(Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Cassazione. Ordinanza 29 maggio 2024, n. 15025.

Licenziamenti. Ridimensionamento personale. Divieto temporaneo di licenziamento individuale “per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604” ex art. 46 del d.l. n. 18 del 2020, conv. dalla l. n. 27 del 2020 e di licenziamento collettivo con “avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223” ex art. 14, comma 1, d.l. n. 104 del 2020, conv. dalla l. n. 126 del 2020. Ambito applicativo. Licenziamento del dirigente. Esclusione. Questione di legittimità costituzionale.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 46 del D.L. n. 18 del 2020, conv. dalla L. n. 27 del 2020, e dell’art. 14, comma 1, D.L. n. 104 del 2020, conv. dalla L. n. 126 del 2020, nella parte in cui dispongono, in ragione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, il “blocco” dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo, senza includere nel divieto di recesso il licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per ragioni oggettive (“… La conseguenza di ciò è immediatamente apprezzabile rispetto al c.d. blocco dei licenziamenti collettivi disposto dall’art. 14, co. 1, D.L. n. 104 cit. (e già prima dall’art. 46 D.L. n. 18/2020 conv. in L. n. 27/2020): esso riguarda certamente anche i dirigenti, perché ormai pure a costoro si applica la legge n. 223/1991, le cui procedure, da parte del legislatore dell’emergenza pandemica, sono state temporaneamente vietate (o sospese se già iniziate ad una certa data). Ne consegue che sul piano della disciplina legale dei licenziamenti individuali e di quelli collettivi, il difetto di simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non si applica la prima, mentre si applica in parte la seconda) si riflette puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti: tale blocco è applicabile solo se si tratta di licenziamento collettivo, mentre resta escluso se si tratta di licenziamento individuale per ragioni oggettive. …”).

“[…] La Corte di Cassazione

(omissis)

Rilevato che

1.- M.P., all’epoca dei fatti dirigente dell’odierna società ricorrente, era stato licenziato in data 31/08/2020 nell’ambito di un complessivo disegno di ridimensionamento del personale, che aveva coinvolto vari dipendenti.

Adiva il Tribunale di Roma per ottenere la declaratoria di nullità del licenziamento sia per violazione del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e del divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo in pendenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 introdotto dall’art. 46 d.l. n. 18/2020 (conv. in L. n. 27/2020), prorogato poi dalla legge n. 178/2020 fino al 31/03/2021; sia per la sua natura discriminatoria e/o perché sorretto da motivo illecito determinante.

2.- Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, all’esito della fase c.d. sommaria di cui al rito previsto dalla legge n. 92/2012, esclusa la configurabilità di un licenziamento collettivo, accoglieva la domanda di impugnazione del licenziamento individuale, ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro, condannava la società al risarcimento del danno pari all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione.

3.- All’esito della fase a cognizione piena il Tribunale accoglieva l’opposizione della società e rigettava le domande del P..

4.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte territoriale accoglieva il reclamo proposto dal P. e per l’effetto dichiarava la nullità del licenziamento individuale del 31/08/2020 per contrasto con norma imperativa, condannava la società al risarcimento del danno, pari all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino al successivo licenziamento del 30/07/2021 (escludendo il diritto alla reintegrazione in conseguenza del sopravvenuto secondo licenziamento).

I giudici del reclamo ritenevano, all’esito di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che il divieto di licenziamenti individuali “per giustificato motivo oggettivo” previsto in conseguenza della pandemia da COVID-19 – previsto segnatamente dall’art. 14, co. 2, d.l. n. 104/2020, conv. in L. n. 126/2020 – si applicasse anche ai dirigenti.

5.- Con il primo motivo del ricorso per cassazione, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la società ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 14, co. 2, d.l. n. 104/2020, 12 e 14 disp.prel.c.c. per avere la Corte territoriale incluso nella disciplina del “blocco dei licenziamenti individuali” anche i rapporti di lavoro dirigenziali, soggetti – invece – al regime legale del licenziamento ad nutum. In particolare, parte ricorrente addebita ai giudici del reclamo di aver violato il criterio ermeneutico letterale, stabilito dall’art. 12 disp.prel.c.c., e di aver finito per applicare in via analogica una norma eccezionale come quella del c.d. blocco dei licenziamenti, malgrado il divieto di analogia per le norme eccezionali posto dall’art. 14 disp.prel.c.c.

