Ancora sull’interpretazione del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.
Cass. 9 Luglio 2021, n. 19585.Corte di Cassazione. Sentenza 9 luglio 2021, n. 19585.
Ancora sull’interpretazione del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.
di Luigi Verde
Al fine di stabilire quale sia la portata applicativa delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo per le quali è prevista l’irrogazione di una sanzione conservativa, l’esegesi della norma va condotta attraverso la corretta e completa applicazione dei tradizionali criteri di ermeneutica contrattuale.
Licenziamento disciplinare. Mancata emissione dello scontrino. Condotta comune ad altre colleghe. Negligenza nell’adempimento degli obblighi lavorativi. Sanzione conservativa e non espulsiva.
1. Una lavoratrice, addetta al bar di un centro commerciale di Massa, era stata licenziata per aver omesso di registrare un certo numero di acquisti e quindi di consegnare gli scontrini ai clienti, omettendo inoltre di versare i corrispettivi in cassa in tre giornate lavorative diverse.
Il Tribunale di Massa aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato alla lavoratrice disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro, ai sensi del 4° comma dell’art. 18, Statuto dei lavoratori.
Secondo il Tribunale, l’istruttoria esperita aveva consentito di accertare che erano stati gli stessi responsabili del punto vendita a chiedere alla lavoratrice e ad altre commesse di non registrare gli acquisti, allo scopo di acquisire danaro in nero e anche per simulare con quello stesso danaro l’acquisto di altri prodotti del Bar “in promozione”, la cui vendita dava diritto a premi per i direttori, e per lo stesso punto vendita. La condotta censurata era dunque comune ad altre colleghe: nessuna di loro aveva sottratto danaro, mettendolo invece a disposizione dei loro superiori. Pertanto il suo comportamento avrebbe dovuto essere sanzionato con un provvedimento conservativo e non espulsivo, ai sensi del CCNL applicato all’azienda.
Di converso, con sentenza n. 397/2018, la Corte di appello di Genova aveva riformato in parte la sentenza di primo grado relativamente al regime di tutela applicabile al licenziamento, ritenendo che la fattispecie rientrasse nelle “altre ipotesi” di cui al CCNL applicato, condannando pertanto il datore solo al pagamento di 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il rifiuto di applicare la tutela reale si basava sui seguenti presupposti: a) i fatti addebitati erano provati ma non erano così gravi da giustificare il recesso, poiché, come ritenuto dal Tribunale, la ricorrente non aveva fatto altro che applicare le direttive datoriali; b) l’assunto della società ricorrente, secondo cui la lavoratrice avrebbe potuto autonomamente disattendere le direttive dei responsabili del servizio, essendo la condotta impostale contraria a norme di legge, ed anzi avrebbe dovuto denunciarla ai superiori e/o al sindacato, non consentiva di modificare tale giudizio, essendo evidente il condizionamento psicologico subito dalla ricorrente e dalle altre addette al punto vendita; c) diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, il comportamento addebitato non poteva considerarsi frutto di semplice negligenza punibile ai sensi del CCNL con una sanzione conservativa, ma era frutto di una condotta consapevolmente volta a far conseguire non solo ad altri (direttori, capi area, il punto vendita) ma alla stessa ricorrente, vantaggi indebiti; d) doveva quindi applicarsi il principio enunciato dalla Cassazione secondo cui laddove vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela reale solo quando il fatto accertato rientri tra le condotte punibili ai sensi del CCNL con una sanzione conservativa, mentre va riconosciuta la tutela risarcitoria se, come nel caso qui in esame, la condotta addebitata non coincida con alcuna delle fattispecie previste dal CCNL.
Chiamata a pronunciarsi, la Corte di Cassazione ha affermato che la lavoratrice si era limitata ad “assecondare” le richieste dei suoi superiori, sicché “il grado di colpa che le può essere addebitato è modesto”, e secondo principi consolidati e granitici di legittimità, il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta valutativa del giudice della fattispecie, sono propri del giudice di merito, insindacabili nel “terzo grado”.
La S.C., nell’occasione, chiarisce il concetto di “proporzionalità” richiamando alcuni suoi principi consolidati: a) nell’ambito della valutazione di proporzionalità tra la sanzione e i comportamenti, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa; b) laddove il fatto contestato e accertato commesso dal lavoratore sia espressamente contemplato da una previsione di CCNL o di Regolamento Aziendale come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà meritevole della tutela reintegratoria (Cass. n. 31839/2019).
Trattasi dunque di interpretare le norme dei CCNL e dei Regolamentari Aziendali.
