(Studio legale  G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 14 ottobre 2024, n. 26624.

Lavoro. Inesistenza decadenza o risoluzioni consensuali e rinunce e transazioni. Unico rapporto di lavoro subordinato. Collaborazione coordinata e continuativa senza progetto. Illegittimità licenziamento senza giusta causa, né giustificato motivo.

[…] in base al “principio dell’assorbimento”, il compenso pattuito dalle parti in relazione ad un rapporto qualificato dalle stesse come autonomo e non subordinato si presume destinato a compensare integralmente l’opera prestata dal lavoratore. Per tale motivo, nel caso in cui detto rapporto sia riconosciuto dal giudice come subordinato, eventuali differenze retribuite a vantaggio del lavoratore vanno calcolate tenendo conto dell’intero trattamento retributivo corrispostogli dal datore. Inoltre (Cass. sentenza n. 46 del 03/01/2017) ove si accerti che il compenso per lavoro autonomo pattuito dalle parti sia superiore a quello minimo previsto dal contratto collettivo, il datore di lavoro, cui non è impedito di erogare un trattamento più favorevole, potrà ottenerne la restituzione solo ove dimostri che la maggiore retribuzione sia stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dell’altro contraente ex artt. 1429 e 1431 c.c.[…]”

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Fatti di causa

La Corte d’appello di Milano, con la sentenza in atti, ha rigettato il reclamo proposto da R. srl nei confronti di S.V. ed avverso la sentenza n. 123/2020 del tribunale di Monza condannandola al pagamento delle spese processuali.

A fondamento della sentenza, per quanto ancora d’interesse, la Corte d’appello ha ritenuto l’inesistenza della decadenza o di risoluzioni consensuali e di rinunce e transazioni; la nullità dei vari rapporti di prestazione professionale da ritenere come un unico rapporto di lavoro subordinato (anche in seguito alla esistenza di una collaborazione coordinata e continuativa senza progetto); l’illegittimità del licenziamento senza giusta causa, né giustificato motivo e la condanna al pagamento dell’ultima retribuzione globale percepita di fatto; il rigetto della eccezione dell’aliunde perceptum vel percipiendum per disoccupazione e per la genericità e tardività della prova integrativa.

 Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione R. srl con sette motivi di ricorso ai quali ha resistito S.V. con controricorso.

La ricorrente ha depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.

Ragioni della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e o falsa applicazione dell’articolo 2113 e dell’articolo 2694 c.c. nella valutazione dell’inefficacia delle risoluzioni consensuali e delle rinunce intervenute tra le parti ex articolo 360 n. 3 c.p.c., avendo il giudice del reclamo errato laddove ha considerato inefficaci tali risoluzioni consensuali e le rinunce in violazione dell’articolo 2113 c.c. affermando la sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data del primo contratto di lavoro a progetto illegittimo e dall’altro la continuità ed effettività del rapporto di lavoro fino al recesso datoriale del 25 novembre 2017.

Da ciò deriva che unicamente l’ultimo contratto inter partes in data 1/1/2015 avrebbe potuto essere oggetto di analisi e di eventuale censura in sede giudiziale.

1.1.- Il motivo è inammissibile perché mira al riesame dell’interpretazione del contenuto di atti negoziali ed in particolare della valutazione di merito effettuata dai giudici circa l’inefficacia attribuita a risoluzioni consensuali e rinunce in violazione dell’articolo 2113 c.c. (peraltro impugnate nei termini ovvero entro sei mesi dalla cessazione del rapporto, considerata l’unitarietà dello stesso, caratterizzata da una continuativa ed ininterrotta esecuzione).

 Il motivo è anche inammissibile perché non deduce alcuna violazione di criteri ermeneutici negoziali ex art. 1362 e ss. c.c.

Ed inoltre è inammissibile per carenza di interesse e decisività della censura sollevata dal momento che nulla muterebbe ai fini del giudizio (né si deduce nulla in proposito) anche a voler considerare unicamente l’ultimo contratto inter partes in data 1/1/2015, secondo quanto sostenuto in ricorso.

2.- Col secondo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione degli articoli 2094, 2222 e 2697 c.c. ex articolo 360 n. 3 c.p.c. avendo la Corte d’appello affermato l’esistenza della subordinazione in base alle emergenze istruttorie condividendo le conclusioni della sentenza del tribunale di Monza.

