Memoria per la Commissione Affari Costituzionali. Camera dei Deputati. 12 marzo 2024.
Audizione della prof.ssa Giovanna De Minico sul disegno di legge “A.C. 1665, approvato in prima lettura dal Senato della Repubblica il 23 gennaio 2024, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
(Fonte: Camera dei Deputati. https://documenti.camera.it › COM01 › Audizioni)
“Vado immediatamente all’oggetto della mia presenza in questa Commissione: l’A.C. n. 1665, una modalità attuativa dell’art. 116, co. 3, Cost., ma non l’unica.
Apro con questo concetto in quanto lo ritengo premessa indispensabile se volessimo disegnare forme alternative, in ipotesi anche distanti dalla proposta governativa, di regionalismo differenziato. Con questo concetto bipolare si intende dire che talune Regioni, quelle attive nell’avviare un’intesa, avranno di più dallo Stato in funzioni e risorse[1] rispetto a quanto spetterebbe loro in base all’ordinario criterio di divisione dei compiti tra centro e periferia.
I) Pertanto, la deroga alla disciplina normale del rapporto Stato/Regioni assegna all’ente territoriale una posizione migliore di quella che in origine condivideva con le altre Regioni. Secondo quanto previsto nell’art. 116 Cost., la progettata differenziazione è un’eccezione all’articolo 3, co. 1, Cost. perché rompe la corrispondenza biunivoca situazioni soggettive uguali/uguali diritti, come vorrebbe il principio di uguaglianza formale. Una deroga questa, introdotta dalla norma di revisione costituzionale, sempre che ricorra una “ragionevole ragione”. L’espressione è mia e rimanda a due elementi, uno oggettivo e l’altro soggettivo, che insieme sono la ratio giustificativa dell’eccezione al principio egualitario.
L’elemento soggettivo è il motivo per cui la Regione ritiene di potersi sostituire in via definitiva allo Stato nell’esercizio di funzioni, altrimenti a lei precluse. Pertanto, la Regione richiedente dovrà fare due cose: esibire un interesse territoriale, attuale e specifico, che giustifica il trattamento migliorativo rispetto a quello standard delle altre Regioni[2]; e provare i fatti di efficienza e di adeguatezza[3] in forza dei quali presume essere più capace dello Stato nell’assolvere i compiti richiesti, come impone il vincolo di sussidiarietà verticale[4].
L’elemento oggettivo si definisce invece in negativo: qualunque sia il regime più favorevole accordato a una Regione, esso dovrà comunque rispettare il limite rappresentato dall’art. 5[5]. In altri termini, la differenziazione non si potrà spingere fino a rendere la Regione, non solo più autonoma delle altre, ma addirittura indipendente dallo Stato perché in tal caso non si tratta di autonomia, fattispecie lecita, ma più correttamente di secessione, evento illecito, che si colloca fuori dell’ordinamento costituzionale stante la sua natura extra-ordinem[6]. In questa seconda ipotesi saremo infatti dinanzi a una violazione della Costituzione per lesione della sovranità statale dovuta alla creazione di uno Stato nello Stato, dove il nuovo soggetto pubblico rivendica un’originarietà uguale a quella del soggetto territoriale-madre da cui si è definitivamente staccato[7]. Questo sarebbe un processo contra constitutionem, che disegna il limite negativo, insuperabile dall’autonomia, la quale, per quanto differenziata sia, si deve muovere entro il framework costituzionale originario.
