Il principio di tempestività nel licenziamento per superamento del periodo di comporto.
Nota di Giovanni Patrizi.
1. In caso di superamento del periodo di comporto, l’eventuale licenziamento dev’essere tempestivo o il datore dispone di un determinato lasso di tempo per esercitare il potere di recesso?
Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza 11 settembre 2020, n. 18960) il datore di lavoro deve rispettare il principio di tempestività nell’adottare il licenziamento. Tuttavia egli dispone di uno “spatium deliberandi”, durante il quale può valutare nel loro complesso il succedersi degli episodi morbosi del dipendente in relazione agli interessi dell’azienda. Detto altrimenti, il datore ha diritto di attendere il rientro in servizio del lavoratore malato per poterne valutare il possibile riutilizzo nell’assetto organizzativo dell’impresa senza che tale attesa valga ad una rinuncia all’esercizio del recesso. “Solo in tale contesto l’eventuale prolungata inerzia datoriale, da valutare a decorrere dal rientro del lavoratore, può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e può ingenerare un corrispondente affidamento da parte del dipendente” (Cassazione, 20 marzo 2019, n. 7849).
2.Nell’ordinanza n. 18960 dell’11 settembre 2020 la Cassazione ha affermato che non viola il principio di tempestività il licenziamento adottato a distanza di mesi dalla scadenza del periodo di comporto, poiché il datore può utilizzare quello “spatium deliberandi” per valutare la sostenibilità delle assenze del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali.
Nel caso di specie un lavoratore aveva contestato la tardività del licenziamento intimatogli a distanza di mesi dal superamento del periodo di comporto, dopo che il lavoratore aveva ripreso servizio alternando periodi di lavora ad altri di malattia.
La Corte d’Appello aveva respinto il ricorso ritenendo che il tempo trascorso tra la maturazione del comporto e il licenziamento fosse giustificato dalla volontà del datore di valutare la compatibilità della malattia con la prosecuzione dell’attività lavorativa che, per effetto dell’ulteriore assenza di due mesi per malattia sarebbe stata compromessa in via definitiva.
La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d’appello precisando che “il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata, che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative. Sarà il lavoratore invece a dover provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.
A differenza del licenziamento disciplinare, che postula l’immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, del licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del lavoratore alla certezza del rapporto contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberandi”, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali. In tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa (cfr. Cass. 12 dicembre 2018 n. 25535; Cass. 28 marzo 2011 n. 7037).
Difatti, in tali casi, l’interesse del lavoratore alla certezza della “vicenda contrattuale” va contemperato con quello del datore di disporre di un ragionevole lasso di tempo per valutare se le assenze per malattia del lavoratore risultino compatibili con gli interessi aziendali.
Spetta al lavoratore provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto (e quindi di conservazione del posto di lavoro) ed il licenziamento ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, tanto da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di rinunciare alla facoltà di recesso.
La S.C. ha evidenziato che nel caso in esame la Corte d’Appello aveva espresso con chiarezza che l’intervallo temporale trascorso era stato, invece, utilizzato per verificare l’esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione lavorativa, con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti: quello del lavoratore a conservare il posto di lavoro e quello del datore di lavoro a ricevere una prestazione utile.
3. In una precedente sentenza (n. 20722 del 14 ottobre 2015), la Corte di Cassazione era giunta a conclusioni diverse stabilendo che la riammissione in servizio del dipendente dopo il superamento del periodo di conservazione del posto impedisce al datore di lavoro di esercitare il recesso.
Un lavoratore, cessata la malattia che aveva determinato il superamento del periodo di comporto, era stato riammesso in servizio e successivamente posto in ferie. Dopo essersi nuovamente assentato per malattia veniva nuovamente posto in ferie. Alla loro scadenza il lavoratore veniva licenziato per superamento del comporto.
Sia in primo che in secondo grado veniva dichiarata l’illegittimità del licenziamento.L’avvenuta ripresa in servizio con il consenso del datore e l’ampio intervallo di tempo in cui il datore si era astenuto dal recesso escludevano infatti il nesso di causalità tra superamento del periodo di comporto e licenziamento.
