(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 15 del 2024, ha dichiarato incostituzionale l’art. 29, comma 1-bis della L.R. 1/2016, nella parte in cui prevede che i cittadini stranieri debbano presentare documenti aggiuntivi attestanti l’assenza di proprietà di alloggi nei paesi di origine e di provenienza.
1.Il controllo di costituzionalità delle leggi, di competenza della Corte costituzionale, e la verifica della compatibilità della normativa interna con il diritto UE, affidato ai giudici nazionali e alla Corte di giustizia dell’UE, non sono in contrapposizione tra di loro, ma costituiscono un concorso di rimedi giurisdizionali volti alla tutela dei diritti fondamentali.
Lo ha ribadito la Corte costituzionale con la sentenza n. 15 del 2024, depositata il 12 febbraio 2024, con la quale sono stati decisi un conflitto di attribuzione promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Udine.
I giudizi nascevano da due diverse controversie in materia di discriminazione, promosse ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 presso il Tribunale di Udine. I casi riguardavano comportamenti della pubblica amministrazione che aveva richiesto, a cittadini extra UE titolari di permessi di lungo soggiorno che avevano fatto domanda per accedere ad agevolazioni in materia di diritto all’abitazione, di dimostrare l’impossidenza di immobili nel Paese di origine e nel Paese di provenienza con modalità diverse da quelle consentite ai cittadini UE.
Il Tribunale di Udine ha ritenuto di non applicare la normativa regionale, perché in contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, e ha pertanto consentito ai ricorrenti di utilizzare una autocertificazione, analogamente a quanto consentito ai cittadini UE.
Il Tribunale, al fine di rimuovere la discriminazione anche per il futuro, in uno dei due giudizi ha ordinato alla Regione di modificare il regolamento contestato: questa decisione è oggetto del conflitto di attribuzione da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia, la quale sostiene che il giudice non può ordinarle di rimuovere un regolamento conforme alla legge regionale.
Nell’altro giudizio, il Tribunale di Udine ha, invece, sollevato questione di legittimità costituzionale della legge regionale di cui le disposizioni regolamentari, fonte del comportamento discriminatorio dell’amministrazione, erano attuative.
2.La Corte costituzionale – dopo aver riconosciuto che, nel giudizio antidiscriminatorio, il giudice ordinario ben può ordinare la modifica di un regolamento al fine di evitare in futuro il ripetersi della discriminazione – ha affermato, tuttavia, che, quando detta discriminazione trovi origine diretta nella legge, il giudice è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della stessa, per evitare che l’amministrazione sia costretta ad adottare atti regolamentari confliggenti con la legge non rimossa.
Ciò vale anche qualora, come nel caso in esame, la normativa nazionale sia ritenuta in contrasto con il diritto UE.
La Corte costituzionale, infatti, ha rilevato che nel giudizio antidiscriminatorio l’efficacia diretta del diritto UE è garantita quando, accertato che la condotta contestata trova fondamento in atti normativi incompatibili con la normativa dell’UE, il giudice “dà immediata applicazione a quest’ultima e ordina la cessazione della discriminazione”.
Se, invece, egli intenda ordinare la modifica di norme regolamentari discriminatorie, viene in gioco “una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione”, attraverso l’eliminazione della normativa incostituzionale.
Le peculiari caratteristiche del giudizio antidiscriminatorio dimostrano, dunque, che la verifica della compatibilità della normativa interna con il diritto UE, affidato ai giudici nazionali e alla Corte di giustizia dell’UE, e il controllo accentrato di legittimità costituzionale delle leggi, posto “a fondamento dell’architettura costituzionale” di competenza della Corte costituzionale, danno luogo a “un concorso di rimedi giurisdizionali”, tutti egualmente volti, con le proprie particolarità, ad apprestare tutela ai diritti fondamentali.
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