Con l’art. 116, co. 3, Cost. facciamo un salto della staccionata, cambiamo la corsia di marcia: dal regionalismo cooperativo slittiamo verso declinazioni competitive dello stesso[8], che rimandano al riformato modello tedesco[9]. Il presupposto di ogni idealtipo competitivo consiste nel pregresso allineamento degli enti territoriali o, per dirla con gli studiosi di diritto antitrust, S. Brayer[10], nel fatto che gli attori partono dai medesimi blocchi. La gara inizierà solo se i giocatori sono equiordinati perché, in caso contrario, la competizione sarebbe falsata in partenza per la presenza di un vincitore stabilito a tavolino. Questo presupposto era noto al legislatore di revisione del 2001, che infatti aveva condizionato l’operatività dell’art. 116 alla preventiva osservanza dell’art. 119, sintesi delle azioni perequative. Pertanto, lo Stato è chiamato a fare qualcosa prima di avviare la diversificazione delle Regioni: ha un obbligo di attivarsi in opposizione al dovere di rimanere fermo. Un esperimento tratto dalla fisica rende visivo il mio discorso: quello dei vasi comunicanti. Lo Stato è come se avesse nelle mani le chiavi del rubinetto, che dovrà aprire per consentire all’acqua di scorrere dal vaso più alto verso il più basso fino a quando il livello non sarà lo stesso. Lo Stato, quindi, deve far defluire le risorse dalle Regioni più ricche alle meno e solo a parità di risorse avvierà la gara con l’augurio che vinca il miglior concorrente. Il level playing field è una regola basilare del liberismo economico e aver trasferito questa dinamica sul terreno del diritto costituzionale presuppone che il 116 abbia disegnato in anticipo le tappe fondamentali del regionalismo competitivo: prima si equiordinano le Regioni e in un secondo momento si trasferirà il surplus a chi dimostra di meritarlo. Ma il processo bifasico caratterizzato da un preciso ordine di intervento non trova corrispondenza nel progetto governativo, perché l’Esecutivo ha fretta di differenziare e quindi pospone la perequazione all’art. 116. Questa inversione del cronoprogramma compone l’incostituzionalità del ddl 1665, del resto non è la prima volta che disattendere la dimensione temporale si risolva in una violazione all’assetto costituzionale.
Voglio sgombrare il campo da ogni equivoco: non sto parlando di un’incostituzionalità dell’art. 116 in sé[11] perché l’illegittimità riguarda la sua modalità attuativa. Se il Governo avesse rispettato il tempo di intervento delle due azioni, l’A.C. si sarebbe sottratto alle censure di incostituzionalità almeno limitatamente a questo profilo. Invece, il progetto del Governo prevede come prima mossa l’avvio della gara, dopo l’equiordinazione dei concorrenti.
Né sembra che l’esperienza tedesca, possibile esempio di un modello federale capace di coniugare con equilibrio elementi cooperativi con istanze competitive, sia stato realmente considerato dal ddl 1665, affermazioni di principio a parte.
In via preliminare, voglio ricordare che l’unificazione delle due Berlino costò cinque punti di Pil[12], pagati con i sacrifici dell’intero popolo tedesco, il che permise ai Länder, anche ai più poveri, di accostarsi ai ricchi. Compiuta l’equiordinazione, il legislatore di revisione[13] con la “Föderalismusreform I” del 2006 riscrisse l’art. 72, co. 3, della GG per imprimere al federalismo una curvatura asimmetrica che consentisse ai Länder di legiferare su materie un tempo loro precluse.
La prima osservazione che voglio fare con Voi riguarda l’ampiezza della riforma tedesca[14]: essa interessa appena sei materie, peraltro politicamente leggere – la caccia, la pesca, a eccezion dell’ambiente, che però viene prima impoverito di compiti importanti riservati allo Stato federale e poi devoluto ai Länder in una dimensione asciugata. Noi invece pensiamo di cedere materie fondamentali, ad esempio l’ordinamento della comunicazione. Questo settore è dominato dall’imperativo europeo di creare un unico ecosistema digitale, necessario per mettere la convivenza delle vecchie fonti d’informazione con le nuove; noi invece, noncuranti del diktat europeo, vogliamo spezzettare il mercato nazionale in tanti spazi rionali quante sono le Regioni. Intendo dire che le materie, almeno quelle inscindibilmente unitarie, andrebbero sottratte alle rivendicazioni autonomistiche[15], e quindi tenute fuori dall’elenco delle cose trasferibili. Ma il nostro legislatore la pensa diversamente, visto che la lista tiene dentro ogni materia di competenza concorrente indipendentemente dalla sua vocazione frazionabile o meno.
Infine, sempre la riforma tedesca decise per una devolution temporanea, nonostante intervenisse a Länder equiordinati. Infatti, la Germania stabilì che lo Stato potesse in ogni momento riappropriarsi delle competenze prima concesse ai Länder, derogando così al criterio di specialità, perché in questo caso non prevarrà la disciplina speciale, quella dei Länder, ma quella che arriva per ultima: cioè, la legge di richiamo dello Stato. Il ping-pong[16], l’invenzione tedesca[17], corregge in chiave diacronica la devolution, che ha dunque carattere precario perché lo Stato la potrà in ogni momento riportare allo status quo ante, se lo vorrà.
Ebbene, il nostro Stato non si è riservato qualcosa di analogo al ripensamento tedesco, per cui da noi, una volta attuata la devoluzione[18], non si potrà più tornare indietro.
