(Studio legale  G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di Cassazione. sezione lavoro, Sentenza 5 novembre 2024, n. 28471.

Licenziamento per giusta causa. Contestazione disciplinare. Apposizione firma falsa cliente.

“Nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato e tipizzato dal contratto collettivo o dal codice disciplinare come infrazione meritevole solo di una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione, che quindi è vincolante, poiché condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12 della legge n. 604/1966, a meno che accerti che le parti abbiano previsto, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. n. 14811/2020) e ritenga che il fatto concretamente accertato presenti questa connotazione di maggiore gravità”.

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Svolgimento del processo

1.- G.D.P. era stato dipendente di U. spa fino al 27/06/2018, quando era stato licenziato per giusta causa ai sensi degli artt. 44, lett. e), e 77, lett. d), CCNL per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti da imprese creditizie, sulla base della contestazione disciplinare comunicatagli in data 02/05/2018.

Il D.P. impugnava il licenziamento, prospettandone plurimi vizi e chiedendone, pertanto, l’annullamento, con ordine alla banca di reintegrarlo nel posto di lavoro e con tutte le ulteriori conseguenze risarcitorie.

2.- Costituitosi il contraddittorio, all’esito della fase c.d. sommaria prevista dal rito introdotto dalla legge n. 92/2012, il Tribunale accoglieva la domanda.

Ma poi con sentenza accoglieva l’opposizione di U. spa e rigettava l’impugnazione del licenziamento.

3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello rigettava il reclamo proposto dal D.P.

A sostegno della propria decisione la Corte territoriale affermava:

a) la contestazione disciplinare, come già ritenuto dal Tribunale, non era generica, risultando incentrata sugli specifici addebiti di aver dapprima realizzato operazioni finanziarie per conto di un cliente senza averne ricevuto formale e rituale assenso e in presenza di una firma falsa sulla relativa documentazione, come era emerso da una perizia grafologica; poi di aver assicurato il cliente che avrebbe ripianato le perdite derivante da quelle operazioni, cosa avvenuta mediante un assegno circolare tratto sul suo personale conto corrente in essere presso M.P.S. per un importo esattamente corrispondente al danno patito dal cliente per effetto dell’investimento non autorizzato;

b) questi fatti hanno trovato pieno riscontro nella prova testimoniale espletata in primo grado, in particolare nelle dichiarazioni reste dal teste C.F., all’epoca dirigente del settore private banking della filiale U. di Napoli Chiaia dove prestava servizio il D.P.;

c) circa la rilevante discrasia fra questa deposizione e quella resa dal teste P.M., cliente al quale si riferiscono le operazioni finanziarie oggetto della contestazione disciplinare, non risulta chiara la dinamica dei fatti, soprattutto quanto all’incontro fra il C. ed il P., quanto al motivo di tale incontro, a chi aveva assunto l’iniziativa, alla sussistenza o meno di un’autorizzazione, anche informale, all’esecuzione di quelle operazioni;

d) difetta poi una formale denunzia del P., il quale anzi nel corso della deposizione testimoniale ha riferito accadimenti diversi, che scagionavano in sostanza il D.P.;

e) nel contrasto fra le due dichiarazioni resta il dubbio che il cliente P. abbia voluto “coprire” il comportamento del D.P. non da lui autorizzato;

f) tuttavia, è dirimente il fatto che sulla documentazione relativa alle predette operazioni finanziarie sia stata apposta una firma falsa;

g) ciò è il risultato della perizia grafologica fatta eseguire da U.; l’esperto ha accertato che le firme apposte sulla documentazione relativa a quelle operazioni finanziarie non sono state apposte né dal P. né dalle sue figlie;

h) come evidenziato dal Tribunale, tali risultanze non sono state specificamente e analiticamente contestate dal D.P., ad esempio mediante la produzione di una perizia alternativa di parte o note critiche; inoltre nel giudizio di primo grado la stessa difesa del D.P. si è sempre fermamente opposto ad un nuovo accertamento grafologico a mezzo consulenza tecnica d’ufficio, ripetutamente chiesta da U.;

