Utilizzabili le informazioni recuperate dal pc di un ex dipendente
Corte di Cassazione, Sentenza n. 33809/2021Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, Sentenza n. 33809 del 12 novembre 2021.
Nota di Luigi Verde
1. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33809 del 12 novembre 2021, tratta del bilanciamento tra il diritto di difesa e la tutela della riservatezza.
Un dirigente si dimetteva e riconsegnava il pc di proprietà aziendale formattato (ovvero senza alcun dato). Il datore di lavoro incaricava un perito di tentare il recupero del maggior numero di informazioni. L’operazione dava esito positivo ed emergevano, una serie di reiterate condotte infedeli (e potenzialmente illecite). La società agiva quindi in giudizio per ottenere dal dirigente il risarcimento del danno per le condotte e i comportamenti emersi nelle conversazioni recuperate e per la perdita di dati presenti sul pc aziendale, parte integrante del patrimonio societario.
2. Come anticipato, la sentenza n. 33809 del 12 novembre 2021 riguarda il caso di un dirigente che svolgeva mansioni di direttore commerciale, il quale, dopo essersi dimesso, aveva restituito il PC aziendale, previamente cancellando e asportando dati di contenuto lavorativo (e-mail, numeri di telefono, informazioni su prodotti e metodi di produzioni).
L’azienda, con l’ausilio di un tecnico informatico, riusciva a recuperare la password del dirigente e, avuto accesso all’hard disk del computer, constatava che il suo ex dipendente si era appropriato di informazioni aziendali riservate, allo scopo di diffonderle a terzi. La società pertanto conveniva in giudizio il suo ex dipendente, chiedendo il risarcimento dei danni. Il lavoratore eccepiva la non utilizzabilità delle conversazioni per il fatto che esse sarebbero state illegittimamente acquisite dalla sua ex datrice di lavoro sul suo account privato Skype, e pertanto in violazione della segretezza della corrispondenza, così come della password personale di accesso.
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda dell’azienda, mentre la Corte d’appello riformava la sentenza ritenendo che la società avesse prodotto prove non utilizzabili (messaggi privati) in quanto acquisite in violazione del diritto alla riservatezza e alla segretezza della corrispondenza.
La Corte di Cassazione, infine, cassava la pronuncia in appello, con rinvio alla Corte territoriale. Secondo la S.C., “la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza: dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dall’art. 9, lett. a) e d) I. 675/1996, sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3358; così pure, ai sensi degli artt. 4 e 11 d.lg. 196/2003 applicabili ratione temporis; Cass. B febbraio 2011, n. 3033)”.
Sebbene, quindi, l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori ponga garanzie precise per il controllo dei lavoratori, il datore di lavoro può verificare i messaggi privati del suo ex dipendente in tutte le ipotesi di controllo difensivo senza incorrere nella violazione del diritto alla riservatezza e produrre in giudizio documenti contenenti dati personali del suo ex dipendente, prevalendo il diritto di difesa su quello di inviolabilità della corrispondenza.
Accertata la legittimità della condotta datoriale, la Cassazione affermava dunque che il lavoratore che cancella dati aziendali lede il patrimonio aziendale commettendo un illecito civile da cui deriva il diritto del datore di lavoro di procedere con la richiesta di risarcimento danni, integrando peraltro l’ipotesi del reato di danneggiamento informazioni, dati e programmi informatici (anche se la cancellazione non è definitiva), come previsto dall’art. 635-bis c.p.. La Corte aggiungeva che, sebbene non fosse oggetto della questione posta al loro esame, “la distruzione da parte del dipendente di beni aziendali, quali appunto quelli memorizzati nel personal computer” costituisce “condotta integrante violazione dei doveri di fedeltà e di diligenza, tale da costituire giusta causa di licenziamento (Cass. 14 maggio 2015 n. 9900)”.