Inoltre, siccome l’art. 116, co. 3, costruisce la legge approvativa dell’intesa sul modello dell’atto normativo a forza passiva rinforzata, anche le sue modifiche dovranno seguire il medesimo iter iniziale. Sarà dunque necessario l’accordo con la Regione che ha avuto di più. Ma quale Regione sarà disposta ad accettare di meno? L’indefettibilità dell’accordo non solo rende l’azione devolutiva definitiva nel tempo, ma la sua irrevocabile permanenza sottrae all’indirizzo politico delle maggioranze future la decisione sulla devoluzione, che si imporrà come un fatto compiuto, contro il quale nulla potranno[19].
A tal proposito voglio ricordare che il disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare di modifica dell’art. 116 Cost.[20] proponeva di attenuare la rigidità evolutiva della legge in esame, sostituendo all’intesa il parere obbligatorio della Regione.
Lasciamoci ora alle spalle quello che poteva essere ma non è stato, e torniamo alle cose fattibili: completiamo il cahiers de doléances delle sue supposte incostituzionalità.
II) Andiamo alla seconda ragione di incostituzionalità della disciplina attuativa in esame: anche questo vizio ha a che fare col tempo. Qui però la variabile cronologica riguarda il rapporto tra l’art. 117, co. 2, lett. m) [21] e l’art. 116 Cost.
In questa memoria mi soffermerò sui punti di snodo del tormentato percorso dei Lep, mentre rinvio per quanto non dirò alla mia memoria consegnata al Senato[22].
I Lep sono compiti esclusivi e incedibili dello Stato, a dirlo è la riserva di legge che assegna appunto alla legge e alle fonti alla prima equiparate il dovere di individuarli e di quantificarli in aderenza ai bisogni essenziali della persona, con preclusione per ogni altro potere statale di intervenire sui medesimi[23].
Nel definire i Lep ho fatto un passaggio sulla persona, allora chiediamoci perché i Lep intercettano l’individuo.
L’art. 2 Cost. riconosce alla persona un posto centrale nell’architettura costituzionale, la quale infatti deve promuovere la piena dignità costituzionale dell’individuo a prescindere dalla sua identità e dalle iniziali condizioni di vita[24]. I Lep entrano sulla scena politica per incontrare la domanda fondamentale dell’individuo: porlo in condizione di contribuire con le sue abilità e personalità alla vita politica, sociale ed economica del paese. È evidente il rapporto che tiene stretti i Lep all’uguaglianza sostanziale, chiamata in causa per assicurare a ciascun cittadino uguale dignità, a nulla rilevando dove risieda. Ritorna anche con l’art. 117 il concetto di equiordinazione, con la differenza che in questo caso non sono le Regioni a rivendicare l’allineamento reciproco, ma i cittadini a pretendere condizioni di sostanziale parità, essenziali per l’esercizio effettivo delle libertà fondamentali, diritti sociali inclusi.
Ma i Lep intercettano anche la domanda di uguaglianza formale.
Il ragionamento è il seguente: il popolo non è massa informe e confusa di individui, ma una comunità[25] territoriale che ha in comune un patrimonio di valori, principi e diritti; questo tessuto dà corpo al vincolo inscindibile di una collettività: l’unità nella pari titolarità dei diritti. Se il cittadino vede che l’altro ha più diritti di lui, lo considererà un suo nemico, perché l’uguaglianza o è tra uguali o è disuguaglianza se uno è più uguale dell’altro.
Questa è la ragione per cui questi diritti devono essere scritti dalla mano ferma dello Stato e disegnati nei termini di diritti attuabili in un’unica soluzione, in antitesi al modello della fattispecie a formazione progressiva[26], la quale consente invece un’erogazione delle prestazioni col contagocce, sempre che qualche goccia ancora residui allo Stato. Le parole della Corte esprimono proprio il medesimo concetto nel garantire ai Lep un contenuto minimo, un costo incomprimibile che corrisponde al “la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché «il nucleo invalicabile di garanzie minime» per rendere effettivi tali diritti (ex multis, sentenze n. 142 del 2021 e n. 62 del 2020) al di sotto della quale lo Stato non può andare”[27]. In sintesi, i Lep sono tante cose insieme: un’obbligazione di risultato verso il cittadino, contando infatti quanto lo Stato gli eroga, non gli sforzi fatti per provare ad adempiere. Sono altresì un’obbligazione a contenuto costituzionalmente necessario, nel senso che lo Stato non si può sottrarre a quella cifra, rimanendo il responsabile dell’esito atteso. Infine, sono un’obbligazione che non tollera differimenti esecutivi, nel senso che il cittadino può pretendere che lo Stato si attivi senza indugio, perché il tempo perso va a danno di chi non ha e consolida i vantaggi di chi ha.
