(Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)
Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 4 novembre 2024, n. 28294
L’obbligo di comunicazione contrattualmente posto a carico del lavoratore, dal CCNL settore bancario, è finalizzato a notiziare il datore dell’esistenza di indagini penali per reati che possano avere incidenza sul legame fiduciario, così mettendo la parte datoriale nelle condizioni di svolgere indagini interne, iniziare un procedimento disciplinare, eventualmente poi sospendendo lo stesso oppure rinviando “alle risultanze anche non definitive del procedimento penale la valutazione dei fatti”.
Licenziamento per giusta causa. Reintegra. Indagini preliminari. Azione penale. Legame fiduciario datore/dipendente. Obbligo informativo gravante sul lavoratore. Omessa ripresa del lavoro. Stato di detenzione.
“[…] La Corte di Cassazione,
(omissis)
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha respinto il reclamo del C.E. spa, confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva accolto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato a G.R. il 19 maggio 2022, ordinandone la reintegra nel posto di lavoro.
2. La Corte territoriale ha premesso che l’art. 33 del c.c.n.l. dell’11 luglio 1999 per il personale dipendente delle aziende di credito stabilisce: “il lavoratore/lavoratrice il quale venga a conoscenza, per atto dell’autorità giudiziaria (pubblico ministero o altro magistrato competente), che nei suoi confronti sono svolte indagini preliminari ovvero è stata esercitata l’azione penale per reato che comporti l’applicazione di pena detentiva anche in alternativa a pena pecuniaria, deve darne immediata notizia.
Analogo obbligo incombe sul lavoratore/lavoratrice che abbia soltanto ricevuto informazione di garanzia”; ha ritenuto che scopo della norma fosse quello di consentire al datore di lavoro di apprendere quanto prima dell’indagine in corso, allo scopo di valutare se il fatto oggetto della stessa fosse potenzialmente idoneo a incidere sul legame fiduciario con il dipendente; ha accertato che la Banca e il R. avevano appreso nello stesso momento, in sede di perquisizione effettuata il 16 marzo 2022 presso la postazione di lavoro assegnata al predetto, della esistenza di un procedimento penale a carico dello stesso per il reato di cui all’articolo 612 bis cod. pen., a seguito di denuncia della persona offesa; che il decreto di perquisizione riportava il capo di imputazione e il contenuto della denuncia; ha ritenuto che non vi fosse prova del fatto che il R. fosse a conoscenza dell’indagine prima della esecuzione del decreto di perquisizione o che avesse ricevuto, prima di tale data, una informazione di garanzia; che nessun obbligo di comunicazione ulteriore, concernente altre informazioni (diverse dalla pendenza del procedimento penale) gravasse sul lavoratore e che sarebbe stato superfluo pretendere dallo stesso una comunicazione ricalcante il contenuto del decreto di perquisizione di cui la Banca aveva avuto rituale conoscenza; che il R. aveva ricevuto in precedenza un provvedimento di ammonimento del questore riguardo a cui non aveva alcun obbligo di comunicazione alla Banca, trattandosi di un provvedimento di natura amministrativa; che non avevano rilievo, ai fini del licenziamento, precedenti contestazioni disciplinari relative a fatti diversi e singolarmente sanzionati e che una precedente contestazione per un fatto analogo risalente al 2021 era stata seguita dalla irrogazione della sanzione conservativa; che la comunicazione ricevuta col decreto di perquisizione era sufficiente a consentire alla Banca di avviare indagini interne, ad esempio per accertare se il R. avesse svolto accessi illegittimi sul conto della persona offesa.
3. I giudici di appello hanno dichiarato inammissibile la domanda della Banca volta a far accertare l’avvenuta risoluzione di diritto del rapporto di lavoro in quanto attinente ad un fatto diverso da quello contestato e non rientrante nell’ambito delle modifiche consentite, nel rito cd. Fornero, in sede di opposizione all’ordinanza pronunciata all’esito della fase sommaria; hanno comunque escluso che fosse configurabile una risoluzione di diritto del rapporto di lavoro per la mancata ripresa dello stesso dopo l’ordine di reintegra, avendo accertato che il lavoratore era all’epoca in stato di detenzione domiciliare e quindi impossibilitato a riprendere l’attività lavorativa.
