(Studio legale  G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di cassazione, Ordinanza 11 febbraio 2025, n. 3488

Condotte discriminatorie. Personale artistico. Diritto di precedenza. Contratti a tempo determinato.  Rifiuto di conciliazione. Risarcimento del danno. Convinzioni personali. Ritorsione. Principi di diritto. Sanzioni dissuasive. Procedimento ex art. 28, D.Lgs. n. 150/2011.Onere della prova “.

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Rilevato che

1. la Corte d’Appello di Napoli, adita da M.P., ha riformato parzialmente l’ordinanza del Tribunale della stessa sede, emessa a definizione del procedimento ex art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 promosso dal P. nei confronti della Fondazione Teatro (…), con la quale, dichiarata cessata la materia del contendere quanto alla domanda avente ad oggetto la costituzione del rapporto di lavoro, era stato rigettato per il resto il ricorso; il Tribunale aveva ritenuto, da un lato, che la condotta della Fondazione non fosse riconducibile ad alcuna delle condotte discriminatorie definite dal legislatore, dall’altro che l’art. 1 del CCNL 25.3.2014 per il personale delle Fondazioni Lirico Sinfoniche attribuisse esclusivamente il diritto di precedenza e non il diritto di assunzione, in relazione al quale il ricorrente non aveva dimostrato che sussistessero i requisiti e le condizioni;

2. M.P., avvalendosi del procedimento speciale, aveva adito il Tribunale sostenendo, in estrema sintesi, di essere stato ripetutamente assunto con contratti a tempo determinato sin dal 29 dicembre 2000 e di avere maturato il diritto previsto dalla citata disposizione contrattuale, che riconosce in favore del personale artistico, assunto a termine in ciascuna delle stagioni comprese nel triennio e previo superamento delle selezioni annuali, la precedenza nell’assunzione a partire dalla stagione successiva al triennio medesimo, senza necessità di partecipare ad ulteriori selezioni e sempre che nel corso del rapporto a termine non siano state mosse contestazioni artistiche o disciplinari; aveva dedotto che il diritto di precedenza non gli era stato riconosciuto perché egli, che si apprestava a proporre ricorso giudiziale volto a far valere l’illegittimità dei termini apposti ai plurimi contratti intercorsi fra le parti, si era rifiutato di sottoscrivere un verbale di conciliazione che la Fondazione, nel bando di selezione del 18 settembre 2014, aveva richiesto come condizione dalla quale la nuova assunzione non poteva prescindere;

3. la Corte territoriale ha accertato, in punto di fatto, che l’appellante non era stato incluso nel personale a tempo determinato da impegnare nella realizzazione del balletto G. proprio in ragione dell’anzidetto rifiuto e ha, poi, qualificato discriminatoria la condotta, in quanto derivante dalle convinzioni personali manifestate nella resistenza alla sottoscrizione del verbale; ha precisato che nella categoria delle “convinzioni personali” non rientrano solo quelle religiose o politiche ma ogni altro pensiero che sia espressione di libertà personale;

4. il giudice d’appello ha aggiunto, peraltro, che la discriminazione, verificatasi rispetto a coloro che avevano sottoscritto il verbale, era venuta meno a seguito del cambio dei vertici gestionali della Fondazione, allorquando al Soprintendente era subentrato il Sindaco (…), che il 14 marzo 2015 aveva sottoscritto il contratto di assunzione;

5. richiamati l’art. 4 del d.lgs. n. 216/2003 e l’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 la Corte distrettuale ha escluso di dover adottare provvedimenti volti a rimuovere la discriminazione o ad evitarne la ripetizione in futuro e, quanto al risarcimento del danno, ha ritenuto che fosse stato provato solo quello patrimoniale, pari alle retribuzioni non percepite nel periodo 23 febbraio 2015/14 marzo 2015, e non ha riconosciuto, in assenza di prova, il danno morale;

6. per la cassazione della sentenza M.P. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese con controricorso la Fondazione Teatro (…);

7. il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ.

Considerato che

1. il primo motivo di ricorso è testualmente rubricato «violazione degli artt. 2, commi 1, 3 e 4 ed art. 11 della direttiva 78/2000/CE, art. 21 CDFUE, art. 4 bis d.lgs. 216/2003 – Istanza ex art. 267 TFUE» e argomenta sul carattere discriminatorio della condotta dedotta in giudizio, sostenendo, in sintesi, che anche le condotte ritorsive integrano una forma di discriminazione allorquando costituiscono la reazione del datore di lavoro alle convinzioni personali manifestate dal prestatore, da intendere in senso ampio sì da ricomprendervi anche la libera volontà di autodeterminazione negoziale; in via subordinata il ricorrente sollecita il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE sulle questioni specificate alle pagine 21 e 22 del ricorso, che ruotano tutte sulla applicabilità della tutela antidiscriminatoria, anche in relazione al riparto degli oneri probatori, nell’ipotesi in cui il lavoratore non venga nuovamente assunto per essersi rifiutato di sottoscrivere verbale di conciliazione;

