(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
Corte di cassazione, Sezione lavoro, ordinanza 4 aprile 2024, n. 8918.
La nozione di appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi riportata all’art. 229 del CCNL di categoria è atecnica e non si riferisce specificatamente alla fattispecie penale dell’appropriazione indebita. Essa mira a sanzionare comportamenti che violano quell’affidamento che il datore di lavoro deve poter riporre nel suo dipendente che opera in un contesto in cui vi sono beni esposti alla pubblica fede
Licenziamento per giusta causa. Appropriazione indebita nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi. Rigetto
“[…] La Corte di cassazione
(omissis)
Rilevato che
1. La Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Tribunale di Cosenza che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a P.B. dalla società M. s.r.l. il 30.7.2018. Alla signora P.B., addetta alla vendita del supermercato a marchio D., era stato contestato di aver messo in una busta merce per un valore di € 20,79; di aver passato il badge in uscita e, solo dopo essere stata assoggettata ad una ispezione, l’aveva pagata chiedendo il danaro in prestito ad una collega essendone sprovvista. Ad avviso del giudice di appello la condotta appropriativa accertata si era già consumata all’atto dell’ispezione ed era stata correttamente sanzionata con il licenziamento, restando irrilevante il fatto che la merce era stata poi concretamente pagata.
2. Per la cassazione della sentenza ricorre P.B. che articola tre motivi ai quali resiste con tempestivo controricorso la M. s.r.l.. La ricorrente ha depositato memoria illustrativa insistendo nelle conclusioni già prese.
Ritenuto che
3. Con il primo motivo di ricorso è denunciata in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 646 c.p. e 2119 c.c. (nonché art. 229 C.C.N.L. Terziario – Confcommercio nel testo vigente ratione temporis).
3.1. Ad avviso della ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ricondurre il fatto storico, così come ricostruito, alla nozione di appropriazione indebita. Sostiene che al contrario si tratterebbe di fatto sfornito di qualunque rilievo sia penale che disciplinare e che la Corte sarebbe incorsa in un errore di sussunzione del fatto nella norma penale (art. 646 c.p.) e collettiva (art. 229 c.c.n.l.).
3.2. Deduce infatti che nella fattispecie non sarebbe ravvisabile l’appropriazione indebita atteso che da un canto la dipendente nella sua qualità non aveva il possesso dei beni aziendali e che, dall’altro, solo con l’allontanamento dal punto vendita il reato si poteva considerare consumato. Al contrario la lavoratrice era stata fermata all’interno del supermercato e prima delle casse e aveva dichiarato di aver preso la merce “e che doveva recarsi a pagarla” (così la contestazione di addebito riportata a pag. 8 del ricorso). Il mero prelievo di merce riposta in una shopper personale non integra di per sé l’appropriazione indebita atteso che per ravvisare la fattispecie sarebbe stato necessario che fosse stato esercitato sulla cosa un vero e proprio dominio. Osserva che il reato non si consuma nell’istante in cui la merce viene prelevata e che sarebbe irrilevante il fatto che questa fosse stata riposta in una busta personale della lavoratrice. Ad avviso della ricorrente, inoltre, mancherebbe il dolo atteso che il prezzo della merce era stato pagato. In conclusione, ritiene che mancando l’appropriazione mancherebbe la giusta causa di licenziamento che dunque avrebbe dovuto essere dichiarato illegittimo.
4. Con il secondo motivo di ricorso si deduce che la sentenza sarebbe incorsa nell’ omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, in riferimento ai fatti e alle corrispondenti richieste istruttorie formulate dalla ricorrente in primo grado e reiterate in appello, concernenti le circostanze del pagamento della merce e la situazione psicofisica della ricorrente.
4.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe omesso di valutare una serie di circostanze, che avrebbero dovuto avere pieno ingresso in giudizio e che, ove correttamente esaminate, sarebbero risultate decisive. In particolare ha riguardo alle allegazioni ed alle richieste di prova concernenti sia l’avvenuto pagamento della merce e le sue modalità che le condizioni psicofisiche della ricorrente.
