Malattia, Assenza della lavoratrice durante la visita fiscale, Trattenuta della retribuzione.
Corte di Cassazione. Sentenza 10 novembre 2021, n. 33180CORTE DI CASSAZIONE. Sentenza 10 novembre 2021, n. 33180.
Rapporto di lavoro, Malattia, Assenza della lavoratrice durante la visita fiscale, Trattenuta della retribuzione
“[…] Fatti di causa.
1.La Corte d’Appello di Bari ha rigettato il gravame proposto da M. B. avverso la sentenza del Tribunale di Trani, che aveva ritenuto legittima la trattenuta della retribuzione, pari a tre giorni di servizio, applicata dal Comune di Trani nei confronti della lavoratrice in attuazione dell’art. 5, co. 14, d.l. 463/1983, per essere stata la stessa assente senza giustificato motivo, in occasione della visita fiscale disposta al terzo giorno della sua malattia, della durata di trenta giorni a decorrere dal 25.2.2008.
La Corte territoriale riteneva che il documento depositato per comprovare la necessità ed urgenza dell’allontanamento da casa per svolgere tre esami diagnostici fosse produzione, per un verso, tardiva e per altro verso inidonea al fine perseguito, in quanto la necessità dell’accertamento era concetto diverso da quello della sua urgenza e indifferibilità e del resto il documento era generico.
Infondato era poi il richiamo al diritto di cura ed alla sufficienza di seri e fondati motivi per l’assenza, in quanto né l’uno né l’altro elemento erano in discussione, ma ciò che rilevava era l’impossibilità di utilizzare un arco temporale diverso per il medesimo incombente, in sé non
dimostrata, in quanto la necessità di 5 ore per le tre indagini radiologiche svolte poteva essere collocata in altro momento della giornata, compatibile con la reperibilità, né aveva rilievo il fatto che la A.S.L. il giorno successivo, in sede di visita ambulatoriale, avesse confermato la prognosi di trenta giorni.
2.M. B. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. Il Comune di Trani ha resistito con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ai sensi dell’art. 23, co. 8- bis, d.l. 137/2020, conv. con mod. in L. 176/2020, con la quale ha insistito per la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto tardivo.
Ragioni della decisione.
1. Il primo motivo di ricorso afferma la violazione e falsa applicazione della L. 638/1983, dell’art. 21 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (di seguito, CCNL) del comparto delle regioni ed autonomie locali, nonché dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 416 c.p.c. La ricorrente sottolinea come la norma collettiva non subordinasse l’allontanamento da casa per visite mediche o accertamenti, nelle ore di reperibilità, alla natura urgente di tali incombenti. La Corte territoriale avrebbe dunque dovuto limitarsi a prendere atto della fissazione di tali visite, senza indagarne la assoluta indifferibilità o l’urgenza, in quanto profili non rilevanti, tanto più che si era verificata l’ulteriore condizione posta dall’art. 21 del CCNL al legittimo allontanamento e consistente nel tentativo di comunicazione all’ente di quanto sopravvenuto, non concretizzatosi perché dell’ente nessuno rispondeva al telefono.
Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., richiamando l’art. 360 n. 3 c.p.c., per non avere la Corte di merito svolto verifiche officiose sulla gravità della patologia e sulla necessità dell’allontanamento.
2.I due motivi sono da esaminare congiuntamente, stante la loro connessione.
3.Le conclusioni di primo grado trascritte nel ricorso per cassazione sono espresse nel senso dell’annullamento «della contestazione disciplinare e della relativa sanzione» così come anche il ricorso per cassazione fa riferimento, nel contesto del primo motivo (pag. 14) ad un provvedimento con cui è stata «comminata la sanzione disciplinare».
3.1 Si tratta tuttavia di impostazione giuridicamente errata. La questione oggetto di giudizio non riguarda infatti una sanzione disciplinare, ovverosia una prestazione imposta a titolo punitivo dal datore di lavoro, ma il regime delle obbligazioni al verificarsi di una malattia, allorquando risulti l’allontanamento del lavoratore negli orari di reperibilità utili allo svolgimento della c.d. visita fiscale.