3. Dal testo della sentenza n. 33809/2021.
“[…] Fatto
1.Con sentenza del 27 (notificata il 31) marzo 2017, la Corte d’appello di Torino rigettava la domanda risarcitoria proposta da A.T.A. s.r.l., per voci patrimoniali varie, di oltre € 1.200.000,00 e per danno all’immagine e alla reputazione professionale da liquidare in via equitativa, nei confronti dell’ing. A.T. (suo dipendente dal marzo 2007 quale dirigente con mansioni di direttore commerciale e dal 2012 anche responsabile dell’area calzature per Toscana e Lombardia, inaspettatamente dimessosi per ragioni familiari il 2 settembre 2013) e condannava la società datrice al pagamento, in favore del predetto a titolo di indennità di mancato preavviso, della somma di € 23.833,33 lordi oltre rivalutazione e interessi dalla cessazione del rapporto: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece condannato il dirigente al pagamento, in favore della società a titolo risarcitorio, della somma di € 370.000,00 oltre rivalutazione e interessi dalle date di maturazione del credito e rigettato la domanda riconvenzionale del lavoratore.
2. .In merito agli addebiti di violazione dell’obbligo di fedeltà del dipendente negli anni 2012 e 2013 (in particolare: suo coinvolgimento nella cancellazione del logo K. serigrafato sui rotoli dei nastri; fornitura di ingenti quantità di nastri B gratuitamente o a prezzo di costo all’agente AS Rappresentanze in Toscana e al distributore B. in Lombardia, per agevolare la vendita del nastro A contraffatto, tramite l’abbinamento con il nastro B originale; relazioni con soggetti in concorrenza con ALC; rivelazione a terzi di informazioni tecniche sui metodi di produzione aziendali; partecipazione a prove tecniche di campioni di prodotto concorrente; omessa segnalazione ai vertici aziendali della perdita di clientela e di calo di fatturato in Toscana e in Lombardia), al contrario del Tribunale, la Corte territoriale escludeva l’esistenza di prova alcuna.
3.E ciò sia per l’inutilizzabilità delle conversazioni illegittimamente acquisite dalla società datrice, una volta riconsegnato dal dipendente il computer aziendale in dotazione, sul suo account privato Skype, in violazione della segretezza della corrispondenza (tale essendo anche quella informatica o telematica) e pure della password personale di accesso del lavoratore, mai avendo la società ritenuto di fornirne una aziendale, nonostante l’impiego dell’applicativo Skype anche per lo svolgimento dell’attività lavorativa: non potendo tali comportamenti, in difetto di consenso dell’interessato, essere giustificati dall’art. 24 d.lg. 196/2003 (Codice della Privacy), in assenza di attualità e diretta strumentalità
all’esercizio o alla tutela di un diritto in sede giudiziaria; sia per
inidoneità delle risultanze istruttorie, in esito a loro critico ed argomentato
scrutinio, al coinvolgimento del dirigente negli illeciti suindicati.
4.Infine, la Corte subalpina riconosceva al predetto il diritto all’indennità di preavviso (nell’importo richiesto con la domanda riconvenzionale, siccome incontestato), avendo egli manifestato, al di là della propria preferenza per una cessazione anticipata del rapporto per le dimissioni rassegnate per ragioni familiari, la disponibilità a lavorare l’intero periodo; avendolo poi la società datrice unilateralmente da ciò esonerato.
5. Con atto notificato il 29 maggio 2017, la società ricorreva per cassazione con cinque motivi, cui il lavoratore resisteva concontroricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
6. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da I. conv. 176/20, nel senso dell’inammissibilità o del rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 15 Cost., 616 c.p., disposizioni del d.lg. 196/2003, per la legittima attività di recupero dei documenti, dati e informazioni contenuti, e dolosamente cancellati dal dirigente prima della riconsegna, nei dispositivi aziendali (in particolare, nel computer) datigli in dotazione e pure integranti patrimonio aziendale, dopo la cessazione del rapporto di lavoro e quindi rientrati nella disponibilità giuridica della società, lasciati dallo stesso dirigente impressi sul computer, afferenti l’attività lavorativa e scambiati dal predetto con altri referenti della rete commerciale, attraverso l’applicativo Skype ordinariamente utilizzato dai dipendenti attraverso la rete internet aziendale: pertanto non integrante incursione in una corrispondenza privata “chiusa”; dovendosi infine ritenere la neutralità della password di accesso a Skype, siccome non finalizzata alla protezione di dati personali ma relativa a comunicazioni aziendali, al pari di quella di utilizzazione della casella di posta elettronica in dotazione.