Ancora una riflessione voglio fare sulla proposta di qualificare i Lep come fattispecie a formazione progressiva: ne risulterebbero degradati da diritti ad aspettative, con conseguente loro collocazione in un preambolo costituzionale, lì dove il Costituente li ha inseriti direttamente nel tessuto precettivo. Da qui la loro promozione a situazioni giuridiche soggettive e dunque il riscatto dallo status di figli di un Dio minore perché assenti nello Statuto Albertino. Nati infatti solo con la Costituzione del ‘48, hanno recuperato presto il ritardo genetico grazie alla loro forza evolutiva, la quale misura il grado di democraticità del nuovo ordine repubblicano, segna la sua distanza da quello statutario e opera come leva per rimuovere gli ostacoli al compimento della piena dignità costituzionale dell’individuo.
Chiarita la natura giuridica dei Lep, ora possiamo tornare al cronoprogramma disegnato per loro dal legislatore di revisione del 2001: lo Stato prima li deve individuare e soddisfare, e solo dopo potrà avviare la differenziazione[28]. Quanto all’individuazione, il compito è stato affidato al Clep[29], che ha operato secondo il criterio dell’immobilismo temporale perché ha riproposto per l’avvenire i Lep già individuati in passato. Questa modalità stride con la dimensione dinamica e al tempo stesso permanente della Costituzione: progetto politico con capacità tendenzialmente proiettive e stabili verso le generazioni future[30]. Se il disegno dei Lep è la fotografia di quello che è stato, significa che il passato ci tiene stretti a sé al punto da impedirci di sollevare lo sguardo oltre il momento attuale. A seguire invece la proiezione costituzionale il Clep avrebbe dovuto rileggere la vecchia lista dei Lep, sfoltendola semmai di qualche prestazione divenuta desueta, ma arricchendola di altre prestazioni, quelle inedite in risposta ai nuovi bisogni digitali del cittadino della rete[31].
Una volta individuati i Lep, questi andranno monetizzati come la loro natura prestazionale richiede, il cui nocciolo duro si risolve in quello specifico atto di adempimento dovuto dallo Stato-debitore. Un esempio: mentre il mio parlare non costa nulla allo Stato, anzi lo Stato meno fa e meglio è, i diritti sociali sono onerosi: se mi reco in un ospedale mi attendo di trovare cure, strutture e medici tendenzialmente uguali ovunque: Napoli come Roma e come Milano. Questa è l’Italia che vorrei lasciare ai miei figli e che credo anche voi, on.li Deputate e Deputati, vogliate lasciare ai vostri figli.
Ebbene, la monetizzazione dei Lep – distribuiti idealmente lungo una scala verticale – spetta al Parlamento, che, per la riserva di legge, è tenuto a decidere su quale gradino fermare la quantificazione delle prestazioni sociali. Un esempio: la scuola deve prestare cultura e formazione secondo lo standard milanese o in base a quello napoletano?
Decidere dove fermare questa asticella è una scelta che spetta solo al legislatore statale, che si potrà attestare sui valori quantitativi e qualitativi milanesi o preferire quelli napoletani. Nel primo caso chi ha di meno sarebbe finalmente portato allo stesso livello di chi ha di più; nel secondo caso il Sud continuerebbe ad avere quanto ha avuto finora, cioè poco, ma sarebbe improbabile, e anche odioso, che si abbassasse per simmetria il livello prestazionale del Nord e si smantellassero gli asili del Nord per portare i mattoni al Sud[32].
Se la riserva di legge ancora ha un senso, il Parlamento dovrà parlare per primo sui Lep. E in un questo suo discorso regolatorio dovrà dire almeno due cose: individuare i Lep, non limitandosi a farne la fotografia dell’esistente ma con una proiezione regolatoria in avanti, contrariamente a quanto ha fatto il Clep; e poi sostanziarli nel quantum e nei tempi di erogazione. Ma il ddl 1665 nulla dice in proposito, perché trasferisce all’Esecutivo i compiti propri del Parlamento, condannandolo a un anticipato riposo rispetto a quello riservatogli dalla riforma costituzionale sul premierato ancora in corso.