Ciò è reso evidente non solo dal richiamo nel provvedimento della norma di condotta del C.C.N.L. di pertinenza, chiaramente destinata a regolare i comportamenti obbligatori dovuti nell’ambito del rapporto di lavoro (art. 21, co. 13, del citato CCNL secondo cui «qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall’indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all’amministrazione»), quanto piuttosto dalla norma sulla cui base la P.A. ha agito con atto da essa stessa definito di “gestione” del personale (art. 5, co. 14 d.l. 463/1983 conv. con mod.
in L. 638/1983, secondo cui «qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l’intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l’ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo»), da cui si desume come quella prevista sia una mera conseguenza obbligatoria, espressamente regolata dalla legge, destinata ad operare all’interno del rapporto previdenziale e quindi dell’I.N.P.S., quando sia tale ente, come nel lavoro privato, ad erogare il trattamento, oppure nei riguardi del datore di lavoro quando, come è nel pubblico impiego, sia quest’ultimo a corrispondere quanto dovuto, ai sensi di legge (ora art. 71 d.l. 112/2008, conv. con mod. in L. 133/2008) o di contrattazione collettiva.
3.2 Da quanto sopra deriva che il ricorso per cassazione, quale naturale prosecuzione dell’originaria impostazione di causa, è mal posto, in quanto basato su una prospettazione giuridico-fattuale (sanzione disciplinare) non coerente con quanto effettivamente controverso tra le parti.
3.3 Pur dovendosi anche osservare che la stessa prospettazione della ricorrente secondo cui essa avrebbe rispettato gli obblighi comunicativi (attraverso il tentativo, nelle tre giornate tra la prescrizione degli accertamenti ed il loro svolgimento, di telefonare al Comune, come da quella che afferma essere una prassi aziendale, senza ricevere risposta) non è in sé sufficiente (in quanto, anche ad ammettere quella prassi, il comportamento del lavoratore nell’adempiere al proprio obbligo comunicativo va integrato con ogni variante che si renda necessaria nel caso concreto, secondo il principio di correttezza ed è dunque palese come risulti manifestamente insufficiente, per chi sia dipendente di un Comune, addurre
l’impossibilità comunicativa per il solo fatto di non avere ricevuto risposta ad alcune telefonate, avendo il medesimo a disposizione una tale quantità di mezzi, più o meno formali, per superare l’ostacolo – a parte l’ipotesi del telegramma, basti pensare alla possibilità di far “sbloccare” uno dei telefoni da raggiungere attraverso la collaborazione di un qualche collega etc. – da non potersi in alcun modo neanche ipotizzare che, in giornate lavorative, il Comune ed i suoi uffici non potessero essere in qualche modo contattati) è comunque proprio l’errata impostazione dell’intera causa a rendere pregiudizialmente inammissibili motivi che, riguardando un’ipotetica sanzione disciplinare, sono comunque fuori asse rispetto a quanto accaduto tra le parti.
3.4 Il profilo appena esaminato rende dunque superflua ogni altra questione di cui ai motivi di ricorso, come anche la questione sulla tardività del ricorso per cassazione, meno liquida in quanto tale da imporre, per la sua definizione, verifiche presso la Cancelleria del giudice a quo in ordine, secondo la linea ricostruttiva di cui a Cass., S.U., 22 settembre 2016, n. 18569, ai dati del registro cronologico con riferimento alla doppia datazione (deposito e pubblicazione) contenuta in calce alla sentenza impugnata.
4.Quanto alle spese, si rileva che il ricorso principale fu notificato il 22.9.2015 e dunque il controricorso doveva essere posto in notifica, ai sensi dell’art. 370 (e 369) c.p.c., entro i successivi quaranta giorni, mentre ciò avvenne solo il 20.11.2015.
Trattandosi di controricorso tardivo, esso è inammissibile e permetterebbe soltanto la partecipazione all’udienza di discussione o, ora, secondo il regime speciale del periodo pandemico di cui all’art. 23, co. 8-bis, d.l. 137/2020, conv. con mod. in L. 176/2020, il deposito di memoria. Ma la discussione non vi è stata e nessuna memoria è stata depositata,
sicché non vi è stata alcuna attività rituale del Comune che legittimi, nonostante la soccombenza della ricorrente, il riconoscimento del rimborso di spese legali.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma
del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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