La Corte di Cassazione ha confermato che “il recesso, intimato […] a distanza di circa due mesi dalla riammissione in servizio, sia stato disposto illegittimamente […]”: Detto altrimenti: nella parte in cui riammetteva in servizio il lavoratore, il datore manifestava implicitamente la volontà di proseguire il rapporto di lavoro e, di conseguenza, perdeva il diritto di poter recedere per superamento del comporto.
4. Secondo la prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, il datore ha sia il diritto di recedere dal rapporto non appena terminato il periodo di comporto sia la facoltà di attendere il rientro in servizio del lavoratore per poterne valutare il possibile utilizzo nell’assetto organizzativo dell’azienda, senza che tale attesa sia sintomatica di una volontà di rinuncia all’esercizio del recesso.
Ciò non significa che il datore disponga di un termine discrezionale nell’intimazione del licenziamento, che dovrà essere comunque adottato in un lasso di tempo ragionevole. D’altra parte non esiste una specifica norma che prescriva i termini a osservare affinché il licenziamento per superamento del periodo di comporto possa dirsi tempestivo.
Occorre valutare caso per caso, effettuando un bilanciamento tra l’esigenza del datore di disporre di un ragionevole intervallo temporale per valutare in concreto se sussistono margini di utilizzo del dipendente e l’affidamento del prestatore alla prosecuzione del rapporto.
La valutazione della tempestività del licenziamento per superamento del comporto è, ovviamente, demandata al giudice di merito. Spetta invece al lavoratore dimostrare che lo spazio temporale tra il superamento del comporto e l’adozione del licenziamento sia eccessivo e, in ogni caso, tale da violare il suo affidamento alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
5.Il principio di tempestività nel licenziamento in parola va dunque applicato e adattato caso per caso in base a criteri diversi rispetto al licenziamento disciplinare, caratterizzato come noto dall’immediatezza del recesso.
A tale riguardo giova segnalare che con sentenza 31 gennaio 2022, n. 2869, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero -a quello della contestazione- si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro. La S.C.
si è mossa nell’alveo di un principio già sancito dalle Sezioni Unite (sent. n. 30985/2017) circa l’essenza della tutela inerente l’immediatezza della contestazione, secondo cui il principio della tempestività della contestazione può risiedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare.
Pertanto, secondo la S.C., in tema di licenziamento disciplinare l’immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso.
6. Riportiamo di seguito parti delle due delle pronunzie citate (CORTE DI CASSAZIONE, Ordinanza 11 settembre 2020, n. 18960S, e CORTE DI CASSAZIONE, Sentenza 14 ottobre 2015, n. 20722)
6.1. CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 settembre 2020, n. 18960.
“[…] Rilevato che
1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha accolto il reclamo proposto da G. s.r.l. ed ha rigettato la domanda di F.D. che aveva chiesto si accertasse la illegittimità del licenziamento a lui intimato dalla G. s.r.l. il 25-29 settembre 2015 per giustificato motivo oggettivo in relazione all’avvenuto superamento del periodo di comporto ai sensi dell’art. 32 comma 7 del c.c.n.l. Mobilità Area Contrattuale Attività Ferroviarie e dell’art. 2110 cod.civ.[1]
2. Il giudice di appello, per quanto qui ancora interessa, ha rammentato che era oramai incontroverso tra le parti che il termine del comporto previsto dall’art. 32 comma 7 del c.c.n.l. applicabile era di dodici mesi. Aveva inoltre accertato che tale termine era scaduto nel mese di aprile del 2015 per effetto della somma delle assenze per malattia accumulatesi dal 19 novembre 2013 al 17 settembre 2015.