 La Corte d’appello aveva omesso di valutare gli elementi decisivi che caratterizzano la subordinazione ex articolo 2094 c.c. e cioè al di là del nome iuris, il vincolo di soggezione del lavoratore, il potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro il quale discende dall’emanazione di ordini specifici.

 Le risultanze istruttorie avevano escluso tout court la sussistenza della subordinazione non essendo emerso l’elemento cardine costituito dall’eteredirezione ma anche a voler valorizzare gli elementi sussidiari non erano stati accertati ulteriori indici della subordinazione; mentre la continuità ed il coordinamento delle prestazioni erano elementi irrilevanti.

3.- Con il terzo motivo di ricorso si denuncia l’errata interpretazione degli articoli 61 e 69, decreto legislativo 276/2003 ex articolo 360 n. 3 c.p.c. per aver il giudice del reclamo riqualificato i rapporti contrattuali intercorsi tra la V. ed R. nella diversa fattispecie del contratto a progetto mancante della specifica indicazione del progetto, omettendo di considerare gli elementi che la difesa di R. aveva sottoposto alla sua attenzione.

In particolare escludendo il rilievo della volontà manifestata dalle parti ed attribuendo rilevanza al dato testuale del contratto, il giudice d’appello non aveva considerato nemmeno il nomen iuris, il comportamento concludente, il compenso e le modalità di svolgimento della prestazione, le altre attività professionali svolte dalla signora V., l’emissione di fattura a soggetti diversi.

4.- Con il quarto motivo si deduce la violazione, l’omesso esame e l’errata interpretazione dell’accordo collettivo del 16 dicembre 2015 e ai sensi dell’articolo 360 numero 3 e numero 5 c.p.c.

Il giudice del reclamo aveva omesso ogni valutazione su un fatto discusso tra le parti ovvero l’esistenza dell’accordo collettivo sottoscritto nel dicembre 2015 dalle parti sociali che qualifica come collaboratori autonomi gli speakers ed i conduttori che svolgono prestazioni artistiche di elevato contenuto professionale con elevato grado di autonomia, riconoscendo che lo stesso tipo di lavoro possa essere svolto con contratto di lavoro subordinato o con contratto di lavoro autonomo, secondo le diverse modalità di esplicazione.

4.1. I motivi 3, 4, e 5 possono esaminarsi congiuntamente per la connessione logica-giuridica delle censure relative alla natura del rapporto intercorso tra le parti.

Essi sono inammissibili perché sotto l’apparente deduzione di error in procedendo o in iudicando denunciano vizi relativi all’accertamento dei fatti, alla valutazione delle prove ed alla qualificazione del rapporto che la Corte di merito ha effettuato motivatamente valutando le circostanze probatorie allegate dalle parti e sottoponendole al proprio prudente e discrezionale vaglio critico; sia in relazione all’esistenza della subordinazione, sia in relazione alla individuazione della cococo senza progetto.

 Peraltro la Corte di appello come il tribunale hanno accertato l’esistenza della subordinazione tanto in applicazione della presunzione legale di subordinazione ex art 69 d.lgs. 276/2003, tanto in esito all’effettiva modalità di svolgimento del rapporto.

 E gli accertamenti effettuati non possono essere soggetti a censure di carattere generale come quelle sollevate in ricorso, con le quali non si deduce un “fatto storico” che non sia stato esaminato, quanto piuttosto si contesta una valutazione probatoria, insindacabile in sede di legittimità, tanto più nel vigore del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici).

 Le censure sollevate mirano perciò ad obliterare la diversa valutazione operata dalla Corte di merito sulla scorta dell’istruttoria ed a superare i limiti del giudizio di legittimità in materia di accertamenti di fatto ex art 360 c.p.c.

Questa Corte di legittimità, sostituendosi ai giudici di merito, non può ripetere le valutazioni delle circostanze di fatto, o riesaminare il materiale probatorio, il contenuto degli accordi e degli atti già valutati in maniera motivata, per ritenere autonomi i rapporti diversamente valutati dai giudici di merito.

Fatta salva l’omessa valutazione di un fatto decisivo non ricorrente nel presente caso, il potere di selezionare e valutare le prove idonee ai fini della dimostrazione del fatto appartiene al giudice di merito e non può essere sindacato in questa sede.