Sarà facile obiettarmi che il ddl affida i Lep al decreto legislativo, quindi a un atto primario come la legge, il che farebbe ritenere soddisfatta la riserva. L’obiezione non convince perché l’A.C. 1665 ha costruito il decreto legislativo in modo da eludere la riserva sul piano sostanziale. Infatti, il Parlamento, tenuto a dettare criteri e principi direttivi con la legge di delega, è stato messo a tacere in anticipo perché il ddl (art. 3, co. 1) ha già promosso la legge di bilancio per il 2023[33] a legge di delega sui Lep[34]. Ma questa insolita legge di delega non ha fatto quanto avrebbe dovuto perché non ha indirizzato l’azione regolatoria del Governo sui Lep; ne consegue che il futuro decreto legislativo sarà di fatto abilitato a scrivere su una lavagna bianca, il che non lo rende così diverso[35] da un d.p.c.m., fonte in origine a ciò deputata dall’A.S. 615[36]. Così attraverso il gioco dei rinvii a catena il Governo è rimasto solo nella scelta politica di come orientare i Lep, e questa solitudine è anche la misura di una disinvolta violazione di quell’unico modello di delega legislativa costituzionalmente ammissibile: l’art. 76 Cost.
Infine, guardiamo al momento satisfattivo dei Lep. I soldi per pagarli non sono stanziati con questa legge, la quale anzi afferma l’invarianza di bilancio rispetto a tali diritti, che, come ci ricorda l’U.P.B.[37], sono destinati a rimanere un credito inesigibile perché lo Stato dopo aver devoluto funzioni e risorse alle Regioni, non avrà più soldi per i Lep.
Ripeto che anche rispetto all’adempimento dei Lep l’A.C. 1665 commette un’inversione cronologica di dubbia costituzionalità. L’ordine nei pagamenti è invece chiarito nell’art. 116 Cost.: la devoluzione è una facoltà per lo Stato, dunque una spesa facoltativa, che potrà essere fatta ma dopo aver onorato quelle necessarie, che corrispondono ai compiti dovuti. Ecco l’ordine legittimo: i Lep come compito obbligatorio andranno pagati in anticipo e poi su quanto residua ogni devoluzione sarà possibile.
III) Un’altra issue passibile di compromettere l’assetto costituzionale riguarda la forma di taluni atti normativi richiamati nell’A.C. 1665. La forma come ordine tassativo di intervento delle fonti è criterio di ripartizione dell’indirizzo politico tra Parlamento e Governo, ordine questo, da osservare con attenzione perché compone la gerarchia delle fonti nominate in Costituzione.
Ebbene, il ddl 1665 declassa l’apporto decisionale del Parlamento a un contributo passivo, quindi a una non volontà, sulla vicenda devolutiva, che si limita a osservare, lasciando che altri facciamo quanto sarebbe di sua competenza. Il ddl 1665 infatti più volte chiama in causa il Governo – per individuare e quantificare i Lep, come per selezionare materie e funzioni da trasferire – dimenticando che a Costituzione invariata siamo ancora una Repubblica parlamentare, cioè una forma di governo che riserva al Parlamento un ruolo da protagonista nell’articolare l’indirizzo politico, sebbene non in solitaria ma in tandem con il Governo. Mentre il ddl in esame lo sceglie come comparsa, di cui potrebbe fare a meno, come del resto fa estromettendolo dal negoziato sulle intese e dal concordamento sui Lep[38].
A questo moto governo-centrico il Parlamento dovrebbe opporre le sue prerogative costituzionali in ordine al procedimento che si perfeziona nella legge “approvata a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata” in quanto questa legge rappresenta l’unico momento in cui l’Assemblea elettiva potrà dire se e in che misura voglia assottigliare la sovranità statale a vantaggio dell’autonomia regionale. Pertanto, la legge non va intesa come atto meramente formale, con cui il Parlamento è chiamato ad accettare o rifiutare un accordo altrui, stipulato in luoghi lontani dalle aule parlamentari, in quanto il modello dell’art. 7 Cost. non fa al caso nostro. Invero, non siamo davanti a due soggetti reciprocamente autonomi e indipendenti ciascuno nel proprio ordine, questi due attributi appartengono solo allo Stato[39]; mentre l’altro contraente dell’intesa, la Regione, è sì autonoma, ma con certi requisiti di dipendenza, “cioè di limitata indipendenza da un altro ordinamento” secondo la bella endiadi autonomia-dipendenza di Santi Romano[40].
Questa legge è un atto regolatorio che deve il suo contenuto all’energia volitiva del Parlamento, il quale conserva intatta la prerogativa di emendare l’intesa, in ipotesi anche di azzerarla, comportando l’avvio ex novo della procedura; pertanto, essa non è accostabile alla ratifica di un trattato internazionale, rispetto alla quale l’Assemblea effettivamente non può avanzare pretese modificative.