2.1. La Corte di merito ha evidenziato che il lavoratore non aveva contestato la effettività delle giornate di assenza per malattia dolendosi invece della tardività del licenziamento intimato a distanza di mesi dalla maturazione del periodo di comporto quando il lavoratore aveva ripreso servizio senza chiedere ulteriori aspettative per ragioni di salute ed alternando periodi di servizio e periodi di malattia.
2.3. Ha osservato poi che il tempo trascorso tra la maturazione del periodo di comporto e l’intimazione del licenziamento era giustificato dalla volontà della datrice di lavoro di verificare la compatibilità della malattia con la prosecuzione dell’attività che tuttavia, per effetto dell’ulteriore assenza di due mesi dovuta alla medesima malattia era poi apparsa definitivamente compromessa.
2.4. In tale prospettiva il giudice di appello ha escluso che lo spatium deliberandi fosse stato eccessivo evidenziando che, al contrario, la risoluzione del rapporto era stata comunicata solo una settimana dopo il rientro dall’ultima assenza protrattasi per due mesi durante il periodo estivo.
2.5. Ha concluso quindi che non era ravvisabile alcuna inerzia e che, anzi, l’attesa nel recedere era stata giustificata dalla verifica delle modalità di esercizio dell’attività lavorativa, nell’immediato ripresa e poi rarefatta durante il periodo estivo, durante il quale, nel mese di agosto, anche l’attività amministrativa della società era sospesa.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso F.D. affidato a quattro motivi ai quali resiste con controricorso la G. s.r.l.. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso ed entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis 1. cod. proc. civ.
Considerato che
4. Preliminarmente va dichiarata ammissibile la memoria depositata dalla G. s.r.l. in occasione dell’odierna adunanza camerale. Come risulta dagli atti di causa, infatti, in data 10 giugno 2020 la società controricorrente ha inviato per via telematica alla cancelleria una memoria che ha del pari notificato alla controparte via PEC in formato pdf p7m il 10 giugno 2020. Successivamente, in data 16 giugno 2020, la G. s.r.l. ha provveduto anche al deposito della memoria in formato cartaceo presso la cancelleria.
4.1. Va rammentato infatti che il presente procedimento, originariamente fissato per la decisione il 18 marzo 2020, ha sofferto del rinvio d’ufficio reso necessario dalla disciplina emergenziale collegata alla pandemia COVID 19. Ai sensi dell’art. 1 comma 1 del d.l. 8 marzo 2020 n. 11, infatti, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono state rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020.
Tale termine è stato successivamente differito prima al 15 aprile e poi all’ 11 maggio 2020 per effetto del disposto dell’art. 83 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (convertito dalla legge 24 aprile 2020 n. 27) e poi dell’art. 36 comma 1 del d.l. 8 aprile 2020 n. 23 (convertito dalla legge 5 giugno 2020, n. 40).
4.2. Per l’effetto con provvedimento n. 47 del 31 marzo 2020, adottato ai sensi dell’art. 83 comma 6 del citato d.l.n. 18 del 2020, è stato disposto che tutte le cause già fissate per la trattazione in adunanza camerale fino al 31 maggio 2020 fossero rinviate a nuovo ruolo per essere nuovamente fissate in adunanza camerale a decorrere dal 22 giugno 2020 nel “rispetto dei termini di legge” (cfr. i provvedimenti del Primo Presidente della Cassazione nn. 47 e 55 del 31.3 e 10.4.2020).
4.3. Osserva allora il Collegio che trattandosi di una nuova fissazione dell’adunanza camerale, d’ufficio rinviata per effetto di una disposizione di legge, i termini da rispettare sono quelli dettati, nello specifico, dall’art. 380 bis. 1 cod. proc. civ.. Tale norma dispone, da un canto, che dell’udienza è data comunicazione agli avvocati delle parti almeno venti giorni prima e, dall’altro, che ai difensori è concesso termine, fino a dieci giorni prima, per depositare memorie illustrative. In sostanza la disposizione autorizza le parti a meglio illustrare le rispettive posizioni e le difese già svolte in prossimità dell’adunanza fissata per la decisione. Non è prevista alcuna decadenza ma solo un lasso temporale adeguato per consentire alla Corte di esaminare le memorie. Né vi sono ragioni per ritenere che tale illustrazione sia preclusa nel caso in cui la parte, che in un primo momento non abbia inteso avvalersene, differita la decisione voglia illustrare le difese già svolte eventualmente richiamando, come nel caso in esame, i più recenti sviluppi della giurisprudenza.