4. Avverso tale sentenza il C.E. spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.
G.R. ha resistito con controricorso, tardivamente depositato (v. infra § 28).
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
È stata depositata memoria nell’interesse del C.E.
Ragioni della decisione
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 45 del c.c.n.l. Credito concernente gli obblighi di informativa gravanti sul dipendente.
6. La società ricorrente censura l’interpretazione data dalla Corte di merito all’art. 45 del c.c.n.l. poiché contraria agli articoli 1362 e 1363 cod. civ. ed assume che una lettura conforme a tali canoni ermeneutici avrebbe reso evidente che l’obbligo di informativa posto a carico del dipendente non è limitato all’esistenza di un procedimento penale a suo carico ma include i fatti sottostanti alla notizia di reato nonché gli sviluppi del procedimento penale, come si evince anche dalla facoltà concessa all’azienda di disporre “in ogni fase del procedimento penale” la sospensione cautelare del dipendente.
La società addebita alla Corte di merito di non aver considerato le indicazioni fornite dall’ABI – (…), firmataria del contratto collettivo (parere n. 268 del 6 aprile 2017) in cui si precisa che l’onere di comunicazione gravante sul dipendente deve ritenersi esteso, secondo correttezza e buona fede, al titolo di reato e alle circostanze di fatto poste a fondamento dell’azione penale nonché agli sviluppi del procedimento penale.
7. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 41 del c.c.n.l. per avere la Corte d’appello trascurato i doveri gravanti sul lavoratore ai sensi dell’art. 41 cit., tra cui quello di “collaborazione attiva e intensa”, in violazione degli articoli 1366 e 1375 cod. civ., e per aver omesso di verificare se la condotta reticente del R. potesse costituire inadempimento all’obbligo di collaborazione attiva.
8. Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 2104 e 1180 cod. civ., per avere la Corte d’appello dichiarato insussistente il fatto contestato sulla base di una errata applicazione dell’articolo 2104 cod. civ., che esige dal lavoratore, e non da terzi, il diligente adempimento dei propri obblighi, e dell’art. 1180 cod. civ., ai sensi del quale l’obbligazione può essere adempiuta da un terzo solo se il creditore non ha interesse all’adempimento personale del debitore, là dove nel rapporto di lavoro l’intuitus personae costituisce requisito immanente.
La società richiama precedenti di legittimità (Cass. n. 778 del 2015) che, in relazione al contratto collettivo per cui è causa, hanno definito irrilevanti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo informativo del lavoratore, le notizie che la Banca potesse aver ricavato aliunde.
9. Con il quarto motivo si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., per insanabile contraddittorietà della motivazione e per motivazione perplessa, per non avere la Corte di merito compreso che la Banca non aveva contestato al lavoratore un ipotetico accesso illegittimo al conto della persona offesa bensì l’omesso adempimento degli obblighi di informativa e, più in generale, del dovere di attiva collaborazione, e per avere, inoltre, addossato alla Banca l’onere di avviare indagini interne.
10. Con il quinto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 48 c.c.n.l. e dell’art. 7, St. lav., per non avere la Corte d’appello considerato che il riferimento alla recidiva, specifica e generica, contenuto nella lettera di contestazione, non valeva quale causa del licenziamento, ma costituiva elemento di valutazione della condotta contestata al fine di individuare la sanzione disciplinare proporzionata alla gravità dei fatti commessi, secondo quanto previsto dall’articolo 48 cit.
11. Con il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in via subordinata, violazione o falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, St. Lav., per non avere la Corte d’appello colto che tale disposizione contempla un’ipotesi di risoluzione ipso iure del rapporto di lavoro nel caso in cui, a seguito dell’ordine di reintegrazione, il lavoratore non riprenda servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, senza che sia necessaria alcuna indagine sulle ragioni della mancata ripresa del servizio.