i) a seguito di un ordine di esibizione disposto dal Tribunale ex art. 210 c.p.c. è emerso che l’assegno circolare di euro 10.268,58 versato sul conto del P. presso U. era stato emesso con addebito su un c/c del D.P. presso la filiale di Napoli di M.P.S. (come era stato specificato nella contestazione disciplinare) e non con addebito su un c/c del P. presso l’agenzia M.P.S. di Scafati, come invece dichiarato da quest’ultimo in sede di deposizione testimoniale;

j) secondo la Suprema Corte è legittimo il licenziamento dell’impiegato di banca che apponga firme apocrife del cliente (Cass. ord. n. 23605/2018);

k) dunque nel caso di specie il D.P. è venuto meno ai suoi doveri basilari, primo fra tutti quello attinente all’autenticità delle firme apposte dal cliente alla documentazione; a tanto si aggiunge anche l’anomala procedura seguita per ripianare minusvalenze derivate dalla vendita di quei titoli;

l) dunque deve ritenersi irrimediabilmente venuto meno il rapporto fiduciario, sicché non è applicabile alcuna altra sanzione di tipo conservativo;

m) la contestazione disciplinare è altresì tempestiva, considerata la conoscenza dei fatti da parte della banca a cavallo tra febbraio e marzo 2018, l’allontanamento temporaneo del dipendente il 06/03/2018, l’espletamento di indagini e della perizia grafologica ed infine la contestazione disciplinare del 02/05/2018, sicché risulta trascorso il tempo strettamente necessario per la complessità dei fatti contestati.

4.- Avverso tale sentenza D.P.G. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a nove motivi.

5.- U. spa ha resistito con controricorso.

6.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.

7.- In udienza il P.G. ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 7 L. n. 300/1970 per avere la Corte territoriale rigettato il motivo di gravame relativo alla lamentata genericità della contestazione disciplinare.

Il motivo è inammissibile, perché sollecita a questa Corte una nuova valutazione del tenore della contestazione disciplinare, riservata invece al giudice di merito e quindi interdetta in sede di legittimità.

Il motivo è altresì inammissibile, perché si dilunga su un passo della motivazione della sentenza impugnata relativa all’ambiguità dell’andamento dei fatti, senza confrontarsi con il punto successivo della stessa motivazione, con cui i giudici del reclamo hanno ritenuto dirimente la falsità della firma apposta alla documentazione relativa alle operazioni di investimento finanziario seguite e compiute dal D.P. (v. sentenza impugnata, p. 7).

2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 7 L. n. 300/1970 per aver la Corte d’Appello violato il principio di immutabilità della contestazione disciplinare, là dove ha affermato che sulla documentazione relativa alle operazioni di investimento risultava apposta una firma falsa.

Il motivo è infondato.

Contrariamente all’assunto del ricorrente, la Corte territoriale non ha addebitato tale falso al ricorrente, ma si è limitata a evidenziare che l’esistenza di firme apocrife su tutta la documentazione relativa alle operazioni di investimento finanziario, oggetto della contestazione disciplinare, costituiva un elemento “dirimente” ai fini della legittimità del licenziamento. Invero, i giudici del reclamo non hanno affermato che il D.P. appose una firma falsa, ma si sono limitati a rilevare che dagli atti di causa era emerso che sulla predetta documentazione “è stata apposta una firma falsa” (v. sentenza impugnata, p. 7).

Dunque la falsità della firma, effettivamente non contestata come fatto storico al D.P. nella missiva di avvio del procedimento disciplinare, neppure è stata assunta come oggetto di contestazione disciplinare dalla Corte territoriale, che l’ha utilizzata solo per inferirne la violazione, da parte del D.P., di fondamentali doveri dell’impiegato di banca, fra cui quello di verificare l’autenticità delle firme apposte dal cliente alla documentazione relativa agli investimenti finanziari richiesti (v. sentenza impugnata, p. 9).

3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 7 e 18 L. n. 300/1970, 2104, 2106, 2119 e 2697 c.c., nonché dell’art. 115 c.p.c. per aver la Corte territoriale ritenuto sussistenti i fatti contestati o comunque per aver ritenuto gli stessi forniti di prova.