In via subordinata chiede a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale della citata norma per sospetta violazione degli artt. 3, co. 1, e 41, co. 1, Cost. ove interpretato nel significato ritenuto dalla Corte territoriale.

Considerato che

1.- L’art. 14, d.l. n. 104/2020 (conv. con modificazioni dalla legge n. 126/2020), rubricato “Proroga delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo”, dispone:

“1. Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID 19 di cui all’articolo 1 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del presente decreto resta precluso l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5  e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto.

2. Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge.

3. Le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile, o nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Sono altresì esclusi dal divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso”.

2.- La sussistenza, in fatto, della condizione negativa prevista dalla norma (id est non avere il datore di lavoro integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’articolo 1 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del decreto legge n. 104 cit.) non è controversa fra le parti ed è stata data per presupposta dai giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio.

Parimenti non controversa in fatto è la circostanza per cui il licenziamento del P. è stato formalmente intimato per una ragione economico organizzativa (soppressione della posizione di “responsabile risorse umane” dei siti di Santa Palomba e di Aprilia ricoperta dal P.) e non ad nutum.

3.- Ai fini della decisione del primo motivo di ricorso per cassazione viene in rilievo il divieto temporaneo di licenziamento individuale previsto dall’art. 14, co. 2, d.l. n. 104 cit.

4.- La società ricorrente assume che, intesa la norma nel senso ritenuto dalla Corte territoriale, essa sarebbe in contrasto con l’art. 3, co. 1, Cost. sotto due profili:

a) finirebbe per mantenere ai dirigenti, ossia ai dipendenti economicamente più forti, il diritto all’intero trattamento retributivo, mentre per tutte le altre categorie sarebbe prevista la CIG e, quindi, soltanto il diritto al trattamento di integrazione salariale;

b) finirebbe per trattare diversamente datori di lavoro che hanno molti rapporti di lavoro dirigenziali rispetto a quelli che non ne hanno o hanno pochi dirigenti alle proprie dipendenze.

Le due questioni di legittimità costituzionale così come prospettate dalla società ricorrente sono manifestamente infondate.

Sub a), va evidenziato che la collocazione in CIG, anche nel periodo interessato dal c.d. blocco dei licenziamenti, non è automatica, ma pur sempre volontaria, ossia dipendente da una scelta – tecnica, economica, o di strategia imprenditoriale – del datore di lavoro in concreto. Sicché nulla esclude che anche altre categorie di dipendenti abbiano mantenuto il diritto al normale trattamento retributivo, qualora il datore di lavoro abbia deciso di non far ricorso (o almeno non per tutti) alla CIG.

In secondo luogo, nel senso della ragionevolezza di questa differente (solo possibile) conseguenza milita anche il profilo quantitativo: secondo massime di comune esperienza, nelle organizzazioni produttive il numero dei dirigenti è manifestamente e di gran lunga inferiore al numero dei dipendenti non dirigenti, sicché il peso economico delle retribuzioni dirigenziali è comunque inferiore a quello delle retribuzioni complessivamente spettanti ai non dirigenti. Ne consegue la ragionevolezza della scelta del legislatore di escludere soltanto per i dirigenti il possibile ricorso alla CIG (nel periodo rilevante nel presente giudizio) e comunque la sua irrilevanza ai fini della decisione.

Sub b), la prospettata violazione è insussistente, in quanto attiene a mere evenienze fattuali, come tali non idonee ad incidere sulla portata astratta della norma oggetto di interpretazione.

5.- Al fine di individuare l’ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali il legislatore dell’emergenza ha fatto testuale ed espresso riferimento al recesso “per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604” e, coerentemente, ha disposto altresì la sospensione del “procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge”(ossia della procedura dinanzi alla commissione provinciale del lavoro di cui all’art. 410 c.p.c., volta all’esperimento del tentativo di conciliazione per rinvenire una possibile alternativa al licenziamento con il consenso delle parti coinvolte).