4.4. Quanto al deposito telematico della memoria va rilevato che l’art. 83 comma 11 bis del citato d.l. 18 del 2020 ha disposto che fino al 31 luglio 2020 anche per la Corte di Cassazione il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Con il Protocollo d’intesa intervenuto tra la Corte di Cassazione, la Procura Generale presso la Corte di Cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense si è disposto che le memorie ai sensi degli artt. 380 bis, 380 bis 1e 380 ter cod. proc.civ. potranno essere trasmesse mediante invio dal proprio indirizzo di posta elettronica certificata alle PEC delle cancellerie della Corte di Cassazione ed alla PEC dei difensori delle altre parti processuali risultanti dai pubblici registri.
4.5. Nel caso di specie la società controricorrente ha nel termine di dieci giorni inviato alla PEC della controparte la memoria che ha trasmesso anche in cancelleria. Il successivo deposito della copia cartacea della memoria è adempimento ulteriore e di cortesia rispetto ad un deposito già ritualmente e tempestivamente effettuato nel termine di dieci giorni dalla data fissata e comunicata alle parti dell’adunanza camerale.
5. Venendo quindi all’esame dei motivi di ricorso ritiene il Collegio che il primo motivo -con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc.civ. per avere la sentenza d’ufficio evidenziato che il lavoratore non si era avvalso dell’aspettativa per motivi di salute, sebbene nulla al riguardo fosse stato allegato dalla società la quale non solo non lo aveva avvisato dell’esistenza di tale opportunità ma, neppure, lo aveva avvertito che il periodo di comporto stava per scadere – è infondato.
5.1. Il vizio di ultrapetizione può essere ravvisato nel caso in cui il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (cfr. Cass. 21/03/2019 n. 8048 ed anche Cass. 11/04/2018 n. 9002 e 24/09/2015 n. 18868). In sostanza la corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 cod. proc. civ., riguarda il “petitum” che va determinato con riferimento a quello che viene domandato sia in via principale che in via subordinata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto. Tuttavia, tale principio non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dalla parte (cfr. Cass. 24/03/2011 n. 6757 e 13/06/2002 n. 8479).
5.2. Nel caso in esame la Corte si è limitata ad utilizzare un argomento motivazionale che deriva dalla lettura effettuata dal giudice del c.c.n.l. ma che non si è riverberata né sul petitum né sulla causa petendi che è rimasta invariata. Il bene della vita riconosciuto è rimasto il medesimo ed il provvedimento chiesto con il ricorso è proprio quello riconosciuto.
6. Con il secondo motivo il ricorrente deduce che la Corte di merito, in violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ., avrebbe omesso di prendere in esame le risultanze della prova testimoniale, ammessa in appello, relative alla nocività delle mansioni svolte.
6.1. Sostiene il ricorrente che la Corte, pur avendo correttamente dato atto che la parte aveva rinunciato a far accertare la nocività delle mansioni svolte, avrebbe dovuto tenere conto comunque delle risultanze dell’istruttoria disposta e delle circostanze di fatto accertate, dalle quali erano emerse le caratteristiche dell’attività svolta.
7. Anche il secondo motivo di ricorso non può essere accolto. Ed infatti non può porsi nel giudizio di cassazione una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riguardo alla valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito. Solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione è ravvisabile la violazione di legge ( Cass. 17/01/2019 n. 1229 e 27/12/2016 n. 27000). Rientra infatti nella discrezionalità del giudice di merito la scelta delle prove da porre a fondamento della sua decisione ed in virtù del principio del libero convincimento, che è posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. ed opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, è insindacabile in sede di legittimità la scelta di valorizzare alcuni elementi di prova invece che altri. La mancata valutazione di elementi di prova può divenire rilevante ove si concreti in un omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia, censurabile nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. n. 23940 del 12/10/2017).