Questa costruzione ha il merito di restituire a ciascuno il suo e quindi al Parlamento la parola ultima e definitiva sul se e come fare questa devoluzione, che non è un obbligo, ma una mera facoltà per lo Stato, libero di avvalersene come di lasciare le cose come stanno.
Chiudo con un desiderio che affido al nostro decisore politico: provare a rendere questa modalità di attuazione del 116 conforme a Costituzione con piccoli ma importanti accorgimenti.
La prima correzione che apporterei al ddl 1665 riguarda la tecnica normativa impiegata. Questa legge dovrebbe preferire al metodo del trasferimento in blocco dell’intero elenco delle materie, pur cedibili in punto di principio data l’espressa previsione dell’art. 116, co. 3, Cost., un criterio di compilazione riduttiva della lista, alleggerita dalle materie inguaribilmente unitarie, insuscettibili di regolazione parcellizzata in base al territorio.
L’interessante emendamento[41] approvato in Senato (ora art. 2, co. 2, A.C. 1665), che assegna al Presidente del Consiglio il potere di selezionare dall’area della devoluzione cosa lasciare e cosa togliere, è una tecnica politica distante dall’assegnare a una legge quadro il potere esercitabile apriori e una volta di ridurre la lista o lasciarla invariata. Una selezione rimessa al Presidente ridurrebbe la sovranità a merce di scambio di un ordinario do ut des con le sole forze di maggioranza. Di contro, affidare la lista alla legge accrescerebbe il valore democratico della decisione finale in ragione della partecipazione delle opposizioni, assenti invece dalle deliberazioni governative, collegiali o unipersonali. In sintesi, non concordo sull’ipotesi monocratica dell’A.C. 1665 quanto al soggetto competete a sfoltire l’elenco delle materie preferendo alla prima l’Assemblea rappresentativa; mentre apprezzo l’idea di fondo dell’intrasferibilità di interi settori politico-sociali e ciò perché le valutazioni legali tipiche, già viziate di per sé da schematismo definitorio, sono ora divenute addirittura incompatibili con una regolazione reasonable, cioè riflessiva nell’accezione di Teubner, al mutevole assetto sociale.
Altra misura correttiva riguarda l’onere per la Regione richiedente di esibire e dimostrare la stretta inerenza della specifica materia a un interesse territoriale ad hoc , connessione questa, idonea a giustificare la sua rivendicazione extra-ordinem. Riterrei che l’aggettivo “particolare” debba guidare la mano della Regione verso una cauta selezione finalizzata a individuare quei settori che più degli altri si prestano a essere devoluti piuttosto che a rimanere confusamente accentrati nelle mani statali.
Del resto la Corte Cost., chiamata a giudicare su una legge che assegnava apoditticamente talune materie alla competenza esclusiva del giudice amministrativo (art. 103 Cost.)[42], escluse che rientrasse nella discrezionalità insindacabile del legislatore la scelta di affidare un intero settore alla competenza esclusiva del giudice amministrativo, riconoscendogli invece la più ridotta capacità di “indicare ‘particolari materie’ nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe ‘anche’ i diritti soggettivi”.
Visto che anche l’art. 116, co.3, Cost. ricorre alle ‘particolari’ condizioni per connotare la richiesta avanzata dalla Regione, riterrei che questo filo rosso tra la domanda e la specificità del territorio non debba più rimanere nelle pieghe della legge, ma uscire alla luce del sole ed essere esibito dalla Regione, in quanto ratio oggettiva, titolo fondativo della diversa allocazione di funzioni e risorse rispetto al riparto ordinario tra centro e periferia. Anche il principio di sussidiarietà, più volte richiamato nel ddl 1665, sollecita una riduzione della potestà statale a vantaggio regionale, ma sempre nel rispetto di valutazioni, non compiute su giudizi astratti e presuntivamente validati dalla legge, ma case by case.
Infine, indicherei nel rispetto della regola ‘a ciascuno il suo’ il terzo profilo di emendabilità del disegno di legge in esame in modo da restituire al Parlamento il ruolo che gli è proprio: decidere se e quanta sovranità cedere in basso – cioè l’emendabilità dell’intesa – ma anche scegliere qualità e quantità di welfare da realizzare, cioè l’individuazione e la quantificazione dei Lep.
A questo punto, considerato che non esiste una sola modalità implementativa dell’art. 116, co. 3, Cost., ripropongo in chiave sintetica le tre condizioni da me suggerite per ricondurre l’A.C. 1665 alla legalità costituzionale: sfoltimento delle materie con esclusione di quelle irriducibilmente unitarie; stretta connessione tra la domanda accrescitiva di materie e l’attributo territoriale ad hoc; e coinvolgimento volitivo del Parlamento nella decisione su Lep e intese.