Nel disciplinare l’ambito applicativo della legge n. 604/1966, il suo art. 10 non menziona i dirigenti. Tale silenzio è unanimemente ritenuto significativo della volontà di escludere i dirigenti (ubi tacuit, noluit) e, dunque, di mantenerli in un regime di recesso ad nutum (art. 2118 c.c.). Proprio sulla base di questo regime legale la contrattazione collettiva ha progressivamente introdotto una forma di tutela “convenzionale”, in termini sia di necessaria “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, sia di obbligo per il datore di lavoro di corrispondere una determinata indennità (c.d. supplementare) nel caso di licenziamento “non giustificato”.

Il consolidato orientamento di questa Corte di legittimità è nel senso della non coincidenza delle nozioni di “giustificato motivo” (di cui all’art. 3 L. n. 604/1966) e di “giustificatezza” (di cui alle previsioni dei contratti collettivi dei dirigenti di vari settori produttivi). In particolare questa Corte ha affermato che “La disciplina limitativa del potere di licenziamento, di cui alla l. n. 604 del 1966 e st.lav., non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 della l. n. 604 del 1966, ai dirigenti, neppure convenzionali; ne consegue che, ai fini dell’eventuale riconoscimento dell’indennità supplementare prevista per la categoria dirigenziale, occorre far riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza della risoluzione, che si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d’essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall’altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda” (Cass. ord. n. 27199/2018; Cass. n. 23894/2018).

Ne consegue che i dirigenti sono esclusi dall’ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali, perché nei loro confronti il recesso non viene intimato né può giuridicamente essere intimato “per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

L’espressione “ai sensi” è riferita alla nozione di recesso per “giustificato motivo oggettivo”, che assume giuridica rilevanza soltanto in tema di rapporti di lavoro subordinato non dirigenziali. Per i dirigenti, infatti, sul piano legale – come s’è detto – il recesso è ad nutum (art. 2118 c.c.) e, sul piano della contrattazione collettiva, è sufficiente che sia assistito da “giustificatezza”, da intendere in termini di non pretestuosità e/o non arbitrarietà.

6.- È invece diverso il regime del licenziamento collettivo: quest’ultimo riguarda anche i dirigenti, in termini di computo nel numero dei licenziandi ai fini dell’applicazione della disciplina di cui alla legge n. 223/1991 e in termini di diritto di informazione e consultazione sindacale e, quindi, di obblighi procedurali a carico del datore di lavoro.

Va infatti rammentata la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 13 febbraio 2014 (in causa 596/12 promossa dalla Commissione Europea), con cui la Repubblica Italiana è stata condannata per essersi resa inadempiente agli obblighi previsti dalla direttiva n. 98/59/CE del Consiglio del 20/07/1998, perché la normativa italiana di riferimento (Legge n. 223/1991) aveva originariamente escluso i dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo prevista dall’art. 2 dalla direttiva.

Il Parlamento Italiano è pertanto intervenuto con la Legge n. 161/2014 (pubblicata sulla G.U. n. 261 del 10 novembre 2014), con la quale la procedura dei licenziamenti collettivi è stata estesa anche ai dirigenti, attraverso una modifica ed una riformulazione dell’art. 24 della Legge n. 223/1991, sia pure nei limiti sopra sinteticamente esposti.

La conseguenza di ciò è immediatamente apprezzabile rispetto al c.d. blocco dei licenziamenti collettivi disposto dall’art. 14, co. 1, d.l. n. 104 cit. (e già prima dall’art. 46 d.l. n. 18/2020 conv. in L. n. 27/2020): esso riguarda certamente anche i dirigenti, perché ormai pure a costoro si applica la legge n. 223/1991, le cui procedure, da parte del legislatore dell’emergenza pandemica, sono state temporaneamente vietate (o sospese se già iniziate ad una certa data).