7.1. Tanto premesso il ricorrente non chiarisce la decisività delle circostanze di fatto che assume essere risultate provate e che sarebbero state trascurate dal giudice di appello. Conseguentemente la censura è inammissibile poiché pretende, nella sostanza, una diversa valutazione degli elementi di prova che non è consentita a questa Corte per le ragioni dette.
8. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 comma E-ter d.lgs. n. 81 del 2008, dell’art. 2110 secondo comma cod. civ., dell’art. 32 comma 6 del c.c.n.l. mobilità area AF del 20 luglio 2012 e degli artt. 1175 e 1375 cod.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ..
8.1. Ad avviso del ricorrente la sentenza, in violazione delle disposizioni denunciate, avrebbe ritenuto tempestivo il recesso sebbene, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, la condotta tenuta dal datore di lavoro – che aveva riammesso in servizio il lavoratore ed aveva lasciato trascorrere un considerevole periodo di tempo – doveva essere interpretata come una rinuncia a volersi avvalere della facoltà di risolvere il rapporto per superamento del comporto. Sottolinea il ricorrente che la condotta datoriale, per poter essere considerata corretta, avrebbe dovuto essere preceduta, e non lo era stata, dalla comunicazione al lavoratore che il periodo di comporto stava per scadere; dalla verifica dell’idoneità alle mansioni all’atto della ripresa del servizio e, in caso di accertata idoneità, dall’avviso che ad ulteriori assenze sarebbe potuto conseguire il licenziamento; dalla comunicazione della possibilità di avvalersi dell’aspettativa prevista dall’art. 32 comma 9 del c.c.n.l. in esito al decorso della quale, poi, avrebbe potuto essere licenziato.
9. Con l’ultimo motivo di ricorso, poi, è censurata la sentenza per avere – in violazione dell’art. 2110 comma 2 cod.civ., dell’art. 32 comma 6 e 11 c.c.n.l. mobilità area AF del 20 luglio 2012 e degli artt. 1175 e 1375 cod.civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc.civ. – ritenuto che la facoltà di recedere dal rapporto era stata legittimamente esercitata, trascurando di considerare che, nel corso del compimento del periodo di comporto, il ricorrente era rientrato in servizio riprendendo per tre mesi l’attività lavorativa con le modalità di sempre (compreso il superamento dell’orario di lavoro e la prestazione di attività anche diverse rispetto a quelle sue proprie).
10. Le censure non possono essere accolte. Ritiene il Collegio di dover dare seguito a quella giurisprudenza di questa Corte che ha ben chiarito in che modo la tempestività del recesso refluisca sulla sua legittimità nel caso in cui lo stesso sia intimato in relazione all’avvenuto superamento del periodo di comporto.
10.1. E’ stato condivisibilmente evidenziato infatti che in questo caso il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata, che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative. Sarà il lavoratore invece a dover provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto. A differenza del licenziamento disciplinare, che postula l’immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, del licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberando, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali. In tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa (cfr. Cass. 12/10/2018 n. 25535 e anche Cass. 28/03/2011 n. 7037).
10.2. Nel caso in esame il giudice di appello ha dato conto con chiarezza delle ragioni per le quali il tempo trascorso tra il formale compimento del periodo di comporto ed il licenziamento non era significativo di una volontà tacita, manifestata per fatti concludenti, di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto ma era piuttosto finalizzata a verificare in concreto l’esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti ( del lavoratore a conservare la posizione lavorativa e del datore di lavoro a ricevere una prestazione utile).
10.3. Né il datore di lavoro, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, era tenuto a comunicare al lavoratore l’approssimarsi del compimento del comporto ovvero ad indicare strumenti alternativi all’assenza per malattia. Nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, in cui il dato dell’assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva. Non rileva, pertanto, la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cd. esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, ove come nella specie non risulti esistente un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione(cfr. Cass. 17/08/2018 n. 20761 e Cass. 28/06/2006 n. 14891).