Concludo con il ricordo delle parole di Giorgio Berti[43], il quale descriveva l’articolo 5 ricorrendo a una metafora. Il 5 è una medaglia con due facce: una è l’unità – come condivisione di un patrimonio valoriale e di diritti – l’altra è l’autonomia, lo Stato si rende conto della sua insufficienza, diventa riflessivo, cioè si piega per recuperare le voci dal basso, direbbe Eduardo De Filippo, e poi le ammette alla costruzione della giuridicità, ma pur sempre nel rispetto dell’unità dell’ordinamento.
[1]F. Gallo, L’incerto futuro del regionalismo differenziato sul piano finanziario, in Federalismi.it, n. 10/2018, 6 ss.
[2] M. Villone, Italia divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, ES, Napoli, 2019, 65-66. V.P. Grossi, La perdurante attualità del regionalismo differenziato. Un’analisi dei contenuti delle ‘bozze d’intesa’, in Dir. Reg., 2/2021, 363 ss.
[3] Cfr. L. Antonini, Alla ricerca del territorio perduto: anticorpi nel deserto che avanza, in Riv. AIC, n. 2/2017, 48 ss.
[4] S. Staiano, Autonomia differenziata, la lezione del 2001: no a riforme fatte per paura, in Dir. Reg., 3/2019, 6.
[5] M. Villone, Memoria del Prof. Massimo Villone. Per l’audizione nella I Commissione del Senato sui ddl n. 615 e conn. (attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario), martedì 30 maggio 2023, in www.senato.it, 2 ss.
[6] Cfr. l’insegnamento di: C. Esposito, Autonomia e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, Padova, 1954, 69 ss. e T. Martines, Studio sull’autonomi politica delle Regioni in Italia, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1956, 100 ss., anche in Id., Opere, III, Giuffré, Milano, 2000, 293 ss.
[7] F. Benvenuti, L’ordinamento repubblicano, Cedam,Padova, 1996, 48.
[8] M. Luciani, Un regionalismo senza modello, in Le Reg., 5/1994,1313 ss.
[9] O. Chessa, Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, Giuffré, Milano, 2011, 161-178.
[10] S. Breyer, Regulation and its reform, Harvard, HUP, 1982, 157-161.
[11] L. Elia, Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione, in Resoconto stenografico, Senato della Repubblica XIV Leg., 1ª Commissione, Seduta n. 40 del 23 ottobre 2001.
[12] Cfr. H.W. Sinn e F. Westermann, Two Mezzogiornos, in CESifo Working Paper, 2000, 378, pp. 9 ss.
[13] 52° Legge di revisione costituzionale del 31 agosto 2006, in BGBl. I, p. 2034.
[14] Per tutti si veda: J. V. Blumenthal, La riforma costituzionale del 2006 e il «nuovo» federalismo, trad. it., in La Germania di Angela Merkel, a cura di S. Bolgherini-F. Grotz, Bologna, 2010, 43 ss. Nella letteratura italiana ci limitiamo ex multis a rinviare: R. Bifulco, La riforma costituzionale del federalismo tedesco del 2006 . Nota per l’indagine conoscitiva delle Commissioni affari costituzionali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica sulle questioni relative al Titolo V della Parte II della Costituzione;e E. Di Salvatore, La potestà legislativa derogatoria dei Länder tedeschi, in Rivista giuridica on-line – ISSiRFA – CNR , 1, 2 3 , 2012.
[15] S. Parisi, Indipendenza, specialità e asimmetria: requiem per il regionalismo collaborativo?, inS. Prisco, F. Abbondante e S. Parisi (a cura di), Ritornano le piccole patrie? Autodeterminazione territoriale, secessione, referendum, ES, Napoli, 2020, p. 24.
[16] A. Anzon Demming, Il regionalismo “asimmetrico: la via italiana e il modello tedesco, in Forum di quaderni costituzionali, 28 settembre 2006, ma anche S. Mangiameli, Regionalismo e uguaglianza, in Italian Papers on Federalism, n. 1/2019, 23, nota 68.
[17] R. Bifulco, La riforma costituzionale del federalismo tedesco del 2006, cit., 5 ss. e S. Mangiameli, Il riparto delle competenze tra vicende storiche e prospettive di collaborazione, in Dir. Reg., 3/2020, 313 ss.