Del resto, in caso di “doppia conforme” (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 26 e 27, d. lgs. n. 149 del 2022), non sarebbe nemmeno possibile dedurre alcun omesso esame di fatto decisivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

Neppure rileva ovviamente la disciplina del CCNL cit. in quanto in materia di qualificazione del rapporto di lavoro vale solo il principio di effettività, da valutare alla luce delle reali modalità del rapporto osservate in fase di esecuzione.

5.- Con il quinto motivo di ricorso si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966 e dell’art. 18, comma 4 Statuto dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 360 n.3 c.p.c., avendo la Corte d’appello, aderendo alla ricostruzione effettuata dal giudice dell’opposizione, qualificato il recesso dal contratto di prestazione d’opera intellettuale come licenziamento senza neppure dare ingresso all’istruttoria; ribadendo l’errore di affermare che non vi era necessità di alcuna istruttoria e poi di argomentare in sentenza che rispetto al recesso non era stata fornita la prova delle motivazioni del recesso. In realtà benchè sintetica la motivazione indicata nella lettera di recesso sarebbe stata comunque chiara e circostanziata.

In ogni caso il giudice del reclamo avrebbe dovuto al più condannare la società per un vizio procedurale sussistendo al più motivazioni del tutto generiche, con una mera tutela risarcitoria prevista dall’articolo 18,comma sesto dello Statuto dei lavoratori ovvero in via subordinata nella misura minima prevista dall’articolo 18, quinto comma non sussistendo i presupposti per la reintegrazione.

 5.1. Il motivo è inammissibile perché deduce confusamente vizi eterogenei di fatto e di diritto, sostanziali e processuali ed anche tra loro alternativi.

Essi inoltre ripropongono in sostanza le stesse censure sollevate in sede di appello senza neppure confrontarsi col decisum della Corte territoriale.

 In ogni caso non risulta dalla sentenza alcuna violazione delle norme indicate nella rubrica del motivo (artt. 3 e 5 della legge 604/1966 e art. 18, comma 4 statuto), atteso che secondo la Corte di appello, come già affermato dal tribunale, il recesso dal rapporto era caratterizzato non solo da una mera carenza di motivazione (“estrema evanescenza dell’espressione esigenze programmazione radiofonica”), ma anche dalla mancanza di ogni concreta deduzione al riguardo.

Talchè – considerato che il recesso dal rapporto di lavoro subordinato è un atto contrassegnato dalla causale giustificativa – si spiega pure la decisione dei giudici di non procedere ad alcuna istruttoria al riguardo; anche perché le circostanze dedotte solo nell’atto di reclamo per colmare tale sostanziale vuoto probatorio, sono state ritenute dai giudici allegazioni nuove e tardivamente esposte.

Quanto alla misura del risarcimento essa rientra nella discrezionalità dei giudici di merito e non può essere di per sé censurata in questa sede di legittimità.

6.- Con il sesto motivo di ricorso si denuncia la violazione e/o falsa applicazione l’articolo 36 Costituzione, articolo 2099 c.c., articolo 18 Statuto dei lavoratori per la quantificazione della retribuzione della V. ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c. non avendo il giudice del reclamo, così come il giudice dell’opposizione, considerato l’orario di lavoro ovvero che nel caso di specie si trattava di un rapporto di lavoro part-time di 20 ore settimanali massimo, per una retribuzione di euro 750 mensili considerato il CCNL di riferimento che prevede un compenso full time per 40 ore settimanali pari a euro 1525,72.

Non poteva invece ritenersi applicabile quale parametro retributivo il compenso mensile ricevuto in virtù del contratto autonomo anche sulla base dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 46/2017).

La Corte d’appello non aveva neppure operato, in base al principio dell’assorbimento, alcuna verifica delle voci ricomprese nei 3000 € lordi mensili corrisposti alla lavoratrice, e che certamente non rientravano nella retribuzione mensile, né tantomeno nella retribuzione globale di fatto, come ad es. le ferie e le festività soppresse.

Mentre in caso di conversione del contratto di lavoro autonomo, il compenso da considerare è la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva non quella diversa e superiore corrisposta come lavoro autonomo, comprensivo della cessione dei diritti all’immagine.

