(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
Corte di cassazione. Sentenza 6 aprile 2025, n. 9058
Licenziamento. Normativa sul pubblico impiego. Diffida preventiva. Sanzione espulsiva. Proporzionalità della sanzione. Violazione degli obblighi contrattuali. Doveri connessi allo status di dipendente pubblico. Titolarità di impresa individuale. Responsabilità disciplinare. Obbligo di esclusività
“[…] La Corte di cassazione
(omissis)
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Napoli ha rigettato l’appello proposto da C.L. avverso la sentenza emessa tra le parti del Tribunale di Napoli che dichiarava la legittimità del licenziamento disciplinare comunicato al lavoratore in data 30 gennaio 2020 dall’ASL Napoli 2 Nord, in ragione dello svolgimento di attività incompatibile con il rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, con violazione dei doveri connessi allo status di dipendente pubblico.
La Corte d’Appello ha affermato che nella specie il datore di lavoro non aveva attivato la preventiva diffida ma aveva promosso il procedimento disciplinare.
La diffida non costituiva un momento di garanzia per il dipendente ma piuttosto uno strumento attraverso il quale si attiva un procedimento specifico con effetti prestabiliti dalla legge.
Dunque, nella specie veniva in rilievo solo la legittimità o meno del provvedimento espulsivo.
Sul punto, il giudice di appello, dopo aver richiamato l’art. 57 del d.lgs. n. 165 del 2001, gli artt. 60 e 63 del dPR n. 3 del 1957, la disciplina contrattuale di Comparto, e aver affermato che la condotta del lavoratore che viene a trovarsi in contrasto con tali previsioni è già di per sé disciplinarmente rilevante, ha osservato che l’addebito mosso al dipendente risultava adeguatamente motivato da parte dell’ASL e il provvedimento sanzionatorio era proporzionale alla condotta posta in essere, connotata da gravità, trattandosi di condotta protratta nel tempo che dava luogo alla violazione degli obblighi contrattuali del dipendente pubblico con la lesione del rapporto fiduciario.
Il lavoratore era risultato titolare di un’impresa individuale sin dall’anno 2016, con apertura di una sede secondaria a partire dal 2017 e non aveva mai palesato all’Azienda datrice di lavoro lo svolgimento di tale attività e aveva provveduto a dismettere la stessa solo a seguito di contestazione da parte dell’Amministrazione.
2. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando due motivi di ricorso, assistito da memoria.
3. Resiste l’ASL Napoli 2 Nord con controricorso.
4. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto error in iudicando, violazione e falsa applicazione art. 360, n. 3, c.p.c.; art. 63 d.P.R. 3/1957: erronea applicazione della normativa di riferimento – errato ed improprio apprezzamento del provvedimento espulsivo (rispetto al quadro normativo di riferimento).
Il ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento espulsivo, in quanto giunto a valle di un procedimento disciplinare attivato senza la previa diffida imperniato sul sol fatto di un dedotto svolgimento di un’attività violativa del dovere di esclusiva e soltanto per ciò motivato; senza che risultassero né contestati, né dedotti o comprovati, elementi di disvalore ulteriori, ovvero inadempienze aggiuntive, seppur collaterali e collegate, quali, ad esempio uno scarso rendimento lavorativo.
Dopo aver richiamato la disciplina del procedimento di diffida il ricorrente ha illustrato che il provvedimento disciplinare sarebbe illegittimo, non tanto perché non abbia ritenuto di anteporre al procedimento disciplinare il meccanismo della preventiva diffida, ma perché ha erroneamente ritenuto di poter sostanziare il procedimento disciplinare solo ed esclusivamente sullo status di incompatibilità, senza nulla aggiungere – in termini tanto obiettivi che soggettivi – a tale dato di fatto, concludendo il procedimento con la massima sanzione espulsiva.
Anche a non ritenere come necessaria pregiudiziale l’attivazione del procedimento di diffida di cui al Testo Unico, l’iniziativa disciplinare di ASL Napoli 2 sarebbe comunque viziata in radice: e ciò sin dalla fase di avvio di contestazione degli addebiti, passando per lo sviluppo del procedimento e giungendo, infine, al provvedimento espulsivo.