11. In conclusione per le ragioni su esposte il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio, che seguono la soccombenza, sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate […]”
6.2. CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 ottobre 2015, n. 20722.
“[…] Svolgimento del processo
Il Tribunale di Pesaro dichiarava illegittimo il licenziamento disposto dalla S. S.p.A. nei confronti di B.S. con effetto dal 17 settembre 2001 per superamento del periodo di comporto e condannava la società alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla proposizione del ricorso introduttivo.
Su impugnazione di entrambe le parti, la Corte d’appello di Ancona, con sentenza depositata il 27 giugno 2011, respingendo l’appello principale della società, confermava la illegittimità del licenziamento e, in accoglimento di quello incidentale del lavoratore, condannava la società al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento sino alla effettiva reintegrazione nonché al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
Ha osservato la Corte anzidetta che il lavoratore, cessata la malattia che aveva determinato il superamento del periodo di comporto, era stato riammesso in servizio il 26 luglio 2001 e posto in ferie fino al 17 agosto 2001. Si era quindi assentato per malattia dal 18 agosto al 4 settembre 2001 e poi era stato posto di nuovo in ferie sino al 16 settembre 2001. Il giorno successivo (17 settembre) era stato licenziato.
Ad avviso della Corte, l’avvenuta ripresa del servizio con il consenso del datore di lavoro ed il lasso di tempo con cui il medesimo aveva soprasseduto al recesso (dal 26 luglio al 17 settembre 2001), escludevano il nesso di causalità tra il superamento del periodo di comporto ed il licenziamento.
Questo era dunque illegittimo, con la conseguenza che il lavoratore oltre ad essere riammesso in servizio, aveva diritto alle retribuzioni sino alla data della reintegrazione.
Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso la società sulla base di dodici motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ. Il lavoratore è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Con i primi quattro motivi, trattati congiuntamente ed attinenti al risarcimento del danno, la ricorrente deduce che con il ricorso introduttivo il lavoratore, oltre a chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro, aveva limitato la richiesta risarcitoria a cinque mensilità di retribuzione (ex art. 18 St. lav.), indicando il relativo importo (€ 14.177,25). La domanda era stata accolta in questi termini in primo grado. Con il ricorso in appello era stata ampliata la domanda ed era stato chiesto il pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quella della reintegrazione. La Corte di merito, in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ha accolto la domanda in conformità a tali richieste.
2. Con il quinto, sesto e settimo motivo, anch’essi trattati congiuntamente, la ricorrente, in relazione alla ritenuta non tempestività del recesso, deduce vizio di motivazione, omesso esame di documenti, violazione di plurime disposizioni di legge.
Rileva che il lavoratore, dopo il periodo di malattia, cessato il 24 luglio 2001, era stato riammesso in servizio; quindi era stato in ferie, poi nuovamente in malattia e quindi di nuovo in ferie sino al 16 settembre 2001 senza soluzione di continuità. Non vi era stata quindi alcuna ripresa del servizio né tanto meno il recesso era stato intempestivo, essendo stato intimato il 17 settembre 2001.
3. Con l’ottavo e il nono motivo, pure trattati congiuntamente, la ricorrente, denunciando violazione di norme di diritto e carenza di motivazione, assume che, ai fini della liquidazione del risarcimento del danno, la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto del concorso di colpa del lavoratore nella determinazione dello stesso, tenuto conto che erano stati lasciati decorrere oltre cinque anni prima di promuovere l’azione giudiziale e che usando l’ordinaria diligenza il lavoratore ben avrebbe potuto trovare una nuova occupazione.
