Nota di Luigi Verde.
Cassazione Civile, Sez. Lav., sentenza 19 ottobre 2023, n. 29101.
Ambiente lavorativo stressogeno. Anche lo straining va risarcito. Va accolta la domanda di risarcimento del danno se viene accertato lo straining e non il mobbing. Reiterazione, intensità del dolo o altre qualificazioni sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento.
1.Come noto, lo straining è una forma di mobbing senza la continuità delle azioni vessatorie.Esso rappresenta comunque uno stress inflitto dal superiore al lavoratore, con azioni ostili per discriminarlo. Nel caso in questione, i giudici rimarcano che al di là “della qualificazione come mobbing e straining”, quel che conta “è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito” da cui deriva una violazione dell’integrità psicofisica e personale del lavoratore coinvolto.
2. I fatti.
2.1.Un lavoratore, a seguito dell’azione proposta nei confronti della società datrice di lavoro, si vedeva riconosciuto il diritto all’inquadramento superiore nel 5 livello CCNL di categoria, nonché al pagamento delle differenze retributive e all’ integrazione del TFR.
La Corte d’appello territoriale, tuttavia, negava al ricorrente la fondatezza della domanda di risarcimento di tutti i danni, contrattuali ed extracontrattuali, per mobbing, sulla scorta della responsabilità della datrice di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c.oltre che dell’art.2103, c.c. La Corte d’appello, pur accertando la dequalificazione subita dal lavoratore, escludeva il mobbing per mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli fatti mobbizzanti: demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità. Ciò sebbene avesse riconosciuto i rapporti stressogeni intrattenuti dalla capoufficio con tutti i dipendenti ma soprattutto nei confronti del lavoratore, verso il quale aveva adottato una condotta che la stessa Corte d’appello aveva qualificato come “stressante modalità di controllo”.
Inoltre, risultava che era stato proprio il difficile rapporto con la capoufficio a generare un’animata discussione durante la quale il lavoratore aveva accusato un attacco ischemico.
La Corte d’appello, pur avendo accertato tale condotta, affermava che dovesse negarsi la sua illiceità, trattandosi di un episodio isolato esulante dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo, con una chiara finalità che deve sussistere per poter qualificare come mobbizzante la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico.
2.2.Avverso la sentenza della Corte d’appello, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, richiamando l’orientamento secondo cui, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, a venire in rilievo è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica).
La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione, rappresentata dal risarcimento del danno.
Tanto premesso, i giudici di legittimità hanno, inoltre, ricordato di aver assegnato valore dirimente all’ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c..
3. Di seguito pubblichiamo passi della sentenza della Cassazione.
Cassazione Civile, Sez. Lav., 19 ottobre 2023, n. 29101.
[…]
Fatto
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza in atti, in parziale riforma della sentenza di primo grado dichiarava il diritto di G.G. all’inquadramento superiore nel 5 livello CCNL di categoria a far data dal maggio 2004, condannando l’appellata […] al pagamento della somma di Euro 15.129,81 per differenze retributive e di Euro 3977,32 per integrazione TFR, oltre accessori, compensando per due terzi le spese di lite e condannando […] al pagamento del residuo importo liquidato in sentenza.
Nel contempo la Corte di appello ha negato la fondatezza della domanda di risarcimento di tutti i danni, contrattuali ed extracontrattuali, per mobbing prospetta dal ricorrente sulla scorta della responsabilità della datrice di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c. oltre che dell’art. 2103 c.c.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso G.G. con quattro motivi ai quali ha resistito (omissis) S.p.A. con controricorso.
Le parti hanno depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c., comma 2, u.p.
Diritto
1.- Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 113 c.p.c., falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., identità della disposizione regolatrice della fattispecie di mobbing e straining. Sussistenza di straining quale condotta unica. Omessa sussunzione del medesimo fatto nell’art. 2087 c.c. quale condotta di straining, discostamento della decisione dalla giurisprudenza di legittimità.
2.- Con il secondo motivo si prospetta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., error in procedendo. Omessa pronuncia sulle domande contenute nel petitum dei fatti allegati a sostegno del comportamento vessatorio datoriale, sotto il profilo dello straining, compatibile anche con condotte violative di diritti della persona del lavoratore, ma attuale, attraverso condotte uniche o prive di reiterazione comunque in contrasto con l’art. 2087 c.c. Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Nullità della sentenza.
3.- Con il terzo motivo si solleva ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 nullità della sentenza per la parte relativa al recepimento delle conclusioni del c.t.u. Motivazione apparente ed intrinsecamente inconciliabile. Violazione degli art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 111 Cost., anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. In particolare per avere la Corte di appello condiviso gli accertamenti del CTU che pur avendo accertato le patologie a carico del ricorrente ne ha escluso la connessione causale con l’attività di lavoro per mancanza del mobbing, del demansionamento, della forzosa inattività; non essendo valutata l’efficacia causale dello straining ovvero dell’episodio illecito che è stato accertato come commesso ai danni del ricorrente.