[18] M. Villone, Italia divisa e diseguale, cit., pp. 106 ss. Sul difficile rapporto tra le “leggi rinforzate”, quale quella prevista dall’art. 116, co. 3, Cost., e il principio democratico: C. Blanco de Morais, Le finalità politiche delle leggi rinforzate, in Quad.Cost., 1/1997, 27 ss.
[19] Salvo la possibilità per lo Stato di disdettarla, ma solo dopo che siano decorsi dieci anni dalla sua entrata in vigore. Ora, data la breve vita dei nostri Governi, un termine così dilatato significa che gli Esecutivi che si susseguiranno saranno vincolati all’antico accordo siglato dall’Esecutivo di dieci anni prima.
[20] XIX Leg., A.S. 764, disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare, in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/testi/57195_testi.htm.
[21] I livelli essenziali delle prestazioni saranno da ora indicati con l’acronimo Lep.
[22] G. De Minico con V.P. Grossi, Note in tema di AS 615 per le Audizioni informali sull’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, presso la 1° Commissione permanente del Senato della Repubblica, 2023, in www.senato.it.
[23] M. Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione, in Politica del diritto, n. 3/2002, p. 354. L. Trucco, Livelli essenziali delle prestazioni e sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, in Rivista del “Gruppo di Pisa”, 3/2012, spec. p. 5.
[24] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Cedam, 1975, 147 ss. Sul rapporto tra l’art. 2 e l’uguaglianza: G.M. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Giuffré, Milano, 1967, 29 ss. Per la giurisprudenza: C. Cost., sent. 38/1973.
[25] G. Berti, Interpretazione costituzionale, Padova, 2001, 47.
[26] S. Cassese, Audizione parlamentare, 1° Commissione Senato della Repubblica, in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=243505.
[27] Corte Cost. sent. 220/2021, in https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2021&numero=220
[28] Cfr. A. Patroni Griffi, Regionalismo differenziato e uso congiunturale delle autonomie, in Dir. Pubbl. Eur. Rass. online, 2/2019, spec. par. 3.
[29] Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, Rapporto finale, 15/11/2023, in https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=49640.
[30] M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, 2009, passim.
[31] Mi sia consentito il rinvio a un mio saggio, Nuova tecnica per nuove diseguaglianze. Case law: Disciplina Telecomunicazioni, Digital Services Act e Neurodiritti, in G. Di Plinio, ‘Neurodiritti’ tra virtuale e reale, in Federalismi.it, n. 6/2024, 5-9 e 19-21.
[32] G. Viesti, Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Bari – Roma, 2023, 73 ss.
[33] Legge n. 197/2022, recante Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025, (22G00211), in part. l’art. 1, co. 791 a 801-bis, in https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2022;197 .
[34] C. De Fiores, Audizione Prof. Claudio De Fiores, sul disegno di legge A. C. 1665, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, 4 marzo 2024, in www.camera.it, 8-9.
[35] Le diversità tra il dpcm e il decreto legislativo rimangono quanto alla natura dei due atti; alla forma, l’una monocratica, l’altra collegiale; e al sindacato di costituzionalità, escluso nel primo caso, ammesso nel secondo.
[36] Cfr.: Leg. XIX, A.S. 615, Disegno di legge, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, in https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/56845.htm.
[37] Ufficio Parlamentare di Bilancio, Audizione 1ª Commissione del Senato della repubblica, Risposta dell’Ufficio parlamentare di bilancio alla richiesta di approfondimenti, 20 giugno 2023, 8-3.
[38] Mi si consenta il rinvio al mio: Perché il ddl Calderoli supera il confine della legittimità costituzionale, in Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2023 e Diritti sociali, l’individuazione spetta al Parlamento, in Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2023.
[39] G. D’Angelo, L’utile “fine del monopolio delle scienze ecclesiasticistiche”. Prime riflessioni su diritto ecclesiastico e autonomia differenziata delle regioni ordinarie, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 10/2019, 4.
[40] S. Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffré, Milano, 1947, 20.
[41] Emendamento 2.7(testo 3) De Priamo, Lisei, Spinelli, Mennuni, Balboni, Gelmini, A.S. 615. Al comma 1, terzo periodo, aggiungere, in fine, le seguenti parole: «che, con riguardo a materie ambiti di materie riferibili ai LEP di cui all’articolo 3, è svolto per ciascuna singola materia o ambito di materia. Ai fini dell’avvio del negoziato, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per gli affari regionali e le autonomie tiene conto del quadro finanziario della Regione.», https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/testi/56845_testi.htm
[42] Corte Cost., sent. n. 204/2004, https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2004:204
[43] G. Berti, Art. 5, in Branca G. (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Zanichelli, Bologna, 1975, 277-295.
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