Ad avviso della Suprema Corte anche nell’interpretazione dei contratti collettivi, andrebbero applicati i principi di cui: x) all’art. 1362 c.c., che impone all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole; y) all’art. 1363 c.c., che ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, indica quale principale strumento il senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo dev’essere però verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento “le une a mezzo delle altre” attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’intero negozio, non utilizzando singole parti del contratto o frammenti di esso (Cass. n. 4670 del 2009); z) all’art. 1365 c.c., che consente l’interpretazione estensiva di clausole contrattuali se inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione delle medesime, e tenendo presenti le conseguenze volute dalle parti con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati per ricomprendervi anche quelli non menzionati (Cass. n. 9560/2017, richiamata pure da Cass. sez. lav. n. 31839/2018; cfr. Cass. n. 31839/2019, in motivazione). È stato invece escluso il ricorso all’applicazione analogica anche perché l’accesso alla tutela reale di cui al 4° comma dell’art. 18, St.Lav. è divenuto eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 92/2012.
La Corte, in conclusione, al fine di stabilire quale sia la portata applicativa delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo per le quali è prevista l’irrogazione di una sanzione conservativa, e conseguentemente la tutela invocabile e applicabile, stabilisce che l’esegesi della norma va condotta attraverso la corretta e completa applicazione dei tradizionali criteri di ermeneutica contrattuale nei termini di cui alla citata giurisprudenza. Questa operazione interpretativa nella sentenza impugnata è mancata, e l’omessa disamina della disciplina contrattuale rende la sentenza carente di motivazione in ordine al processo logico attraverso il quale è giunta ad escludere la riconducibilità della condotta posta in essere in alcuna delle previsioni contrattuali suscettibili, secondo la volontà delle parti collettive, di sanzione conservativa e quindi, potrebbe rendere errata la tutela applicata.
Alla S.C. non resta quindi che cassare la sentenza di secondo grado, con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione, per il riesame del merito dell’appello alla luce dei principi ermeneutici sopra esposti.
2.Dal testo della Sentenza 9 luglio 2021, n. 19585.
“[…] Fatti di causa
- La Corte di appello di Genova, con sentenza n.
397 del 2018, ha riformato in parte la sentenza del Tribunale di Massa che
aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato in
data 26 febbraio 2016 da A. s.p.a. a D.B. e disposto la reintegra della
lavoratrice nel posto di lavoro, ai sensi del comma quarto dell’art. 18 legge
n. 300 del 1970, come novellato dalla legge n. 92 del 2012. - Alla lavoratrice, addetta al bar presso il centro
commerciale “M.M.” di Massa della soc. A., era stato addebitato di
avere omesso la registrazione di n. 22 acquisti e l’omessa consegna degli
scontrini ai clienti, con connesso omesso versamento dei corrispettivi in cassa
in tre giorni diversi. - Secondo il giudice di primo grado, in base delle
dichiarazioni dei testi, era possibile affermare che erano stati i responsabili
del punto vendita a chiedere alla ricorrente e alle altre addette alla vendita
di non registrare gli acquisti e ciò al fine di consentire l’utilizzo del
denaro il cui incasso non era stato registrato per simulare l’acquisto di
prodotti in promozione la cui vendita dava diritto a premi per i direttori, per
i capi area e per lo stesso punto vendita. Si era trattato di una condotta
comune ad altre colleghe della B., la quale non aveva intascato nulla per sé,
sicché il suo comportamento, anche se non giustificabile – visto che la B. non
aveva subito una coartazione assoluta da parte dei superiori – non rientrava
tra le ipotesi per le quali il CCNL prevede la sanzione espulsiva, ma doveva
essere valutato alla stregua di una negligenza nell’adempimento degli obblighi
lavorativi della lavoratrice, ipotesi per la quale lo stesso CCNL prevede una
sanzione conservativa. Conseguentemente, nella fattispecie doveva trovare
applicazione l’art. 18, comma 4 st. lav., come modificato dalla legge n. 92 del
2012, con reintegra della ricorrente nel posto di lavoro e risarcimento del
danno pari a dodici mensilità di retribuzione. - La Corte di appello riformava la statuizione
relativa al regime di tutela applicabile, ritenendo che la fattispecie
rientrasse nelle “altre ipotesi” sanzione, e dichiarava risolto il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento; condannava la A. a
corrispondere alla reclamata una indennità pari a diciotto mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto. - I giudici di appello argomentavano, in sintesi,