Il motivo è inammissibile, perché sollecita a questa Corte un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, interdetto in sede di legittimità, e trascura il punto in cui i giudici del reclamo hanno ritenuto “dirimente” il fatto che le firme apposte sulla documentazione relativa a quelle operazioni di investimento finanziario erano risultate false (v. supra).

4.- Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, co. 2, n. 4), c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per avere la Corte territoriale motivato in modo illogico, incongruente e intrinsecamente contraddittorio.

Il motivo è inammissibile alla luce della “nuova” formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c., che consente un sindacato di legittimità sulla motivazione della decisione del giudice di merito solo nei ristretti limiti ivi previsti, con esclusione della rilevanza di illogicità, incongruenza e contraddittorietà della motivazione, sempre che essa non trasmodi in una motivazione “apparente”.

Va ricordato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione del preciso obbligo di legge costituzionalmente imposto (art. 111 Cost.) e cioè dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata.

Quest’obbligo del giudice “di specificare le ragioni del suo convincimento”, quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. un. n. 1093/1947).

Alla stregua di tali principi consegue che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”(Cass. sez. un. n. 8053/2014), ma pure quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato”(Cass. n. 4448/ 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. sez. un. n. 22232/2016; Cass. ord. n. 14297/2017).

La riformulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, conv. in legge n. 134/2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. sez. un. n. 8053/2014; Cass. n.13977/2019).

Nella specie nessuna di tali anomalie affligge la sentenza impugnata.

5.- Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e/o falsa applicazione” degli artt. 7 e 18 L. n. 300/1970, 115 c.p.c., 2697 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto false le firme apposte sulla documentazione relativa alle operazioni di investimento sulla base soltanto della perizia grafologica prodotta da U. spa e sull’assenza di specifica contestazione da parte del D.P.

Il motivo è inammissibile per varie ragioni.

In primo luogo, la scelta delle fonti di prova necessarie ed utili per la formazione del proprio convincimento è riservata al giudice del merito, il quale – contrariamente all’assunto del ricorrente (v. ricorso per cassazione, p. 31) – non è vincolato ad alcun criterio gerarchico regolatore di quelle fonti, invero insussistente (eccetto che per le prove legali come confessione e giuramento decisorio, nella specie non ricorrenti).

Al riguardo questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di ricorso per cassazione, ove si deduca che il giudice abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. sez. un. 30/09/2020, n. 20867).

Per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita rispetto a quanto prescritto dalla norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune prove piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. sez. un. n. 20867 cit.; Cass. ord. n. 27000/2016; Cass. ord. n. 1229/2019; Cass. ord. n. 6774/2022).

In secondo luogo la censura finisce per sollecitare una rivalutazione della deposizione del teste P.M., interdetta in sede di legittimità.
Infine il ricorrente non si confronta con quel punto della motivazione, in cui la Corte territoriale ha desunto argomento di prova (come consentito dall’art. 116 cpv. c.p.c.) dalla condotta processuale del ricorrente: nel corso di tutto il giudizio di merito il D.P. si è sempre opposto alla nomina di un consulente tecnico d’ufficio grafologo, pur ripetutamente chiesta da U. spa.

6.- Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e/o falsa applicazione” degli artt. 7 e 18 L. n. 300/1970, 2104, 2106, 2119 c.c., 44 e 77 CCNL per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti da imprese creditizie, finanziarie e strumentali, per aver la Corte territoriale ritenuto rilevante l’episodio del versamento, da parte del reclamante, di un assegno circolare emesso da M.P.S. agenzia di Napoli 8, senza darne una motivazione se non in termini di “anomala procedura per ripianare la minusvalenza derivante dalla vendita dei titoli” e senza apprezzare che comunque in tal modo non era stato causato alcun danno al cliente.

Il motivo è inammissibile, sia perché sollecita a questa Corte un diverso apprezzamento di quell’episodio, interdetto in sede di legittimità, sia perché è del tutto generico e carente – e quindi privo di autosufficienza – circa l’asserita violazione delle clausole contrattual-collettive soltanto citate nell’intitolazione, non specificando in alcun modo in cosa consisterebbe la prospettata violazione o falsa applicazione di quelle clausole neppure esaminate nella loro portata precettiva.