2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 15 Cost., 616 c.p., disposizioni del d.lg. 196/2003 (tra cui l’art. 11, secondo comma), in relazione agli artt. 24 Cost., 51 c.p., 24, primo comma, lett. f) d.lg. cit., per omissione dalla Corte territoriale di alcun bilanciamento tra il diritto alla riservatezza della corrispondenza (sempre che sussistente, alla luce della precedente censura) e il diritto di difesa della società, a fronte del grave danneggiamento dei beni aziendali (per la cancellazione, incontestata, di tutti i dati, messaggi email, documenti,
numeri di telefono … contenuti nel computer riconsegnato dopo la sua
formattazione), dovendo essa porsi nella condizione di verificare, tramite
consulente informatico, la possibilità del loro recupero: a prescindere
dall’esito di un tale bilanciamento, che pure avrebbe dovuto essere di
prevalenza del diritto di difesa, anche attraverso la scriminante
dell’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.), quale il trattamento dei dati,
anche in assenza del consenso dell’interessato, qualora necessario
all’esercizio o alla tutela di un diritto in sede giudiziaria (24, primo comma,
f, d.lg. 196/2003).
3.Con il quinto motivo, la ricorrente deduce omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, quali: la riconsegna dal dirigente dei dispositivi aziendali dolosamente svuotati di tutti i dati, messaggi email, documenti, numeri di telefono … ivi contenuti; il contatto del dirigente, un mese dopo le dimissioni, con il tecnico informativo di ALC per la cancellazione di alcuni messaggi email nel frattempo inviatigli dai mittenti all’indirizzo di posta elettronica aziendale; il contenuto di tali messaggi.
3.1.I tre motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono fondati.
4.Reputa il Collegio che effettivamente la Corte subalpina abbia omesso l’esame del fatto storico (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053) della riconsegna dal dirigente dei dispositivi aziendali svuotati di tutti i dati: circostanza di cui peraltro essa stessa ha dato atto quale elemento, acquisito dalle risultanze istruttorie, valorizzato dal Tribunale (“la cancellazione totale … di dati e file presenti sull’hard disk del computer aziendale”: al penultimo capoverso di pg. 4 della sentenza). Ed esso è pure di carattere decisivo, nel senso della sua idoneità a determinare un esito diverso della controversia (Cass. 27 novembre 2014, n. 25216; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415). La giurisprudenza penale di questa Corte ritiene, infatti, che anche la cancellazione, che non escluda la possibilità di recupero se non con l’uso anche dispendioso di particolari procedure, integri gli estremi oggettivi della fattispecie delittuosa dell’art. 635bis c.p., per conformità alla sua ratio (Cass. pen. 5 marzo 2012, n. 8555). Ed è ciò che è avvenuto nel caso di specie, per la necessità da parte della società datrice di affidare l’hard disk del computer formattato ad un perito informatico (ing.
Porta) per le relative analisi, che le hanno consentito di recuperare una serie
di conversazioni scritte effettuate dal dirigente sull’applicativo Skype negli
anni 2011 – 2013 (ultimi tre alinea di pg. 2 e primo di pg. 3 della sentenza):
circostanza parimenti valorizzata dal Tribunale, che ha in particolare negato
che “l’hard disk del computer fosse stato manipolato prima di essere
consegnato all’ing. Porta per la sua analisi, avendo la stessa indagine
consentito di escludere qualsiasi tipo di manipolazione” (così all’ultimo
capoverso di pg. 6 della sentenza).
5. Tanto premesso, giova ribadire che la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza: dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei
doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dall’art. 9, lett.
a) e d) I. 675/1996, sicché la legittimità della produzione va valutata in base
al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il
grado di riservatezza, con le esigenze di difesa (Cass. 11 febbraio 2009, n.