Quest’ultimo si basa sul dedotto e contestato svolgimento di un’attività d’impresa, senza alcunché aggiungere (in termini di rendimento, di immagine, od altro) a supporto dell’iter motivazionale disciplinare, concretizzando così non un semplice travisamento, ma una violazione del quadro normativo di riferimento.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto error in iudicando, violazione e falsa applicazione art. 360, n 3 e n. 5; art. 66, d.P.R. 3/1957: errato ed improprio apprezzamento del provvedimento espulsivo – manifesta sproporzionalità della sanzione espulsiva – errata e/o omessa valutazione di atti di causa.
Assume il ricorrente che in mancanza di ricadute dannose per l’amministrazione, in primis in ordine all’apporto quali-quantitativo mansionale del dipendente incolpato, al più – in un’ottica di prudente ed equilibrato esercizio del potere disciplinare – si sarebbe potuta “ipotizzare” una sanzione di natura conservativa, ma non quella drasticamente espulsiva viceversa adottata.
Ricorda, quindi, che l’attività in questione è quella di raccolta di scommesse sportive.
Tale attività, è strettamente e puntualmente normata e richiede una serie di adempimenti e autorizzazioni prima di poter essere esercitata.
Quanto poi all’apertura della presunta sede secondaria è sufficiente scorrere il certificato camerale della società della quale il C. era titolare, per verificare la presenza di una, ed una soltanto sede operativa della società.
Di talché l’attività non era mai iniziata.
Gli anni di apertura erano frutto dell’articolato iter normativo descritto, necessario ad avviare l’attività, che nei fatti non è mai stata esercitata dalla società dell’odierno ricorrente.
Esso ricorrente, all’atto della contestazione ha provveduto alla cessazione dell’attività con chiusura della società, che, di fatto, non ha mai operato, altra circostanza semplicemente desumibile dai documenti contabili versati in atti.
Contesta l’affermazione contenuta nella sentenza di appello “i documenti prodotti dall’odierno appellante risultano fumosi”.
3. I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi non sono fondati.
Occorre premettere che come esposto nella sentenza di appello, l’ASL Napoli 2 Nord accertava l’inosservanza della disciplina sull’incompatibilità ex art. 60 del dPR n. 3 del 1957, avendo rilevato che il lavoratore, a partire dal 7 ottobre 2016, era titolare di un’impresa individuale, con relativa partita IVA, la cui attività prevalente risultava essere quella di Bookmaker e scommesse; inoltre a partire dal 28 febbraio 2017 risultava l’apertura di un unità locale secondaria per l’esercizio dell’attività, nonché la presenza di n. 3 dipendenti (poi ridotti a 2) tra il secondo semestre del 107 e il primo semestre del 2018.
In ragione di ciò veniva avviato il procedimento disciplinare.
La Corte d’Appello ha dato poi atto delle difese del ricorrente, prospettate anche con l’odierno ricorso, quanto all’asserito mancato svolgimento in concreto dell’attività imprenditoriale, e il fondarsi del provvedimento espulsivo solo su dati formali emergenti dalle visure camerali.
4. Come è noto, la normativa sul pubblico impiego prevede il dovere di ‘esclusività’ del dipendente pubblico, il quale è obbligato a riservare all’ufficio di appartenenza tutte le sue energie lavorative, con espresso divieto, salve limitate tassative eccezioni, di svolgere attività imprenditoriale, professionale o di lavoro autonomo, nonché di instaurare rapporti di lavoro alle dipendenze di terzi o accettare cariche o incarichi in società o enti che abbiano fini di lucro.
