in entrambe la violazione di doveri inerenti la funzione di docente».

La valutazione è condivisibile, dovendosi aggiungere che lo svolgimento di incarichi extra lavorativi non è consentito (senza autorizzazione) proprio perché può mettere il dipendente in condizione di non riuscire ad adempiere con diligenza a tutte le prestazioni richieste dal rapporto di pubblico impiego; prestazioni che, nel caso dell’insegnante, comprendono anche la partecipazione ai collegi docenti e agli incontri scuola famiglia.

5. Il quinto motivo riguarda invece la terza sanzione disciplinare ed è formulato in termini di «Violazione e/o errata applicazione del d.lgs. n. 150/2009.

Violazione dell’art. 5bis d.lgs. n. 16/2001 [recte: art. 55-bis d.lgs. n. 165/2001]».

Si prospetta l’invalidità della sanzione della sospensione dall’insegnamento per difetto di competenza del dirigente scolastico ad adottare una siffatta misura.

5.1. Il motivo è fondato.

Viene in rilievo, ratione temporis, il testo dell’art. 55-bis vigente anteriormente alla riforma apportata dal d.lgs. n. 75 del 2017.

Questa Corte ha già ritenuto, e qui conferma, che «l’attribuzione della competenza al Dirigente della struttura cui appartiene il dipendente o all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, ai sensi dell’art. 55-bis d.lgs. n. 165 del 2001, si definisce esclusivamente sulla base delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti quali indicati nell’atto di contestazione e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare» (Cass. n. 30226/2019, che richiama a sua volta Cass. n. 20845/2019).

Poiché, con riferimento al settore scolastico, l’art. 492 d.lgs. n. 297 del 1994 prevede una durata edittale massima superiore a dieci giorni anche nei casi meno gravi per i quali è tuttavia prevista la possibilità di adottare la sanzione sospensiva, il potere disciplinare del dirigente resta contenuto nel limite delle sanzioni non sospensive, mentre tutte le sanzioni sospensive – a prescindere dall’entità della sanzione inflitta in concreto – restano riservate alle forme, più garantiste, che prevedono l’intervento dell’apposito Ufficio per il Procedimento Disciplinare.

In tale direzione volge il senso «fatto palese dal significato proprio delle parole» (art. 12 disp. prel. c.c.) usate dal legislatore, laddove esso si riferisce alla sanzione di cui è «prevista l’irrogazione» (art. 55-bis, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, testo vigente ratione temporis).

E il riferimento non può che essere alla previsione della legge, non certo a quella dello stesso dirigente del singolo ufficio, il quale, altrimenti, sarebbe chiamato a regolare la propria competenza in ambito disciplinare sulla base delle sue stesse intenzioni e determinazioni in ordine alla sanzione da applicare e non in ossequio a una preesistente criterio normativo, che egli sia tenuto a rispettare.

Né si può sostenere che, a seguire la corretta interpretazione delle disposizioni di legge, si verrebbe ad «ammettere un vuoto normativo» (così il controricorso a pag. 9).

 La ratio dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 è quella di garantire il rispetto di determinate forme nel procedimento disciplinare, differenziate (con tutele crescenti) a seconda della gravità della sanzione prevista.

Il che certamente non implica la necessità che esistano illeciti disciplinari per i quali sia prevista (da altre norme, non essendo l’art. 55-bis diretto a introdurre nuove sanzioni) la sanzione massima della sospensione dal servizio di dieci giorni.

Se le norme sanzionatrici prevedono una durata edittale massima della sospensione superiore a dieci giorni anche nei casi meno gravi per i quali è tuttavia prevista la possibilità di adottare la sanzione sospensiva – come avviene nell’art. 492 del d.lgs. n. 297 del 1994 – semplicemente il potere disciplinare del dirigente sarà contenuto nel limite delle sanzioni non sospensive, mentre tutte le sanzioni sospensive resteranno riservate alle forme, più garantiste, che prevedono l’intervento dell’apposito Ufficio per il Procedimento Disciplinare.

Senza che con ciò si crei alcun vuoto normativo.

Deve essere quindi altresì ribadito il seguente principio di diritto: «l’irrogazione da parte del dirigente scolastico di una misura disciplinare rispetto ad un procedimento che rientra, sulla base della competenza fissata sulla base del massimo edittale previsto per la violazione contestata, nella potestà dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, comportando minori garanzie di terzietà, determina l’invalidità della sanzione stessa» (Cass. n. 19097/2024).

6. Infine, il sesto motivo censura la decisione sulle spese di lite ed è rubricato «Violazione e/o falsa applicazione artt. 23, comma 4, l. 689/1991 [recte: 1981], 82 e 91 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c.».

6.1. Il motivo rimane assorbito dall’accoglimento del precedente, il quale fa comunque cadere anche la decisione adottata sulle spese. Ferma restando la palese inammissibilità della censura nella parte in cui è riferita alle spese di lite di primo grado, sulle quali la Corte d’Appello semplicemente non si è pronunciata.

7. L’accoglimento del quinto motivo di ricorso comporta la cassazione della sentenza impugnata.

Inoltre, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito (art. 384, comma 2, c.p.c.) con l’annullamento della sanzione della sospensione dell’insegnamento per giorni dieci e la condanna della pubblica amministrazione a reintegrare lo stato di servizio del lavoratore e al pagamento del relativo trattamento economico, con gli accessori di legge (artt. 22, comma 36, legge n. 724 del 1994 e 16, comma 6, legge n. 412 del 1991).

Fermo il resto, ovverosia il rigetto della domanda proposta dal lavoratore con riferimento alle prime due sanzioni disciplinari.

8. Le spese dell’intero processo vengono compensate per un terzo, in ragione della parziale soccombenza del lavoratore, con condanna della pubblica amministrazione controricorrente al pagamento dei restanti due terzi, liquidando i compensi, per le rispettive quote, in € 1.200 quanto al primo grado, in € 2.000 quanto all’appello e in € 2.000 quanto al giudizio di legittimità, oltre alle spese generali al 15%, al rimborso delle spese anticipate e agli accessori di legge.

9. Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

Accoglie il quinto motivo di ricorso, dichiarati inammissibili o rigettati i rimanenti, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, annulla la sanzione della sospensione dall’insegnamento per dieci giorni e condanna la pubblica amministrazione a reintegrare lo stato di servizio del lavoratore e al pagamento del trattamento economico dovuto per il suddetto periodo, con l’aggiunta, sull’importo capitale, degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, ma, quest’ultima, per la sola parte eventualmente eccedente gli interessi legali;

fermo, per il resto, il rigetto del ricorso del lavoratore; compensa per un terzo le spese dell’intero processo e condanna la pubblica amministrazione al pagamento, in favore del ricorrente, di due terzi delle spese dell’intero processo, quote liquidate, rispettivamente, in € 1.200 per il primo grado, € 2.000 per l’appello ed € 2.000 per il giudizio di legittimità, a titolo di compensi, oltre alle spese generali al 15%, al rimborso delle spese anticipate e agli accessori di legge […]”..