4. Con il decimo, undicesimo e dodicesimo motivo, trattati congiuntamente, la società, denunciando plurime violazioni di norme di diritto e vizio di motivazione, deduce che il lavoratore, nell’impugnare la sentenza di primo grado in ordine alla entità del risarcimento, ha genericamente dedotto che quel giudice, nella determinazione dello stesso, era incorso in una “svista”. Era stato invece proprio il lavoratore a chiedere il risarcimento pari a cinque mensilità. La sentenza di primo grado, che aveva deciso in conformità alla richiesta del lavoratore, non avrebbe pertanto potuto essere sul punto riformata.
5. Il ricorso, articolato in dodici motivi, attiene a tre questioni: legittimità del recesso; conseguenze risarcitorie derivanti dalla illegittimità (eventuale) dello stesso; concorso di colpa del lavoratore ai fini della determinazione del risarcimento del danno.
Esso è fondato solo con riguardo alle conseguenze risarcitorie derivanti dalla illegittimità del licenziamento.
Devono innanzitutto essere respinte le censure rivolte alla sentenza impugnata per avere dichiarato illegittimo il recesso.
Il lavoratore, cessato il periodo di malattia, è stato riammesso in servizio dal datore di lavoro, senza che questi, pur essendo stato superato il periodo di comporto, si fosse opposto alla ripresa del lavoro, manifestando anzi con detto acquiescente comportamento la volontà di non volersi avvalere del potere di recesso.
I successivi eventi – concessione delle ferie e fruizione di un ulteriore periodo di riposo per ragioni di salute – non possono spiegare alcuna rilevanza sul licenziamento, trattandosi di fatti non connessi causalmente a quelli che hanno determinato il superamento del periodo di comporto.
Deve di conseguenza ritenersi, confermando sul punto l’impugnata sentenza, che il recesso, intimato in presenza di una precedente chiara volontà del datore di lavoro di voler continuare ad avvalersi delle prestazioni lavorative del B. e, per giunta, a distanza di circa due mesi dalla riammissione in servizio, sia stato disposto illegittimamente, verosimilmente non già per il superamento del periodo di comporto, quanto piuttosto perchè il lavoratore, dopo il rientro in servizio, si è ancora assentato per un ulteriore periodo.
6. Il lavoratore con il ricorso introduttivo ha chiesto, oltre la reintegrazione nel posto di lavoro, la condanna del datore di lavoro al pagamento di cinque mensilità di retribuzione ex art. 18 St. lav., pari ad € 14.177,25.
Il giudice di primo grado ha accolto la domanda negli stessi termini.
Tale statuizione, con riguardo alle conseguenze risarcitorie, è stata riformata dalla Corte di merito, la quale, in difformità dell’originario petitum, “ampliato” in appello, ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione.
Sul punto, la sentenza impugnata, in accoglimento delle censure proposte dalla società ricorrente, deve essere cassata, trattandosi di statuizione resa in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) ed a seguito di una domanda nuova, formulata in appello.
A tale ultimo riguardo, va precisato che “Costituisce domanda nuova in appello, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437 cod. proc. civ., la richiesta del lavoratore di condanna del datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni maturate successivamente alla data del licenziamento dichiarato illegittimo dal primo giudice, ove egli si sia limitato in primo grado a chiedere la liquidazione del danno nella misura di cinque mensilità” (cir. Cass. 3 giugno 1995 n. 6253).
Restano assorbiti i motivi attinenti al concorso di colpa del lavoratore nella determinazione del risarcimento del danno.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito ex art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con la condanna – come disposta dal giudice di primo grado – del datore di lavoro al pagamento della suddetta somma di € 14.177,25, pari a cinque mensilità, con gli accessori di legge.
L’esito alterno dei giudizi di merito e l’accoglimento parziale del presente ricorso, giustificano la compensazione delle spese dei giudizi di merito, mentre non v’è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, essendo il lavoratore rimasto intimato.
P.Q.M.
Rigettato ogni altro motivo ed assorbiti l’ottavo e il nono, accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna la società ricorrente al pagamento […]”:
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[1] L’art. 2110 c.c.. (secondo comma) dispone che in caso di malattia “l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’ art. 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.”
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