Sostiene che la prova del pagamento è decisiva in quanto esclude la configurabilità di un’appropriazione indebita e/o di un furto della merce. La prova della situazione psicofisica in cui versava la lavoratrice all’epoca dei fatti (stati d’ansia, attacchi di panico, ecc.) varrebbe ad escludere l’elemento psicologico del reato e ogni rilevanza disciplinare dei comportamenti tenuti.
5. Con il terzo motivo di ricorso infine è denunciata, in relazione all’art. 360 primo comma n.3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 Cost., 113, 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. per avere il giudice di merito dichiarato inammissibili, in quanto irrilevanti, i capitoli di prova orale e la CTU, già elencati nel secondo motivo di ricorso e comunque per avere del tutto omesso di tenerne conto. Ad avviso della ricorrente la mancata ammissione delle richieste istruttorie elencate nel precedente motivo di ricorso avrebbe impedito alla deducente di difendersi adeguatamente e le sarebbe stato impedito anche di assolvere all’onere probatorio che su di lei eventualmente incombeva.
6. Il ricorso non può essere accolto.
6.1. Il primo motivo è infatti infondato. La nozione di appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi riportata all’art. 229 del c.c.n.l. di categoria è atecnica e non si riferisce specificatamente alla fattispecie penale dell’appropriazione indebita. Essa mira a sanzionare comportamenti che violano quell’affidamento che il datore di lavoro deve poter riporre nel suo dipendente che opera in un contesto in cui vi sono beni esposti alla pubblica fede. La previsione collettiva, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito, è scollegata dalla fattispecie penale in senso tecnico e sanziona anche quella condotta che sotto quell’aspetto potrebbe semmai essere ricondotta ad un mero tentativo. Peraltro, la Corte di merito ha verificato che sebbene intercettata in un momento immediatamente antecedente il passaggio verso l’esterno la merce prelevata era stata riposta in una borsa personale (una shopper) che conteneva altri oggetti personali della lavoratrice. Con apprezzamento di fatto in questa sede incensurabile la Corte di merito ha desunto da tali inequivoche circostanze e dal fatto che la lavoratrice era risultata priva di mezzi di pagamento, tanto che era dovuta ricorrere ad un prestito da parte di una collega, che la sua intenzione era proprio quella di sottrarre i beni nascosti nella busta senza pagarli. Si tratta di una ricostruzione aderente ai fatti accertati che conferma la corretta sussunzione della condotta in quella appropriativa (come detto atecnica) utilizzata dal contratto collettivo che pretende una particolare correttezza da parte degli addetti alla vendita e del personale che opera in contesti in cui vi sono beni esposti per la vendita al pubblico e dove vige un sistema di prelievo diretto degli oggetti esposti sui banchi di vendita o sugli appositi scaffali (il cosiddetto ‘self-Service’).
6.2. Il secondo motivo di ricorso incontra la preclusione dell’art. 348 ter comma 5 c.p.c. atteso che nell’ipotesi di “doppia conforme” (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso come quello in esame depositato dopo l’ 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, e nella specie non lo ha fatto (cfr. per tutte Cass. 22/12/2016 n. 26774 e più recentemente ancora Cass. 28/02/2023 n. 5947).
6.3. Del pari inammissibile è l’ultimo motivo di ricorso con il quale, pur denunciandosi una violazione di legge (artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.), nella sostanza si deduce che i fatti allegati se provati avrebbero consentito alla lavoratrice di provare l’insussistenza della condotta addebitata. Là dove, infatti, si deduce che il giudice di merito avrebbe omesso di tenere conto dei fatti come ricostruiti diversamente dalla ricorrente nella sostanza se ne pretende ancora una volta inammissibilmente una loro diversa valutazione.
7. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio […]”.
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