7.- Ne consegue che sul piano della disciplina legale dei licenziamenti individuali e di quelli collettivi, il difetto di simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non si applica la prima, mentre si applica in parte la seconda) si riflette puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti: tale blocco è applicabile solo se si tratta di licenziamento collettivo, mentre resta esclusose si tratta di licenziamento individuale per ragioni oggettive.

8.- Tale conclusione non è superabile in via di interpretazione costituzionalmente conforme della norma emergenziale, ispirata a criteri di solidarietà sociale e di equa distribuzione degli oneri derivanti dalla crisi. In particolare deve osservarsi che con il suddetto blocco dei licenziamenti individuali la collettività, attraverso la CIGS, ha assunto il peso economico del lavoro dipendente non dirigenziale (assolutamente preponderante in termini economici) ed il peso di altri benefici erogati alle imprese (sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali), a fronte dei quali i datori di lavoro hanno subìto una temporanea restrizione della facoltà di licenziamento, estesa secondo la sentenza impugnata, anche ai dirigenti. Il riferimento testuale al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 L. n. 604/1966 –secondo i giudici del reclamo – rappresenterebbe solo la tecnica normativa per alludere alle motivazioni economiche, ossia per identificare la natura della ragione posta a fondamento del recesso datoriale e non per delimitare la platea soggettiva di applicazione del divieto e, dunque, dei relativi beneficiari.

9.- Orbene, va ricordato che l’interpretazione costituzionalmente conforme di una norma di legge si fonda sul principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la norma conforme a Costituzione (C. Cost. n. 456/1989). In tal senso questa Corte ne ha fatto applicazione in molteplici occasioni (ex multis Cass. 17/07/2015, n. 15083; Cass. 17/01/2020 n. 823 (ndr Cass. 16/01/2020 n. 823) ) sulla scorta del consolidato insegnamento, secondo cui “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (C. Cost. 22/10/1996, n. 356).

10.- Ad avviso di questa Corte, tuttavia, l’interpretazione offerta dai giudici del reclamo non può essere condivisa, in quanto l’interpretazione costituzionalmente orientata postula più soluzioni astrattamente possibili. Invece, nel caso in esame quella affermata dalla Corte territoriale non rientra fra le interpretazioni astrattamente possibili.

Vi osta il dato letterale assolutamente univoco, rappresentato dal testuale ed espresso richiamo al recesso “per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Trattasi di un elemento dal quale non è possibile prescindere (art. 12 disp.prel.c.c.), atteso il c.d. primato del criterio ermeneutico letterale che, per il suo carattere di oggettività e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il criterio cardine nella interpretazione della legge e concorre alla definizione in termini di certezza della fattispecie regolata (Cass. sez. un. n. 23051/2022 in tema di fattispecie tributaria, ma con affermazioni di principio di valenza generale).

D’altronde, come ha sottolineato anche parte della dottrina, non si può “leggere nella disposizione quello che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse”.

Quel richiamo al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 cit. non ha valenza polisemica. Il suo significato è infatti riferito da concorde dottrina e pluriennale giurisprudenza di questa Corte di legittimità al licenziamento individuale del dipendente non dirigente, in coerenza con l’art. 10 L. n. 604/1966, interpretato dal “diritto vivente” come norma che esclude i dirigenti dall’ambito applicativo del regime legale di cui alla stessa legge.

Ne consegue che la nozione di “giustificato motivo oggettivo” è una soltanto e postula la natura non dirigenziale del rapporto di lavoro in cui è intervenuto il licenziamento: pertanto non si presta ad un’interpretazione estensiva.

Dunque la funzione e gli effetti di quel testuale richiamo (compiuto dal legislatore nella norma emergenziale) non si limitano – come invece ritenuto dai giudici del reclamo – all’identificazione della natura della ragione giustificatrice del recesso individuale, ma si estendono all’individuazione delle categorie (legali) di dipendenti ai quali quella ragione è riferibile nel regime giuridico legale del loro rapporto di lavoro. E fra tali categorie non vi è quella dei dirigenti.