La ricorrente deduce che la propria domanda sul punto, avanzata alla prima udienza utile, nel giudizio di opposizione ex art. 1, comma 51, della legge 92 del 2012, non era inammissibile poiché si fondava sul medesimo fatto costitutivo, cioè il licenziamento, di cui il signor R. aveva chiesto di accertare l’illegittimità.
12. Con il settimo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, St. Lav. e degli artt. 1256 e 1463 cod. civ., per non avere la sentenza impugnata considerato che le disposizioni appena citate prevedono l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore come fatto estintivo dell’obbligazione, con la conseguenza che un’ipotetica impossibilità sopravvenuta non imputabile al lavoratore avrebbe dovuto estinguere il rapporto di lavoro.
La società censura la sentenza anche nella parte in cui ha affermato che l’omessa ripresa del lavoro non fosse imputabile al R. poiché in stato di detenzione senza valutare che questa condizione era al medesimo imputabile perché conseguenza della sua condotta.
13. I primi quattro motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente perché tutti attinenti, ciascuno da un diverso angolo di visuale, al contenuto degli obblighi del lavoratore dettati dal codice civile e dal contratto collettivo, non sono fondati.
14. Deve premettersi che il riferimento fatto nella sentenza al contratto collettivo dell’11 luglio 1999 anziché, secondo le deduzioni della società, a quello del 19 dicembre 2019, vigente all’epoca dell’intimato licenziamento, non ha prodotto alcuna conseguenza per essere il testo del previgente art. 33, richiamato dalla Corte d’appello, sovrapponibile a quello dell’art. 45 trascritto nel ricorso (p. 11).
15. In base a tali disposizioni, “il lavoratore/lavoratrice il quale venga a conoscenza, per atto dell’autorità giudiziaria (pubblico ministero o altro magistrato competente), che nei suoi confronti sono svolte indagini preliminari ovvero è stata esercitata l’azione penale per reato che comporti l’applicazione di pena detentiva anche in alternativa a pena pecuniaria, deve darne immediata notizia.
Analogo obbligo incombe sul lavoratore/lavoratrice che abbia soltanto ricevuto informazione di garanzia”.
16. Le pronunce di legittimità che finora hanno esaminato questa norma contrattuale hanno statuito che essa “tende a rendere il datore di lavoro compiutamente e precisamente informato circa vicende che possono incidere gravemente sul rapporto di lavoro bancario ed impone al lavoratore un dovere di leale collaborazione con il datore, finalizzato alla conservazione del necessario legame fiduciario” (così Cass. n. 18150 del 2006; n. 778 del 2015).
Si è poi precisato che la previsione contrattuale “ancora l’obbligo di immediata notizia, che il lavoratore deve dare all’azienda da cui dipende, alla conoscenza che il medesimo abbia dello svolgimento nei suoi confronti di indagini penali preliminari ovvero dell’esercizio dell’azione penale per reato che comporti l’applicazione di pena detentiva, anche alternativa a pena pecuniaria, estendendo, poi, la previsione del predetto obbligo all’ipotesi di ricezione di informazione di garanzia”; che pertanto “ai fini dell’assolvimento del predetto obbligo, è sufficiente che il dipendente dia puntuale ed immediata notizia al datore di lavoro dell’esistenza di indagini penali preliminari nei suoi confronti o dell’inizio del procedimento penale a suo carico o della ricezione dell’informazione di garanzia, per cui ogni altra pretesa di adempimento di comunicazione che non rientri in quelle sopra previste resta fuori della prescrizione contrattuale in esame e non può essere fatta oggetto di contestazione disciplinare”; si è ulteriormente sottolineato che “la norma collettiva summenzionata è chiaramente riferita alla fase preliminare delle indagini penali ed all’esercizio dell’azione penale e non contempla affatto un obbligo di comunicazione endoprocedimentale quale potrebbe essere […] quello della impugnazione esperita dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione” (così Cass. n. 13049 del 2016 in motivazione).
Si è anche specificato che il dovere di leale collaborazione con il datore di lavoro non può essere “vanificato da notizie, eventualmente imprecise ed incontrollabili, che il datore può ricevere da altra fonte” (così Cass. n. 18150 del 2006 cit.), essendo “irrilevante che la banca possa aver ricavato la notizia aliunde” (in tal senso Cass. n. 778 del 2015).
