(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
Corte di cassazione. Sentenza 2 aprile 2025, n. 8710
Licenziamento. Controllo dell’attività dei lavoratori. Pause durante l’orario di lavoro. Art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003. Controllo investigativo. Artt. 2 e 3 della Legge n. 300 del 1970. Proporzionalità del provvedimento. Prova testimoniale. Danno patrimoniale.
“[…] La Corte di cassazione
(omissis)
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, confermando la pronuncia del Tribunale della stessa sede, ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato a G.F. in data 1.12.2021 dalla società C. s.r.l. a fronte dell’accertata violazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 66 del 2003 concernente le pause intermedie osservate durante l’orario di lavoro e, in particolare, le frequenti e prolungate soste in alcuni esercizi pubblici-bar dei Comuni ove il lavoratore – addetto al ritiro porta a porta di rifiuti urbani – doveva svolgere il servizio.
2. La Corte territoriale ha rilevato che il quadro probatorio raccolto (composto dall’acquisizione di una relazione investigativa, dall’analisi del sistema GPS installato sui mezzi di raccolta dei rifiuti guidati dal dipendente, dalla deposizione di diversi testimoni nella persona degli investigatori) ha dimostrato che il lavoratore, durante il turno svolto al di fuori dell’azienda, si era trattenuto presso diversi pubblici esercizi-bar per un periodo di tempo che eccedeva ampiamente l’arco temporale previsto dall’art. 8 del d.lgs. n. 66 del 2003.
Con particolare riguardo all’utilizzazione degli esiti della relazione investigativa, la Corte territoriale ha sottolineato che l’indagine era stata delegata solamente dopo il sorgere del sospetto, da parte del datore di lavoro, della violazione di obblighi derivanti dal CCNL e dal contratto individuale, che i comportamenti rilevati erano estranei all’attività lavorativa (consistendo in frequenti e prolungate soste in alcuni bar dei Comuni ove il lavoratore doveva svolgere il servizio), che tale condotta incideva in maniera rilevante sul patrimonio aziendale (esponendo la società, appaltatrice del servizio di raccolta della nettezza urbana, al rischio di applicazione delle sanzioni previste dal Capitolato di appalto, e compromettendone l’immagine presso il pubblico); i comportamenti integravano, inoltre, una condotta fraudolenta, in specie con riguardo alla giornata in cui il servizio era terminato con largo anticipo e il lavoratore aveva trascorso il resto del turno di lavoro presso un esercizio pubblico, per poi far rientro in cantiere e compilare il foglio presenze in corrispondenza dell’orario finale.
La Corte di appello ha ritenuto proporzionato il provvedimento espulsivo rispetto all’infrazione disciplinare contestata avuto, complessivamente, riguardo alla natura della violazione, alla loro reiterazione (che aveva determinato un richiamo da parte della committente), alle modalità della condotta e all’elemento soggettivo del lavoratore.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con due motivi, illustrati da memoria, e la società ha resistito con controricorso.
4. La Procura generale ha comunicato memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ragioni delle decisioni
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 della legge n. 300 del 1970 (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che lo svolgimento di pause (durante l’orario di lavoro) eccedenti la previsione legale e contrattuale costituisca inadempimento dell’obbligazione del dipendente; ha poi aggiunto che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il relativo controllo poteva essere delegato a soggetti terzi (nella specie un’agenzia investigativa) solo in caso di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione.
2. Con il secondo motivo si denunzia nullità della sentenza nonché violazione dell’art. 132 c.p.c. (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c.) avendo la Corte territoriale errato nell’ipotizzare un danno patrimoniale a carico della società, trattandosi di mero inadempimento contrattuale (e non di un fatto illecito che potesse giustificare, ex artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970, un controllo investigativo).
Né risulta dirimente il rinvio al Capitolato di appalto, posto che ivi è previsto di “limitare al minimo indispensabile la presenza all’interno di bar ed esercizi aperti al pubblico” senza imposizione di un divieto di accedere a tali luoghi (anzi, l’accesso era consentito per una volta ogni turno lavorativo).
La sentenza impugnata recherebbe, pertanto, motivazione apparente nella misura in cui afferma che effettuare una pausa al bar durante l’attività lavorativa possa costituire fatto illecito e consentire il ricorso ai servizi investigativi.
3. I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in considerazione della stretta connessione, non meritano accoglimento.
4. Questa Corte ha ripetutamente affermato che le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 8373 del 2018); inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione (Cass. n. 9167 del 2003).
Invero, i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento (o inadempimento) della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 (ex aliis, Cass. n. 6174 del 2019, Cass n. 8373 del 2018; Cass. nn. 10636 e 26682 del 2017; Cass. n. 9167 del 2023; Cass. nn. 27610 e 30079 del 2024).
Il controllo tramite agenzie investigative si giustifica “per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione” (Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017).
5. E’ stato precisato che le norme poste dagli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell’ambito dell’azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno – costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa – l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti né il divieto di cui alla stessa legge n. 300 del 1970, art. 4, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. n. 16196 del 2009; Cass. n. 23303 del 2010; Cass. Cass. n. 10955 del 2015).
6. Più recentemente, questa Corte (Cass. nn. 23985, 27610 e 30079 del 2024) ha precisato come la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell’attività dei lavoratori vada intesa in una accezione estesa; si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, […] costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass. n. 2722 del 2012; sulla tutela dell’immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266 del 2018); costantemente, poi, è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti (Cass. n. 10636 del 2017) o a presidio della cassaforte aziendale (Cass. n. 22662 del 2016), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (per tutte v. Cass. n. e all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (Cass. n. 23985 del 2024).
7. Questa Corte ha, inoltre, precisato che “l’accertamento circa la riferibilità (o meno) del controllo investigativo allo svolgimento dell’attività lavorativa rappresenta una indagine che compete al giudice del merito, involgendo inevitabilmente apprezzamenti di fatto” (in termini, da ultimo, Cass. n. 22051 del 2024).
8. Orbene, nella fattispecie in esame, il convincimento della Corte territoriale si è basato sull’esito di un’attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, ove è stato accertato che, per alcuni giorni, il lavoratore aveva adottato comportamento illecito, suscettibile altresì di rilievo penale o, comunque, idoneo a raggirare il datore di lavoro e a ledere non solo il patrimonio aziendale ma anche l’immagine e la reputazione dell’azienda all’esterno.
9. Deve, pertanto, ritenersi corretto il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale.
10. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
11. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquidata in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
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