2. la seconda critica denuncia la violazione dell’art. 17 della direttiva 78/2000/CE, dell’art. 28, commi da 5 a 7, del d.lgs. n. 150/2011, dell’art. 11 della legge n. 689/1991 (ndr art. 11 della legge n. 689/1981) in combinato disposto con l’art. 10 della direttiva 78/2000/CE e con l’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150/2011;

il ricorrente, dopo aver trascritto nel ricorso le disposizioni rilevanti, sostiene, in sintesi, che il risarcimento del danno da discriminazione, oltre a ristorare il discriminato del pregiudizio subito, deve avere anche natura sanzionatoria nel rispetto dei principi di effettività e dissuasività richiesti dal diritto dell’Unione;
da ciò trae la conseguenza che il danno deve essere liquidato sulla base dei parametri indicati dall’art. 11 della legge n. 689/1981 tenendo conto della gravità della violazione, della condotta tenuta dall’agente per eliminare o attenuare le conseguenze del proprio illecito, della personalità del soggetto discriminante, delle sue condizioni economiche;

richiama giurisprudenza di questa Corte, che a sua volta rinvia a Cass. S.U. n. 16601/2017, e sostiene che in materia di discriminazione il risarcimento del danno deve avere natura polifunzionale e svolgere anche una funzione preventiva o deterrente/dissuasiva, oltre che quella sanzionatoria e punitiva;
aggiunge che le stesse Sezioni Unite, in altra pronuncia, hanno evidenziato che nella materia che ci occupa il ristoro del danno non patrimoniale è stato previsto dal legislatore a prescindere dalla sussistenza di un fatto di reato e, pertanto, addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente affermato che in assenza di prova null’altro poteva essere riconosciuto al discriminato oltre al danno patrimoniale;

rileva che il legislatore ha tenuto conto della particolare lesività delle condotte discriminatorie e, quindi, il danno non patrimoniale, che può essere provato anche ricorrendo alle presunzioni, va liquidato in mancanza di prova contraria da parte della Fondazione resistente; aggiunge, ancora, che, venendo in rilievo il diritto eurounitario devono essere applicati i medesimi principi enunciati da Cass. S.U. n. 5072/2016 in tema di «danno comunitario» conseguente alla reiterazione abusiva dei rapporti a tempo determinato; il ricorrente formula, inoltre, istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia perché «suggerisca quali fattori indiziari possano considerarsi utili, alla stregua della interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione al fine di emettere sanzioni sufficientemente effettive, proporzionate e dissuasive»;

3. il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di interesse alla impugnazione, perché il P. è risultato vincitore in relazione alla natura discriminatoria dell’atto, ormai definitivamente accertata, non avendo la Fondazione Teatro (…) proposto impugnazione, in via principale o incidentale;
da tempo questa Corte ha affermato che l’interesse all’impugnazione, manifestazione del più generale principio dell’interesse ad agire, va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame potrebbe derivare alla parte che lo propone e viene, pertanto, a collegarsi alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio (cfr. fra le tante Cass. n. 13395/2018, Cass. n. 594/2016, Cass. S.U. n. 24470/2013), sicché deve essere ritenuto sussistente solo qualora il gravame sia volto ad impedire il passaggio in giudicato della decisione sfavorevole per la parte e sia ravvisabile un’utilità per l’impugnante, conseguente alla rimozione della pronuncia (Cass. S.U. n. 12637/2008);

se ne è tratta la conseguenza che l’interesse va escluso nei casi in cui, in assenza di soccombenza, l’impugnazione si riferisca unicamente alla motivazione della sentenza gravata, della quale si domanda la correzione (cfr. fra le tante Cass. Cass. n. 28307/2020 e Cass. n. 17159/2020);

quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie, perché la Corte distrettuale, come già evidenziato, ha ritenuto che il ricorrente fosse stato discriminato dalla Fondazione, in ragione delle convinzioni personali sottese alla condotta dallo stesso tenuta consistita nella mancata adesione alla conciliazione, e, pertanto, il motivo, con il quale si sostiene che l’atto di natura ritorsiva deve essere ricondotto alla discriminazione diretta, con conseguente applicazione della relativa disciplina anche in relazione agli oneri probatori, si risolve nella sollecitazione di una diversa motivazione della pronuncia di accoglimento della domanda, inammissibile per le ragioni sopra illustrate;

non può, di conseguenza, essere accolta l’istanza formulata dal ricorrente ex art. 267 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea, perché l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia viene meno quando non sussiste la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria in quanto l’interpretazione controversa non ha rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano (cfr. Cass. Sez. Un. 2.4.2007 n. 8095); l’inammissibilità del motivo impedisce ogni pronuncia sulla questione devoluta con il primo mezzo e, pertanto, è anche ostativa all’invocato rinvio pregiudiziale;

4. è, invece, fondato, ma nei soli limiti di seguito precisati, il secondo motivo, con il quale è censurato il capo della sentenza impugnata che ha rigettato la domanda risarcitoria quanto al danno non patrimoniale; con il d.lgs. n. 216 del 9 luglio 2003 il legislatore ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro ed ai commi 5 e 6 dell’art. 4, nel testo originario, ha previsto che Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti.

Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.

6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l’atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.;

i commi in parola sono stati abrogati dall’art. 34 del d.lgs. n. 150 del 2011 di riduzione e semplificazione dei riti e contestualmente il legislatore delegato, all’art. 28, ha dettato una disciplina comune della controversie in materia di discriminazione ( recita il comma 1: Le controversie in materia di discriminazione di cui all’articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, (ndr articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216) quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, quelle di cui all’articolo 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67, e quelle di cui all’articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono regolate dal rito semplificato di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo) e, quanto ai poteri del giudice da esercitare in caso di accertamento della discriminazione, ha sostanzialmente trasfuso nei commi 5 e 6 la previgente disciplina; nell’interpretare la disposizione in parola, sia pure in fattispecie nella quale veniva in rilievo un’azione proposta dall’organizzazione sindacale non dal singolo lavoratore discriminato, le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 20819/2021) hanno osservato che la previsione del risarcimento del danno non patrimoniale, pur non potendo essere ricondotta nell’alveo dei cosiddetti danni punitivi in senso proprio, va letta alla luce della clausola 17 della direttiva 2000/78/CE secondo cui Gli Stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione.

Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive.; hanno, quindi, evidenziato che il rimedio alla discriminazione deve rispondere ai requisiti stabiliti dal diritto unionale, e deve essere effettivo, proporzionale, dissuasivo perché il principio di effettività è funzionale a garantire il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Unione, rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive e ha anche la funzione di anticipare la soglia della tutela apprestata; ne hanno tratto la conseguenza che, in tema di discriminazione, il risarcimento del danno non patrimoniale è caratterizzato da una connotazione dissuasiva, tanto che può essere riconosciuto nei casi di discriminazione collettiva, anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile;

4.1. si tratta di principi che si armonizzano con l’interpretazione del diritto eurounitario fornita dalla Corte di Giustizia che, sempre in tema di diritto antidiscriminatorio, nell’interpretare l’art. 15 della direttiva 2000/43, sovrapponibile all’art. 17 della direttiva 2000/78, ha sottolineato che il sistema delle sanzioni istituito nell’ordinamento giuridico dello Stato membro deve assicurare una tutela giuridica effettiva ed efficace e «La severità delle sanzioni deve essere adeguata alla gravità delle violazioni che esse reprimono e comportare, in particolare, un effetto realmente deterrente, fermo restando il rispetto del principio generale della proporzionalità» (Corte di Giustizia 15 aprile 2021 in causa C – 30/19);

4.2. d’altro canto questa Sezione (Cass. n. 31071/2021), nel ritenere esente da errori giuridici la decisione della Corte territoriale che, in quel caso, aveva riconosciuto il danno non patrimoniale equitativamente determinato in considerazione della gravità della discriminazione subita, dopo avere evidenziato che «in materia di liquidazione del danno non patrimoniale, costituisce oramai regola di diritto vivente la ristorabilità della lesione di valori costituzionalmente garantiti, dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali della persona, in particolare dei diritti all’integrità psico-fisica e alla salute, all’onore e alla reputazione, all’integrità familiare, allo svolgimento della personalità ed alla dignità umana», ha aggiunto che « la non patrimonialità – per non avere il bene persona un prezzo – del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa (per tutte: Cass., SS.UU. n. 26972 del 2008)» ed infine ha ritenuto che « l’atto discriminatorio è lesivo della dignità umana ed è intrinsecamente umiliante per il destinatario e ciò sorregge adeguatamente l’esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa»;

4.3. la sentenza impugnata, quanto al danno non patrimoniale, si limita ad affermare che «non vi è da liquidare un danno morale, non adeguatamente provato», e, pertanto, non è conforme ai principi di diritto sopra richiamati, ai quali il Collegio intende dare continuità, perché non tiene conto: della disciplina specifica dettata dall’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, che fa espresso riferimento al danno non patrimoniale; della risarcibilità di detto danno, da liquidare in via equitativa, nei casi in cui venga in rilievo la lesione di diritti costituzionalmente garantiti; del carattere anche dissuasivo di detto risarcimento, da riconoscere al fine di garantire l’effettività dei diritti riconosciuti dall’ordinamento eurounitario; della possibilità che il danno, seppure non in re ipsa, venga provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato;

4.4. il secondo motivo merita, pertanto, accoglimento nei limiti sopra indicati e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi di diritto sopra richiamati e provvedendo anche al regolamento delle spese del giudizio di cassazione;

5. non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il primo […]”..