11.- L’ulteriore conseguenza è che, per i licenziamenti individuali di questi ultimi, la legislazione dell’emergenza pandemica presenta una vera e propria lacuna normativa, che tuttavia non è possibile colmare mediante applicazione analogica.

Va infatti considerato che il c.d. blocco dei licenziamenti rappresenta un’eccezione – sia pure temporanea – ai normali poteri datoriali (art. 3 L. n. 604/1966; art. 2118 c.c.), che trovano fondamento e giustificazione nel c.d. rischio di impresa e, in ultima analisi, nell’art. 41 co. 1 Cost.
Ne consegue che è inammissibile l’applicazione analogica, espressamente vietata per le norme eccezionali dall’art. 14 disp.prel.c.c.

12.- Nondimeno è da considerare che ai fini del divieto temporaneo dei licenziamenti non sussiste alcuna diversità fra il licenziamento collettivo e quello individuale, dal momento che la differente procedura non ha alcun rilievo rispetto ad una norma eccezionale emanata per fronteggiare un momento di straordinaria crisi sociale ed economica causata da un fattore del tutto imprevedibile come la pandemia da COVID-19.

 La ratio di ordine pubblico è agevolmente individuale nell’esigenza di evitare in via provvisoria che le generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducessero nella soppressione immediata di posti di lavoro, con immediata perdita della capacità reddituale dei dipendenti ed impossibilità di reimpiego.

Alla luce di questa ratio del divieto di licenziamento, comune a tutte le sue forme, sia esso collettivo o individuale, va allora valutata la ragionevolezza di una vera e propria asimmetria di tutela: mentre per i dipendenti non dirigenti la tutela è “globale”, in quanto il divieto investe sia i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi, per i dipendenti dirigenti la tutela è soltanto parziale, in quanto il divieto investe solo i licenziamenti collettivi.

Questa Corte dubita della ragionevolezza di tale asimmetria e, dunque, ritiene che la norma violi l’art. 3 Cost.

13.- Va premesso che la discrezionalità del legislatore è, per definizione libera e, pertanto, insindacabile a condizione che sia ragionevole, ovvero, che la norma sia adeguata e congruente rispetto alla finalità perseguita dal legislatore medesimo.

Nel caso di specie tale condizione non sembra sussistere.

14.- Non può condividersi la tesi – pure da taluni prospettata – secondo cui il divieto di licenziamento si accompagnerebbe indissolubilmente al costo del lavoro a carico della collettività mediante la CIGS, non applicabile ai dirigenti.

Questo asserito binomio “divieto di licenziamento / costo del lavoro a carico della collettività” è smentito dallo stesso legislatore, che, con l’art. 14, co. 1, d.l. n. 104 cit. (e ancor prima con l’art. 46 d.l. n. 18/2020), ha vietato e/o “bloccato” temporaneamente il licenziamento collettivo, che può riguardare anche i dirigenti. In tal caso è dunque da riconoscere l’operatività del c.d. blocco senza possibilità di ricorrere alla CIGS, sicché il costo del dirigente o dei dirigenti – altrimenti licenziabili – finisce per restare a carico del datore di lavoro.

In corrispondenza con questo “sacrificio” imposto ai datori di lavoro il legislatore ha riconosciuto una pluralità di misure economiche (introduzione di una fattispecie tipizzata di CIG: artt. 19 e 22 quinquies d.l. n. 18/2020 conv. in L. n. 27/2020; sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali: d.l. n. 18/2020 conv. in L. n. 27/2020; contributi a fondo perduto: d.l. n. 137/2020 conv. in L. n. 176/2020 e successivi “decreti ristori”; credito d’imposta su locazione di immobili ad uso non abitativo: art. 28 d.l. n. 34/2020 “decreto rilancio” conv. in L. n. 77/2020) che presuppongono tutte – sul piano logico e giuridico – la portata generalizzata del c.d. blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per ragioni oggettive, a prescindere dalla categoria legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili.

