Busta paga non veritiera firmata dietro minaccia di licenziamento

Commette il reato di estorsione il datore di lavoro che costringe il lavoratore, dietro minaccia di licenziamento, a firmare una busta paga indicante una paga più alta di quella corrisposta.

di Giovanni Patrizi

1. Il datore di lavoro che costringe il proprio dipendente, dietro minaccia di licenziamento, ad accettare una retribuzione inferiore a quella indicata nella busta paga (e “a firmare una busta paga” indicante una paga più alta di quella effettivamente corrisposta), commette il reato di estorsione (v. infra, § 4), poiché ottiene un ingiusto profitto a danno del lavoratore.

2. Il datore che pone il dipendente davanti all’alternativa tra: a) accettare una paga più bassa di quella dichiarata e conservare il posto di lavoro, o, b) rifiutarla ed essere licenziato, procura a se stesso un profitto e cagiona un danno al lavoratore. Il licenziamento del lavoratore che denuncia il datore di lavoro dev’essere considerato illegittimo: non può essere licenziato chi esercita legittimamente un proprio diritto. E dev’essere anzi considerato nullo se ritorsivo.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è assimilabile a quello discriminatorio e costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito (o di altra persona a esso legata e pertanto accomunata nella reazione), con conseguente nullità del licenziamento quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. n. 17087/2011). Il divieto di licenziamento discriminatorio è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo (Cass.  n. 6282/2011; in senso analogo: Cass. n. 3986/2015). Ed ancora, “integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro, a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti pagamenti di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate” (Cass. n. 677/2014). Inoltre, “integra il delitto di estorsione la condotta dal datore di lavoro che, in presenza di una legittima aspettativa di assunzione, costringa l’aspirante lavoratore ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi” (Cass. n. 16656/2010).

3. Il lavoratore che ha firmato quel tipo di busta paga può ricorrere in giudizio -entro cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro (per licenziamento o dimissioni)- per ottenere le differenze retributive non pagate, sia nel caso in cui abbia presentato querela sia nel caso opposto; il giudizio civile è indipendente dalle sorti di quello penale. È però necessario provare le differenze retributive: se nel giudizio penale la testimonianza del lavoratore vale come prova, ciò non è possibile nella causa di lavoro. Pertanto, Il lavoratore dovrà procurarsi delle valide prove, anche testimoniali. A differenza dell’azione civile, che, come detto, si prescrive in 5 anni, decorrenti dalla fine del rapporto di lavoro, la querela va presentata entro 3 mesi dai fatti.
In caso di busta paga firmata per quietanza non è possibile ottenere un decreto ingiuntivo (mancando la prova scritta del credito), ma è ugualmente possibile proporre una causa ordinaria. Se, invece, la busta paga è stata firmata per ricezione e visione (e non per quietanza), il giudice potrebbe anche concedere il decreto ingiuntivo, riducendo i tempi del recupero crediti.

4. Sul reato di estorsione. Art. 629 c.p. (testo vigente dal 3 Agosto 2017): “ 1. Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000. 2. La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.
L’art. 629 c.p. è compreso tra i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose e alle persone. L’estorsione è reato plurioffensivo, risultando leso sia il patrimonio che la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo. Il reato si consuma nel momento in cui l’agente consegue per sé o per altri l’ingiusto profitto con correlativo altrui danno. E’ possibile configurarsi il tentativo di estorsione l’evento desiderato dall’agente non segue alla violenza o alla minaccia.
Per quanto concerne l’elemento soggettivo, la giurisprudenza ritiene necessario il dolo specifico mentre la dottrina ritiene sufficiente il dolo generico; il dolo specifico consiste nella coscienza e volontà del fatto allo scopo di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno.
La giurisprudenza ha più volte chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di estorsione, sono indifferenti la forma o il modo della minaccia che può assumere qualsiasi forma e può concretarsi anche in un comportamento omissivo: in particolare essa può essere anche manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata.
La minaccia nel reato di estorsione deve essere idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo; in particolare “la connotazione di una condotta come minacciosa e la sia idoneità ad integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo. (Cfr. Cass., n. 3298/1999).
Il delitto di estorsione richiede non solo l’ingiusto profitto ma anche un effettivo danno della persona offesa: è il pregiudizio patrimoniale a costituire elemento essenziale e caratterizzante del delitto di estorsione; occorre altresì che l’azione del colpevole incida immediatamente e direttamente sul patrimonio della persona offesa.
Una particolare forma di danno può essere ravvisata nella c.d. estorsione contrattuale o negoziale, la quale può consistere anche nella sola assunzione dell’obbligazione di effettuare una prestazione economica, a nulla rilevando l’entità della controprestazione “ovvero la circostanza che il soggetto passivo sia, o sia stato, vincolato con altri soggetti in un rapporto contrattuale di analogo contenuto oggettivo” (Cfr. Cass. n. 10703/1982).
Il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona in quanto nell’estorsione l’agente mira a conseguire un ingiusto profitto, con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto, mentre nell’esercizio arbitrario egli agisce al fine di esercitare un suo preteso diritto con la convinzione che quanto vuole gli compete.