come segue: - a) i fatti addebitati sono provati e sostanzialmente
neppure contestati; essi tuttavia non sono così gravi da meritare il
licenziamento; difatti, è condivisibile quanto ritenuto dal Tribunale nel
riconoscere che la ricorrente si era limitata ad assecondare i suoi superiori,
sicché il grado di colpa che le può esser addebitato è modesto; - b) l’assunto della società reclamante, secondo cui
la ricorrente avrebbe potuto non seguire le direttive dei responsabili del
servizio sulla “non scontrinatura” di determinati prodotti e anzi
denunciarle ai superiori e/o al sindacato, non consente di modificare tale
giudizio, essendo evidente il condizionamento subito dalla ricorrente e dalle
altre addette al punto vendita, come pure accertato in sede di prova
testimoniale; - c) tuttavia, diversamente da quanto ritenuto dal
primo giudice, il comportamento addebitato non può considerarsi frutto di
semplice negligenza, tanto da rientrare nell’ipotesi per la quale il CCNL
prevede una sanzione conservativa (negligenza nell’adempimento degli obblighi
contrattuali), ma è il frutto di una condotta consapevolmente volta a far
conseguire non solo ad altri (direttori, capi area, il punto vendita), ma anche
alla stessa ricorrente, vantaggi indebiti; i testi, avevano riferito che i
premi connessi al raggiungimento di certi obiettivi si concretizzavano in
incrementi stipendiali per tutti i dipendenti; - d) va quindi applicato il principio enunciato dalla
giurisprudenza di legittimità secondo cui, quando vi è sproporzione tra
sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela reale solo quando il fatto
accertato rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla
base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari
applicabili, mentre va riconosciuta la tutela risarcitoria se, come nel caso
della decisione, la condotta addebitata non coincida con alcuna delle
fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari
applicabili prevedono una sanzione conservativa. - Per la cassazione di tale sentenza D.B. ha
proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati da successiva memoria ex
art. 378 cod. proc. civ.. Ha resistito con controricorso A. s.p.a., che pure ha
depositato memoria.
Ragioni della decisione
Il primo motivo denuncia violazione e falsa
- applicazione dell’art. 138 CCNL Turismo, con riferimento agli artt. 1362, 1363,
1365 e 1367 cod. civ., erronea sussunzione della fattispecie concreta nella
normativa astratta invocata, conseguente violazione dell’art. 18 comma 4, legge
n. 300 del 1970 e falsa applicazione del successivo comma 5 dell’art. 18, come
modificato dalla legge n. 92 del 2012.
La ricorrente addebita alla sentenza di avere omesso di interpretare la disciplina contrattuale, limitandosi ad affermare che la condotta posta in essere non costituiva un’ipotesi di “esecuzione del lavoro con negligenza”, di cui alla lett. c) comma 7 dell’art. 138 CCNL. Denuncia che anche tale previsione avrebbe dovuto essere interpretata alla luce della lett. f) dello stesso art. 7, riguardante il lavoratore che “in
altro modo trasgredisca l’osservanza del presente contratto o commetta atti che
portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza
dell’azienda”.
Deduce che erano state così violate,
nell’interpretazione dell’art. 138 CCNL, le regole di ermeneutica contrattuale,
posto che le clausole vanno interpretate nel loro contenuto complessivo (artt.
1362 e 1363 cod. civ.); occorre che l’interpretazione risulti ragionevole, nel
senso che essa sia volta a valorizzare le espressioni generali usate in modo da
non restringerne arbitrariamente la portata (art. 1365 cod. civ.) e privilegi
nel dubbio la soluzione in grado di rendere la clausola effettiva ed efficace
(art. 1367 cod. civ.).
- Il secondo motivo denuncia violazione dei commi 4
e 5 dell’art. 18 legge del 300 del 1970 per non avere la sentenza debitamente
considerato che ben può ricorrere l’ipotesi della insussistenza del fatto
quando sia carente l’elemento soggettivo della imputabilità della condotta al
dipendente.
Si sostiene che, secondo la stessa ricostruzione dei
fatti contenuta nella sentenza impugnata, il comportamento della ricorrente non
aveva integrato vere e proprie omissioni, né illeciti ammanchi di cassa, ma era
consistito in una “scontrinatura” formalmente non corrispondente nei
tempi e nei contenuti a quanto effettivamente venduto alla clientela; la
condotta contestata si era rivelata nella sostanza conforme alle indicazioni
ricevute dai diretti superiori gerarchici e al comportamento tenuto da tutto il
personale; l’atteggiamento passivo rispetto al corretto adempimento degli
obblighi contrattuali o la violazione di tali obblighi non poteva essere
ritenuto frutto di una autonoma determinazione direttamente imputabile alla
lavoratrice.