Ne consegue che a fronte di questo bilanciamento si presenta del tutto eclettica la scelta del legislatore di vietare temporaneamente i licenziamenti collettivi (per loro stessa natura derivanti da ragioni oggettive, cioè riguardanti l’organizzazione dell’impresa) di dirigenti e non anche quelli individuali dei dirigenti medesimi per ragioni del pari oggettive.

L’irragionevolezza di questa scelta si manifesta in modo ancora più evidente, ove si consideri che il “sacrificio” a carico dei datori di lavoro è certamente più gravoso in presenza di un possibile licenziamento collettivo, sia perché questo coinvolgerebbe per definizione più dipendenti, sia perché gli oneri datoriali in tal caso sarebbero soltanto di tipo procedurale.

Ne consegue che, nei confronti del datore di lavoro, il sacrificio “più grave” (ossia il c.d. blocco del licenziamento collettivo, che altrimenti può coinvolgere anche dirigenti) viene disposto dal legislatore, che invece esclude, nel contempo, quello “meno grave” (ossia il c.d. blocco del licenziamento individuale per ragioni oggettive concernenti la posizione del singolo dirigente).

Questa scelta è irragionevole, perché “nel più sta il meno”: se nel bilanciamento dei contrapposti interessi il legislatore ha ritenuto di poter sacrificare (per un tempo determinato) la facoltà di recesso collettivo del datore di lavoro anche nei confronti dei dirigenti, a maggior ragione avrebbe dovuto sacrificare quella di recesso individuale. In definitiva, se – nell’ottica del bilanciamento – il complesso delle misure di sostegno economico alle imprese è stato ritenuto dal legislatore idoneo a “compensare” il sacrificio rappresentato dal blocco dei licenziamenti collettivi, anche dei dirigenti, a maggior ragione quelle stesse misure di sostegno sono da considerare ampiamente (e ancor di più) idonee a compensare il minor sacrificio del blocco dei licenziamenti individuali per ragioni oggettive dei dirigenti.

L’omessa previsione di questo sacrificio “minore”, da un lato, e – dall’altro – l’impossibilità letterale di interpretare la norma in discorso (art. 14, co. 2, d.l. n. 104/2020, conv. in L. n. 126/2020) in modo da ricomprendere nel blocco anche il licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per ragioni oggettive, impongono a questa Corte di sollevare rispetto a detta norma la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost.: in nessun modo l’omessa previsione denunziata si presta ad essere giustificata sul piano costituzionale, né – come s’è detto – è risolvibile mediante il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice, ostandovi il tenore letterale.

Dunque, non resta che prendere atto della irragionevolezza della scelta legislativa di “bloccare”, rispetto ai dirigenti, i soli licenziamenti collettivi e non anche quelli individuali dovuti a ragioni oggettive.

15.- Alla luce delle considerazioni svolte e del principio metodologico ribadito da C. Cost. n. 42/2017 (secondo cui “… A fronte di adeguata motivazione circa l’impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte ha già avuto modo di affermare che «la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità» (sentenza n. 221 del 2015… sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonché, nel medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016) … ”), la questione della legittimità costituzionale dell’art. 14, co. 2, d.l. cit. nella parte in cui non prevede il divieto (temporaneo) di licenziamento del dirigente per ragioni oggettive, oltre ad essere rilevante ai fini della decisione del primo motivo del ricorso per cassazione proposto dalla datrice di lavoro del dirigente (tutto incentrato sull’inapplicabilità del “blocco” dei licenziamenti a quelli individuali di dirigenti intimati per ragioni oggettive), si presenta non manifestamente infondata in relazione all’art. 3 Cost., parametro che da lungo tempo la giurisprudenza della Corte costituzionale ritiene coinvolto ogni qual volta la norma di legge si presenti irragionevole, ossia non adeguata o congruente rispetto alla finalità perseguita dal legislatore.

P.Q.M.

Visto l’art. 23 della legge n. 83/1957,

a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, co. 2, d.l. n. 104/2020 conv. in L. n. 126/2020 per contrasto con l’art. 3 Cost.;

b) dispone l’immediata trasmissione di tutti gli atti di causa alla Corte Costituzionale;

c) sospende il giudizio in corso;

d) dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento […]”.