4.- Con il quarto motivo si deduce ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 34, violazione dell’art. 112 c.p.c. anche in relazione agli artt. 1223,2059,2087 c.c., nonché artt. 2,3,4,35,41 Cost., comma 2. Omessa pronuncia su ulteriori profili del danno areddituale e relativo nesso eziologico, diversi dal danno biologico. Nullità della sentenza e sua erroneità per falsa applicazione di norme di legge.
5.- Il primo ed il secondo motivo sono fondati nei termini di seguito indicati.
6.- La Corte di appello ha accertato la dequalificazione commessa ai danni del lavoratore, ma ha escluso il mobbing per mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli fatti mobbizzanti (demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità)
In merito ai contrasti tra il ricorrente e la sua diretta superiore signora D.A., la Corte ha però accertato che quest’ultima intratteneva rapporti stressogeni con tutti i dipendendi ma in specie nei confronti del ricorrente, nei cui confronti aveva messo in atto una condotta che la stessa Corte ha qualificato come stressante modalità di controllo, aggiungendo che fu proprio il difficile rapporto con quest’ultima a generare l’animata discussione del (omissis) tra il ricorrente e la D.A. durante la quale il signor G. ebbe un attacco ischemico.
Al di là della sintesi riportata in sentenza, si è trattato, per quanto emerge da una testimonianza trascritta nella ctu riprodotta in atti, della seguente condotta: “la testimone C. riferisce che era mattina presto, lo ero seduta nella postazione vicino al ricorrente alla sua destra e si avvicinò la D.A. al ricorrente dicendo lui cosa stava facendo in quanto c’erano dei problemi tecnici il computer si era fermato e lei con la sua prepotenza si volle sedere nella postazione del ricorrente e lì ho sentito che aveva cancellato dei file non so di che tipo e il ricorrente disse ma sono spariti tutti i file e adesso come si fa e lei rispose ora cercheremo di ripristinarli; del resto lo sono la capa; lo comando e faccio quello che voglio e poi la discussione si animò e lei non faceva nulla per smorzare i toni si alterava sempre di più fino a quando abbiamo visto il ricorrente adagiarsi sulla sedia e sentirsi male punto le dicevano nel nulla non è nulla ma poi la supervisor chiamo ambulanza e fu ricoverato e ritornò dopo tanto tempo”.
La Corte d’appello, pur avendo accertato tale condotta, ha affermato tuttavia che andasse negata l’illiceità della stessa trattandosi di un episodio isolato che esulava dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo, con una chiara finalità che deve sussistere per poter qualificare come mobbizzante la condotta del datore di lavoro hotel superiore gerarchico. Ha negato perciò qualsiasi tutela risarcitoria in relazione alla domanda svolta.
Così facendo però la Corte non ha fatto buon governo delle regole di diritto che vengono in rilievo in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore essendo oramai risalente l’orientamento (Cass. n. 3291 del 19 febbraio 2016) secondo cui, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica).
7.-La reiterazione, l’intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma è chiaro che nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza.
Invero è noto l’orientamento costante di codesta Suprema Corte (sent. n. 18164/2018, n. 3977/2018, cass. n. 7844/2018, 12164/2018, 12437/2018, 4222/2016), secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’art. 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (Cass. 29 marzo 2018 n. 7844, Cass. 10 luglio 2018 n. 18164, Cass. 23 maggio 2022 n. 16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428)
Codesta Corte con ordinanza del 7 febbraio 2023 n. 3692 ha assegnato valore dirimente al rilievo dell'”ambiente lavorativo stressogeno” quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.
Negli stessi termini da ultimo v. Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022.
8.- La Corte di appello dovrà quindi procedere ad un nuovo apprezzamento alla luce della regola di diritto evocata essendo stati dedotti i fatti e dovendo il giudice sempre apprezzare, pure ex officio, il contenuto anche potenziale della domanda. In questi termini vale l’insegnamento (Cass. n 3012/2010) secondo cui: “Il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il “petitum” e la “causa petendi”.
9.- I motivi di ricorso terzo e quarto vanno invece dichiarati assorbiti, dovendo la Corte procedere ad un autonomo apprezzamento delle premesse della responsabilità e delle eventuali conseguenze, sulla base della regola di diritto sopra indicata.
10.- In conclusione il ricorso deve essere accolto nei limiti indicati e la sentenza cassata nei limiti indicati; la causa va rinviata al giudice indicato in dispositivo il quale nella decisione della stessa si atterrà ai principi sopra indicati e procederà altresì alla regolazione delle spese del giudizio di Cassazione.
Non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, assorbiti il terzo e il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione per la prosecuzione della causa e per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione […]”
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