- Il terzo motivo denuncia nullità della sentenza e
del procedimento per violazione e falsa applicazione degli art. 132, secondo
comma, n. 4 e art. 118 disp. att. cod. proc. civ. per motivazione apparente e
comunque palesemente contraddittoria sia in ragione della omessa disamina della
disciplina contrattuale, sia per il contrasto logico sotteso alla
considerazione di avere, da un lato, ritenuto sussistente un grave condizionamento
subito dalla ricorrente e, dall’altro, definito la condotta come consapevole e
volontaria, diretta a conseguire vantaggi indebiti. - Il ricorso è meritevole di accoglimento con
riguardo al primo e al terzo motivo, da esaminare congiuntamente, con assorbimento
del secondo. - La sentenza impugnata ha premesso di condividere
la ricostruzione dei fatti seguita dal primo giudice. Segnatamente, ha
affermato che i fatti non potevano attingere ad una gravità tale da
giustificare il licenziamento.
Pur escludendo (implicitamente) l’ipotesi della
insussistenza del fatto in termini disciplinarmente rilevanti, con riferimento
tanto all’elemento oggettivo quanto all’elemento soggettivo, ha ritenuto
tuttavia che i fatti non fossero “così gravi da meritare il licenziamento”.
Il giudice di appello ha rimarcato proprio la circostanza, pienamente
comprovata in istruttoria, come emerge dalla stessa sentenza, che la
lavoratrice si fosse limitata ad “assecondare” le richieste dei suoi
superiori, sicché “il grado di colpa che le può essere addebitato è
modesto”. L’ordine argomentativo depone quindi per un accertamento di
merito circa l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo
soggettivo e per la formulazione di un giudizio di non proporzionalità della sanzione
(licenziamento) al comportamento addebitato e risultato comprovato nei termini
di cui a N’accerta mento istruttorio.
- Secondo giurisprudenza costante, il giudizio di
gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa
del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e
soggettiva, della fattispecie sono propri del giudice di merito. Nel caso di
specie, i giudici di merito di primo e di secondo grado sono pervenuti al
medesimo giudizio di non proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al
fatto contestato, divergendo invece quanto alla tutela applicata. - In via generale, questa Corte ha affermato che,
nell’ambito della valutazione di proporzionalità tra la sanzione e i
comportamenti, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va
riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con
alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici
disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la
proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5,
della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge
n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria c.d. forte (v.,
tra le altre, Cass. n. 31529 del 2019, n. 25534 del 2018, n. 13178 del 2017).
Ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una
previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi
la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il
licenziamento illegittimo sarà meritevole della tutela reintegratoria (cfr.
Cass. n. 31839 del 2019). In presenza di un licenziamento disciplinare
illegittimo, la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, st.lav.
riformulato, è applicabile in presenza di una valutazione di non
proporzionalità attraverso il parametro della riconducibilità della condotta
accertata ad una ipotesi punita con sanzione conservativa dalla contrattazione
collettiva (Cass. n. 33500 del 2018). - Il primo motivo di ricorso si incentra
sull’omessa interpretazione delle clausole contrattuali, sottolineando in
particolare l’omessa disamina della clausola finale (“di chiusura”)
di cui alla lett. f) dell’art. 7, la quale prevede che è soggetto a sanzione
conservativa altresì il dipendente che “/n altro modo trasgredisca
l’osservanza del presente contratto o commetta atti che portino pregiudizio
alla disciplina, alla morale, all’igiene ed alla sicurezza dell’azienda”. - L’interpretazione che, anche nella giurisprudenza
di questa Corte, porta ad integrare i presupposti costitutivi dell’una o
dell’altra forma di tutela (art. 18, commi 4 e 5) deve pur sempre costituire
l’approdo di una esegesi, oltre che coerente e razionale, completa per il tramite
di tutti i tradizionali criteri dell’ermeneutica contrattuale, ivi compresi
quello dell’interpretazione sistematica e quello della ricerca dell’intenzione
comune delle parti contraenti, onde definire il contenuto, anche a mezzo delle
clausole di più ampio tenore lessicale, della portata applicativa delle altre,
ricorrendo non già ad una interpretazione analogica, ma se del caso estensiva –
nei termini e nei limiti di seguito meglio chiariti – del significato delle
parole usate nel contesto complessivo del codice disciplinare e della volontà
negoziale. - Anche nell’interpretazione dei contratti
collettivi, l’art. 1362 cod. civ. impone all’interprete di indagare quale sia
stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle
parole, in ciò differenziandosi dall’art. 12 delle preleggi che,
nell’interpretazione della legge, assegna un valore prioritario al dato
letterale, individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore
(cfr. ex plurimis, Cass. n. 13083 del 2009). Ai fini della ricerca della comune
intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso
letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui
rilievo dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale,
sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo
procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi
intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione
letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola
che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di
un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e
raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass.