7.- Con il settimo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e/o falsa applicazione” degli artt. 7 e 18 L. n. 300/1970, 2104, 2106, 2119 e 2697 c.c., 44 e 77 CCNL per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti da imprese creditizie, finanziarie e strumentali, per aver la Corte territoriale ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva.

Il motivo è infondato.

E’ principio pacifico e consolidato presso questa Corte quello secondo cui la previsione, da parte del contratto collettivo o del codice disciplinare, della sanzione espulsiva non è vincolante per il giudice, poiché il giudizio di gravità e di proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice ex art. 2119 c.c., da svolgersi alla luce della nozione legale di giusta causa (o di giustificato motivo soggettivo), avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, sebbene la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisca uno (ma soltanto uno) dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di fonte legale contenuta nell’art. 2119 c.c. (Cass. n. 16784/2020; Cass. n 33811/2021).

Viceversa, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato e tipizzato dal contratto collettivo o dal codice disciplinare come infrazione meritevole solo di una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione, che quindi è vincolante, poiché condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12 della legge n. 604/1966, a meno che accerti che le parti abbiano previsto, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. n. 14811/2020) e ritenga che il fatto concretamente accertato presenti questa connotazione di maggiore gravità.

Dunque la valutazione della giusta causa attiene ad una nozione legale posta dall’art. 2119 c.c., nell’ambito della quale le previsioni del contratto collettivo non sono vincolanti per il giudice a meno che non siano più favorevoli per il lavoratore.

Effettivamente il precedente di questa Corte citato dai giudici del reclamo (Cass. ord. n. 23605/2018) non si addice al caso in esame (e solo su ciò va corretta corregge ex art. 384 ult. comma c.p.c. la motivazione della sentenza impugnata), in quanto concernente il diverso caso d’un impiegato di banca che aveva apposto firme apocrife del cliente, fatto invece non contestato al D.P. né accertato come a suo carico.

Nondimeno la Corte territoriale ben ha ravvisato una grave violazione del dovere (basilare per un impiegato di banca) di verificare l’autenticità delle firme apposte dal cliente sulla documentazione relativa ad operazioni di investimento finanziario richieste (v. sentenza impugnata, p. 9).

Tanto è sufficiente ad escludere la violazione lamentata.

8.- Con l’ottavo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 7 L. n. 300/1970 per avere la Corte territoriale rigettato il motivo di gravame relativo alla tardività della contestazione disciplinare.

Il motivo è inammissibile, perché non pertinente rispetto all’esatta ratio decidendi spesa dalla Corte territoriale, secondo cui ciò che rileva come dies a quo ai fini della valutazione della tempestività della contestazione disciplinare non è il tempo di accadimento dei fatti contestati, bensì quello in cui il datore di lavoro ha avuto congrua conoscenza di quei fatti, della loro dell’illiceità e della loro ascrivibilità a quel determinato dipendente.

9.- Con il nono motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, co. 2, n. 4), c.p.c. e 118 disp.att.c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso ogni pronunzia sul quarto motivo di appello relativo all’ordine di esibizione impartito dal Tribunale ex art. 210 c.p.c.

Il motivo è infondato.

Dalla complessiva motivazione dei giudici del reclamo si evince in modo univoco, anche se implicito, il rigetto di quel motivo di gravame.

Comunque esso non è decisivo, poiché si riferisce soltanto alla questione della provenienza dell’assegno circolare versato sul conto corrente del cliente P.M. per ripianare la perdita a lui derivata dalla vendita di determinati titoli a suo tempo investiti con un’operazione seguita e compiuta dal D.P.

Tale profilo, nella decisione del reclamo, ha avuto un peso solo secondario e meramente confermativo del convincimento fondato soprattutto sulla violazione del dovere di verificare l’autenticità delle firme apposte alla documentazione relativa ad operazioni di investimento finanziario richieste.

Quindi quel profilo, quand’anche espunto, non è in grado di inficiare la sentenza impugnata, saldamente retta da quella ratio decidendi.

10.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”.