17. La norma contrattuale ha un tenore letterale chiaro ed univoco, reso evidente dall’uso dell’espressione “immediata notizia” riferita al momento in cui il dipendente venga a conoscenza, in maniera ufficiale e cioè “per atto dell’autorità giudiziaria”, di “indagini preliminari” oppure dell’esercizio dell’azione penale (tramite richiesta di rinvio a giudizio o atti equipollenti) nei suoi confronti.
Il legame di immediatezza che la disposizione pone tra l’apprendimento della notizia e la trasmissione della stessa al datore di lavoro dà conto della portata dell’obbligo informativo, limitato a notiziare la datrice dell’avvio delle indagini preliminari o di un procedimento penale appena questi sono giunti a conoscenza, per atto dell’autorità giudiziaria, del lavoratore che risulti essere indagato o imputato.
Il nesso di immediatezza tra la conoscenza del lavoratore indagato o imputato e il trasferimento di tale conoscenza alla società datrice di lavoro delimita il contenuto e la durata dell’obbligo in esame, confinandolo alla notizia in quel momento appresa.
La norma contrattuale non contiene espressioni che possano suggerire una dilatazione o perpetuazione dell’obbligo fino a comprendere l’informazione in favore del datore anche in ordine agli sviluppi delle indagini o del procedimento penale oppure ai contenuti specifici dei fatti addebitati.
Né a conclusioni diverse conduce la previsione, valorizzata dalla ricorrente, della facoltà per l’impresa di “disporre, in ogni fase del procedimento penale in atto, l’allontanamento dal servizio della lavoratrice/lavoratore interessato per motivi cautelari” (art. 45, comma 3, c.c.n.l.), che estende la possibilità di adozione della sospensione cautelare ad ogni fase del procedimento penale ma in nessun modo pone un dovere informativo in ordine allo svolgersi del procedimento medesimo.
18. Sulla scia dei richiamati precedenti di questa Corte, deve ribadirsi che l’obbligo di comunicazione contrattualmente posto a carico del lavoratore è finalizzato a notiziare il datore dell’esistenza di indagini penali per reati che possano avere incidenza sul legame fiduciario, così mettendo la parte datoriale nelle condizioni di svolgere indagini interne, iniziare un procedimento disciplinare, eventualmente poi sospendendo lo stesso oppure rinviando “alle risultanze anche non definitive del procedimento penale la valutazione dei fatti” (come previsto dall’art. 45, comma 2).
Detto obbligo si ferma alla comunicazione dell’esistenza delle indagini o del procedimento e non esige un progressivo aggiornamento sugli sviluppi del procedimento né l’informazione su dati e circostanze fattuali a conoscenza del dipendente.
19. L’obbligo informativo che grava sul lavoratore non può essere sostituito da notizie che la Banca possa aver ricavato aliunde, cioè da altre fonti non ufficiali e come tali “imprecise e incontrollabili” (così Cass. 18150 del 2006 cit.).
20. La Corte di merito ha interpretato il contratto collettivo conformandosi alla lettura data in sede di legittimità e le censure mosse con i motivi di ricorso in esame, in quanto pretendono di addossare al dipendente un obbligo di informativa non limitato all’esistenza del procedimento penale ma esteso ai fatti sottostanti alla notizia di reato o al capo d’imputazione, cioè alle condotte e agli accadimenti da cui scaturisce l’accusa in sede penale nonché agli sviluppi del procedimento penale in ogni sua fase (ricorso p. 11-12), risultano infondate.
Né una dilatazione dell’obbligo posto dall’art. 45 del c.c.n.l. può fondarsi sulle altre disposizioni del contratto collettivo, invocate dalla ricorrente, come l’art. 41.
Questo esige dai dipendenti una “collaborazione attiva ed intensa” nell’esplicazione dell’attività di lavoro, quale proiezione del generale dovere di diligenza, ed ha una portata evidentemente generale rispetto alla modulazione dello specifico obbligo informativo sulle indagini e sui processi penali.