3358; così pure, ai sensi degli artt. 4 e 11 d.lg. 196/2003 applicabili ratione
temporis: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3033). E che le prove precostituite, quali
i documenti, entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività
contestabili solo se svolte in contrasto con le regole rispettivamente
processuali o di giudizio, che vi presiedono, senza che abbia rilievo una
valutazione in termini di utilizzabilità, categoria propria del rito penale ed
ignota al processo civile (Cass. 25 marzo 2013, n. 7466).
5.1. Ebbene, la Corte territoriale ha omesso di bilanciare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza, posto che, in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo l’art. 24,
lett. f) I. 196/2003 di prescindere dal consenso della parte interessata per il
trattamento di dati personali, quando esso sia necessario per la tutela
dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, a condizione che i dati siano
trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente
necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612). Quanto
alla sua estensione, questa Corte ha esplicitamente affermato che “il
diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale,
estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa
utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata
mediante citazione o ricorso … ” (Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424, che
ha escluso la natura di illecito disciplinare di una condotta scriminata dal
legittimo esercizio di un diritto, ai sensi dell’art. 51 c.p., per la sua
portata generale nell’ordinamento, non limitata all’ambito penale).
5.2. Nel caso di specie, l’attività di recupero dei dati, cancellati dal dirigente prima della riconsegna del computer avuto in dotazione e integranti patrimonio aziendale, dopo la cessazione del rapporto di lavoro (in proposito, con specifico riferimento ai controlli a distanza regolati dall’art. 4, secondo comma I. 300/1970, nel testo anteriore alle
modifiche dell’art. 23, primo comma d.lg. 151/2015, i controlli difensivi
datoriali non richiedendo l’osservanza delle garanzie ivi previste, se diretti
ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine
aziendale, tanto più se disposti ex post, dopo l’attuazione del comportamento
in addebito: Cass. 28 maggio 2018, n. 13266), è stata compiuta da ACL s.r.l. in
funzione dell’odierno giudizio risarcitorio, sul presupposto della distruzione
da parte del dipendente di beni aziendali, quali appunto quelli memorizzati nel
personal computer: condotta integrante violazione dei doveri di fedeltà e di
diligenza, tale da costituire giusta causa di licenziamento (Cass. 14 maggio
2015, n. 9900).
6. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 111 Cost., 113 c.p.c., 11, secondo comma, 160, sesto comma d.lg. 196/2003, per inesistenza nell’ordinamento processuale civile (al contrario di quello penale) di alcuna norma di divieto, erroneamente ritenuto dalla Corte d’appello, di utilizzabilità di prove, pure
acquisite in violazione di legge, dovendo essere operato di volta in volta un
bilanciamento con il diritto di difesa (qui, in particolare) del diritto alla
riservatezza, dovendosi pure rilevare il mancato disconoscimento delle
riproduzioni documentali, ai sensi dell’art. 2712 c.c., alla corrispondenza
elettronica recuperata, riservando il Codice della Privacy la questione della
validità, efficacia e utilizzabilità di tali atti alla disciplina processuale
in materia civile e penale; e con il quarto, violazione e falsa applicazione
dell’art. 4 I. 300/1970, per la non pertinenza della norma, relativa al divieto
di controllo datoriale a distanza sull’attività lavorativa del dipendente,
lesivo della sua dignità, all’indagine della società, a tutela del proprio
patrimonio aziendale e dopo le dimissioni del dipendente e pertanto
retrospettivamente rispetto ad una condotta posta in essere nel corso di un
rapporto di lavoro ormai cessato, a scopo unicamente difensivo; essendo
peraltro riconosciuta la legittimità pure del controllo a distanza, se
finalizzato alla tutela del patrimonio aziendale.
7. Essi sono assorbiti.
8. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del primo, secondo e quinto motivo di ricorso, con assorbimento del terzo e del quarto, cassazione della sentenza, in relazione ai motivi accolti e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di
legittimità, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il primo, il secondo e il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione. […]”
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