Nell’aprile di 101 anni fa, Piero Gobetti pubblica “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia”, Editore Licinio Cappelli, Bologna.

Fin dalle prime pagine del volume, che raccoglie, opportunamente rielaborati, articoli di Gobetti apparsi sulla rivista ‘La Rivoluzione Liberale’, l’Autore fa una dichiarazione valida ancora oggi: “Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità”[1]. Considera Cavour l’autore di una grande rivoluzione liberale rimasta incompiuta, e il Risorgimento è per lui non una “rivoluzione mancata” (come l’aveva etichettato Gramsci) ma un’operazione anch’essa rimasta incompiuta. Rivaluta il Piemonte settecentesco e ottocentesco contraddistinto dall’assenteismo dell’aristocrazia, dallo spezzettamento della grande proprietà agraria e dalla diffusione degli affittuari, dalla laicità dello Stato e dalla presenza di una singolare cultura moderna “in questo vecchio Stato nemico della cultura”. Gobetti riconosce inoltre il valore della fabbrica che “educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà”; sottolinea inoltre il valore positivo della città moderna, “organismo sorto per lo sforzo autonomo di migliaia d’individui”[2].

Gobetti individua il carattere arretrato e illiberale della borghesia italiana, che incrementa il favoritismo e sostiene una politica protezionista; in pratica una non-borghesia, se confrontata con i ceti dirigenti conservatori di altri Paesi. Riconosce che in Italia ci sono due borghesie, ma quella weberiana resta in minoranza, mentre domina il “ceto dirigente contento di sé”. Sul crinale dell’insorgenza intellettuale di massa a ridosso della Grande guerra, il pensiero di Gobetti si rivela estremamente acuto, innervato da analisi di straordinaria attualità. Prima di tutto lamenta il ricambio profondo di classi dirigenti. Il vecchio e oppressivo ceto liberale aveva unificato il Paese dall’alto, escludendo i ceti subalterni dallo Stato e dal recinto della società civile, cristallizzando privilegi corporativi e territoriali, ineguaglianze di classe, assetti di una civiltà pre-capitalista. Il bisturi di Gobetti scava proprio tra queste piaghe, delineando, ancora una volta sulla scia di Salvemini, il quadro del “patto scellerato” (come lo definisce Gramsci) tra la nuova borghesia industrialista del Nord, protetta dallo Stato, e le antiquate classi parassitarie del Sud che hanno accettato (acquiescenti) un progetto di unificazione nazionale che ha trasformato il Mezzogiorno in un mercato passivo di manufatti e in un serbatoio di manodopera.

Nella denuncia di Gobetti giustizia e libertà sono valori complementari: giustizia come direttrice per una società migliore e libertà nella pratica di ogni giorno, nelle istituzioni, nelle regole del vivere civile e politico. Libertà significa anche eguaglianza di fronte alle leggi, negazione di ogni favore e privilegio, negazione del familismo in tutti i suoi aspetti. Senza l’appoggio e la convinzione di un grande movimento politico popolare, in grado di ‘educare’ le coscienze, la libertà non diventa però patrimonio comune, struttura fondamentale di un riformato sistema di regole della vita civile e politica.

Gobetti intuisce che i lavoratori e gli imprenditori non speculatori e non protezionisti hanno interessi comuni: l’equità fiscale, innanzi tutto, che è un problema di eguaglianza ma è anche un aspetto del libero mercato; e la lotta alla corruzione e alle clientele politico-affaristiche, che è un problema di giustizia. Nessuno di questi grandi obiettivi potrà essere raggiunto se la libertà sarà ancora vista come una condizione già acquisita. Per Gobetti la libertà è, al contrario, perennemente combattente ed è la precondizione di ogni forma di eguaglianza. La rivoluzione liberale, infine, dev’essere una rivoluzione di giustizia fondata su una profonda educazione etica e animata da un’azione politica di grandi obiettivi.

Per Gobetti il liberalismo non è un sistema, un modello da applicare in maniera meccanicistica, ma va costruito giorno per giorno. Il liberalismo non si definisce in astratto ma attraverso una dialettica del pensiero che si confronta continuamente con l’altro da sé, integrandolo o separandosi da esso generando un processo che non ha mai fine.

Gobetti è, in definitiva, un liberale rivoluzionario che ha un’idea positiva dell’antagonismo e del conflitto regolato; in quest’ottica, identifica la democrazia liberale non con l’assenza di classi dirigenti ma con la competizione e il continuo ricambio fra loro[3].


[1] Si v. Barbara Speca, Gobetti, rivoluzione liberale quale libertà, in ‘Rivoluzione Liberale’, 14 marzo 2012 ([www.rivoluzione-liberale.it)

[2] Ibidem

[3] Ibidem