La Corte d’appello ha correttamente interpretato ed applicato le disposizioni in esame nel momento in cui ha ritenuto che la notifica del decreto di perquisizione alla società datoriale, avvenuta contestualmente alla notifica nei confronti dell’indagato e portando per la prima volta a conoscenza dello stesso l’esistenza di un procedimento penale, fosse idonea a soddisfare l’obbligo di comunicazione incombente sul lavoratore, che si sarebbe altrimenti esaurito nella consegna alla Banca di un duplicato di quel medesimo decreto, unica fonte proveniente dall’autorità giudiziaria a conoscenza del dipendente.
21. Il quinto motivo è inammissibile in quanto non intercetta la ratio decidendi della sentenza impugnata che, a fronte della accertata insussistenza del fatto contestato (violazione dell’obbligo informativo), ha giudicato i precedenti disciplinari (peraltro autonomamente sanzionati) irrilevanti in quanto non idonei a giustificare il licenziamento.
Né tali precedenti potevano costituire elementi di valutazione al fine di individuare la sanzione disciplinare proporzionata non ponendosi un problema di valutazione della gravità della condotta e della proporzionalità della sanzione a fronte di un addebito giudicato insussistente.
22. Il sesto motivo è infondato.
23. Nel ricostruire la disciplina dettata per il rito cd. Fornero dalla legge 92 del 2012, questa Corte ha chiarito la natura bifasica del giudizio di primo grado: una fase a cognizione semplificata (o sommaria) e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado.
Questa seconda fase, secondo l’indirizzo ormai consolidato, non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario (v. Cass., 30443 del 2018 e precedenti ivi citati).
Da ciò si è fatta discendere l’ammissibilità, nella fase di opposizione, di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sui medesimi fatti costitutivi (v. tra le tante Cass. n. 5993 del 2019; n. 9458 del 2019).
Il comma 56 dell’art. 1, della legge n. 92/2012, prevede espressamente la possibilità per l’opposto di proporre domanda riconvenzionale, purché “fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale”, dovendo altrimenti il giudice disporne la separazione.
24. In coerenza con tali pacifiche premesse, questa Corte ha giudicato inammissibili le domande fondate su fatti differenti rispetto a quelli già dedotti dall’attore o dal convenuto, che siano originati proprio dall’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e riferiti ad una fase successiva, attuativa dei rimedi (Cass. n. 38209 del 2021).
In adesione a tali principi, la sentenza impugnata ha considerato inammissibile la domanda avanzata dalla società nel giudizio di opposizione e volta a far accertare la risoluzione del rapporto di lavoro per mancata ripresa del servizio nei trenta giorni dall’ordine di reintegra.
25. La società datoriale invoca la previsione dell’art. 18, comma 4, ultimo periodo, della legge 300 del 1970 come modificato dalla legge 92 del 2012, secondo cui “a seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma”.
Si tratta, all’evidenza, di domanda (riconvenzionale) che poggia su fatti costitutivi diversi da quelli dedotti dall’attore a base dell’impugnativa del licenziamento, fatti che attengono ad un momento successivo alla intervenuta declaratoria di illegittimità del recesso ed esattamente all’adempimento delle tutele giudizialmente adottate.
26. L’infondatezza del sesto motivo porta a ritenere assorbito il settimo motivo che censura la motivazione resa dalla Corte d’appello, ad abundantiam, rispetto alla dichiarata inammissibilità della domanda di risoluzione di diritto del rapporto di lavoro.
27. Per le ragioni finora esposte, il ricorso deve essere respinto.
28. Non si fa luogo alla regolazione delle spese del presente giudizio in ragione del tardivo deposito del controricorso.
Premesso che trova applicazione e l’art. 370 cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022 (v. Cass., S.U. n. 7170 del 2024), si rileva che, a fronte della notifica del ricorso in data 20.11.2023, il controricorso è stato depositato il 3.1.2023, oltre il termine di quaranta giorni fissato dal citato art. 370 cod. proc. civ.
29. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso […]”.
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