L’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 rappresenta la norma generale in materia; tale disposizione, che si applica a tutti i dipendenti pubblici, al primo comma (come modificato dall’art. 3, comma 8, lett. b, della legge n. 145/2002), richiama espressamente il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi di cui all’art. 60 del d.P.R. 10/1/1957 n. 3, secondo il quale: “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 31277 del 2019) la normativa ha posto sbarramenti assoluti, mirando a prevenire, già sul piano della potenzialità, il dispendio di energie del lavoratore pubblico in altre attività; così la preminenza dell’interesse pubblico ha determinato un assetto segnato dalla equiparazione di attualità e potenzialità del conflitto: l’ordinamento ha inteso prevenire, con il regime delle incompatibilità, il concretarsi del contrasto, inibendo le condizioni favorevoli al suo insorgere; trattasi di valutazione astratta con giudizio prognostico ex ante, indipendentemente dall’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio (si veda Cons. St., Sez. V, 13 gennaio 1999, n. 24 secondo cui: “non vale ad escludere la situazione d’incompatibilità di un pubblico dipendente, che eserciti un’attività imprenditoriale, il fatto che egli eserciti regolarmente il suo lavoro, in quanto la norma d’incompatibilità mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente stesso, ai fini di un miglior rendimento nei confronti della p.a. datrice di lavoro”).
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di sottolineare che in materia di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di incompatibilità assoluta, vengono in rilievo due diversi aspetti (Cass., n. 8722 del 2017): ove si profili una situazione di incompatibilità assoluta, vengono in rilievo due diversi aspetti: l’uno relativo alla cessazione automatica del rapporto, che per volontà del legislatore si verifica qualora la incompatibilità non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente; l’altro inerente alla responsabilità disciplinare per la violazione del dovere di esclusività, responsabilità che può essere comunque ravvisata anche nell’ipotesi in cui l’impiegato abbia ottemperato alla diffida.
Mentre la prima conseguenza opera su un piano oggettivo e prescinde da valutazioni sulla gravità dell’inadempimento, la seconda è assoggettata ai principi propri della responsabilità disciplinare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, presuppone sempre un giudizio di proporzionalità fra fatto contestato e sanzione.
Di talché qualora venga avviato il procedimento disciplinare, come nella specie, per la violazione dell’obbligo di esclusività protrattasi nel tempo, il giudizio deve essere espresso tenendo conto dei profili oggettivi e soggettivi dell’illecito ma, quanto al primo aspetto, deve essere considerata la disciplina normativa sopra richiamata sull’incompatibilità e la rilevanza che nel rapporto di impiego pubblico il legislatore attribuisce al principio di esclusività che determina il venir meno dei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità, di preminente rilievo nel rapporto di impiego.
La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di questi principi, atteso che l’Amministrazione ha promosso il procedimento disciplinare in ragione della titolarità di impresa individuale – circostanza non specificamente contestata e non incisa, in ragione della giurisprudenza sopra richiamata, dal dedotto profilo dell’asserito mancato inizio in concreto dell’attività di bookmaker e scommesse – contestando la violazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, che richiama l’art. 60 cit., nonché la violazione dell’art. 1, commi 60 e 61, della legge 662/96, secondo i quali la violazione dell’obbligo di svolgere attività di lavoro autonomo per il personale costituisce giusta causa di recesso.
La Corte d’Appello ha inoltre ricordato che l’ASL inoltre ha contestato la violazione dell’art. 66, comma 10, CCNL Comparto sanità che prevede “Le mancanze non espressamente previste nei commi precedenti sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all’individuazione dei fatti sanzionabili, ai codici di comportamento aziendali e agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 64 (Obblighi del dipendente), e facendosi riferimento, quanto al tipo e alla misura delle sanzioni, ai principi desumibili dai commi precedenti”.
Di talché l’addebito mosso al dipendente era adeguatamente motivato.
Ha quindi svolto il giudizio di proporzionalità, in modo motivato, tenendo conto dei principi di gradualità previsti dal medesimo art. 66 del suddetto CCNL, come richiamati nella sentenza di appello, non solo rilevando la gravità della violazione degli obblighi legali e contrattuali, attesa la titolarità di impresa individuale dal 2016, non palesata all’Amministrazione, la cui evidenza documentale non era stata contrastata da elementi probatori, ma anche la mancanza di elementi attenuanti o esimenti.
5. Il ricorso deve essere rigettato.
6. Le spese seguono la soccombenza […].
P.Q.M.
Rigetta il ricorso […]”.
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