n. 4670 del 2009). Nell’interpretazione dei contratti, l’art. 1363 cod. civ.
impone di procedere al coordinamento delle varie clausole e di interpretarle
complessivamente le une a mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso risultante
dall’intero negozio; pertanto, la violazione del principio di interpretazione
complessiva delle clausole contrattuali si configura non soltanto nell’ipotesi
della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente
frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente
il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare ex
post le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato
aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso
risultino inconciliabili (Cass. n. 9755 del 2011). - E’ stato escluso nella giurisprudenza di questa
Corte, nella particolare materia che interessa, il ricorso all’applicazione
analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del
1988, più recentemente Cass. n. 30420 del 2017). Inoltre, se è vero che
l’accesso alla tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, st.lav. è divenuta
eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 92 del 2012, tuttavia
non può neppure escludersi la praticabilità di un’interpretazione estensiva
delle clausole contrattuali ove esse appaiano inadeguate per difetto
dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un
contenuto carente rispetto all’intenzione. - L’art. 1365 cod. civ. consente l’interpretazione
estensiva di clausole contrattuali se inadeguate per difetto dell’espressione
letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente
rispetto all’intenzione, sicché l’esclusione da tali clausole di casi non
espressamente previsti va attuata dall’interprete tenendo presenti le
conseguenze normali volute dalle parti con l’elencazione esemplificativa dei
casi menzionati onde verificare, alla stregua del criterio di ragionevolezza
imposto dalla norma, se sia possibile ricomprendere nella previsione
contrattuale ipotesi non contemplate nell’esemplificazione (Cass. n. 9560 del
2017, richiamata pure da Cass. sez. lav. n. 31839 del 2018).
In tale ipotesi, l’interprete deve tener presenti le
conseguenze normali volute dalle parti stesse con l’elencazione esemplificativa
dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella
previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell’esemplificazione,
attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di
ragionevolezza imposto dalla medesima norma (cfr. Cass. n. 31839 del 2019, in
motivazione).
- In conclusione, al fine di stabilire quale sia
la portata applicativa delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo per
le quali è prevista l’irrogazione di una sanzione conservativa, l’esegesi della
norma va condotta attraverso la corretta e completa applicazione dei
tradizionali criteri di ermeneutica contrattuale nei termini di cui alla
giurisprudenza citata, operazione interpretativa che nella sentenza impugnata è
mancata. - L’omessa disamina della disciplina contrattuale
rende la sentenza radicalmente carente di motivazione in ordine al processo
logico attraverso il quale è giunta ad escludere la riconducibilità della
condotta posta in essere in alcuna delle previsioni contrattuali suscettibili,
secondo la volontà delle parti collettive, di sanzione conservativa. - Si ravvisano anche radicali contraddizioni
logiche nella valutazione dell’elemento psicologico ascritto: la sentenza, pur
escludendo l’ipotesi della negligenza, riferisce di un “grado di colpa
modesto”, non meglio specificando quale tipologia di condotta colposa sia
addebitabile alla ricorrente e poi, al contempo, ascrive alla ricorrente una
condotta dolosa, in quanto “consapevolmente volta a far
conseguire…vantaggi indebiti”. - L’obbligo di motivazione previsto in via
generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art.
132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. è violato qualora la motivazione sia
totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto
inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della
decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in
tal caso, si concreta una nullità comma, n. 4, cod. proc. civ. (Cass. n. 22598
del 2018). In tale contesto, è denunciatale in cassazione l’anomalia motivazionale
che si concretizza nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili”, quale ipotesi che non rende percepibile l’iter logico
seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente
alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del
giudice (Cass. n. 12096 del 2018). - In conclusione, accolti il primo e il terzo
motivo, assorbito il secondo, va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla
Corte di appello di Genova in diversa composizione, per il riesame del merito
dell’appello alla luce dei principi sopra esposti. Al giudice di rinvio è
demandata anche la regolazione delle spese del presente giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo e il terzo motivo, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Genova in diversa composizione […]”.
Commenti recenti