6.1. Anche il sesto motivo di ricorso è infondato.

6.2. La Corte di appello ai fini della determinazione del tallone retributivo da considerare per l’indennità risarcitoria riconosciuta al lavoratore ex art. 18, 4 comma ha deciso la questione in relazione al parametro legale della ultima retribuzione globale di fatto.

Essa ha perciò deciso che andasse applicato il corrispettivo lordo di € 3000 da ultimo percepito in quanto trattamento di miglior favore.

Allo scopo la Corte ha fatto riferimento alla costante giurisprudenza di questa Corte ed ha applicato il principio consolidato secondo cui (ordinanza n. 33344 del 11/11/2022) in tema di licenziamento illegittimo l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore deve essere commisurata alla retribuzione globale di fatto a lui spettante al tempo del licenziamento, ossia a quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato.

6.3. Tale affermazione si sottrae a censure, posto che in base al “principio dell’assorbimento”, il compenso pattuito dalle parti in relazione ad un rapporto qualificato dalle stesse come autonomo e non subordinato si presume destinato a compensare integralmente l’opera prestata dal lavoratore.

Per tale motivo, nel caso in cui detto rapporto sia riconosciuto dal giudice come subordinato, eventuali differenze retribuite a vantaggio del lavoratore vanno calcolate tenendo conto dell’intero trattamento retributivo corrispostogli dal datore.

Inoltre ( Cass. sentenza n. 46 del 03/01/2017) ove si accerti che il compenso per lavoro autonomo pattuito dalle parti sia superiore a quello minimo previsto dal contratto collettivo, il datore di lavoro, cui non è impedito di erogare un trattamento più favorevole, potrà ottenerne la restituzione solo ove dimostri che la maggiore retribuzione sia stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dell’altro contraente ex artt. 1429 e 1431 c.c.

6.4. Quanto alla questione dell’indennità relativa ai diritti di immagine, la ricorrente sostiene genericamente ed in maniera assertiva che se la V. fosse stata inquadrata come dipendente non le sarebbe stata corrisposta alcuna somma a titolo di cessione di diritto all’immagine.

E sostiene che il contratto nulla statuisse in proposito.

In realtà la questione non è correttamente dedotta perché essa andrebbe riguardata in relazione al concetto di ultima retribuzione globale di fatto percepita.

Senza affermare a quanto ammonti tale indennità e richiamare alcuna regola contrattuale, non si intuisce in base a quale presupposti si possa escludere che il compenso erogato per la cessione dei diritti di immagine ad una lavoratrice subordinata, che operi anche in attività e programmi radiofonici e televisivi, come la controricorrente, non potrebbe avere natura retributiva.

7.- Col settimo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1227 c.c. comma 2, degli articoli 1175, 2697 c.c. articolo 18, comma 4 Statuto dei lavoratori, ai sensi dell’articolo 360, numero 3 c.p.c. avendo la Corte d’appello omesso di valutare le allegazioni dell’istanze formulate dalla difesa di R. in relazione all’eccezione di detrazione dell’aliunde perceptum vel percipiendum ed ha ritenuto senza alcun accertamento che la ricorrente sia stata priva di occupazione per oltre 12 mesi.

7.1. Il motivo è infondato.

 La Corte di appello ha affermato che allo scopo di giudicare sull’eccezione di aliunde perceptum vel percipiendum il giudice di primo grado aveva dato luogo all’esibizione dei documenti inerenti il lavoro in essere e i redditi percepiti, dopo il licenziamento.

 Nulla aveva eccepito in proposito l’attuale ricorrente, che solo dopo in sede appello ha sollevato doglianze giudicate tardive e generiche (le censure non si fondano su allegazioni specifiche e prove il cui onere è bene ricordarlo è in capo al datore di lavoro; Cass. ordinanza 1636/2020).

7.2. Inoltre non si capisce quali siano state le istanze di prova omesse e disattese, in quanto le stesse non sono state nemmeno ritualmente trascritte in ricorso.

Inoltre, avendo i giudici valutato la stessa eccezione sollevata dalla parte, la censura mira in realtà alla riconsiderazione dell’accertamento effettuato in proposito dai giudici di merito e non risulta perciò correttamente dedotta sotto il profilo processuale.

7.3. Infine è pure inammissibile la contestazione sulla valutazione di fatto circa l’accertamento della disoccupazione, senza adeguata censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c.

8.- Alla stregua delle premesse il ricorso deve essere quindi complessivamente rigettato.

9.- Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”.