Protezione internazionale. Richiesta di asilo. Compiti del giudice.

Cassazione, Ord. 12 Maggio 2020, n. 8819.

CORTE DI CASSAZIONE-SEZIONE III CIVILE. Ordinanza 12 maggio 2020, n. 8819

1.Diritti fondamentali della persona; protezione internazionale; richiesta di asilo; sede giurisdizionale; interpretazione della domanda; compiti del giudice; individuazione.
2.Diritti fondamentali; protezione internazionale; sede giurisdizionale; dovere di cooperazione istruttoria; portata.
3.Diritti fondamentali; protezione internazionale; sede giurisdizionale; valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo; parametri.

1. Prescindendo dalla domanda delle parte il giudice è comunque tenuto ad esaminare (come correttamente verificatosi nel caso di specie) la possibilità di riconoscere al richiedente asilo detta forma di protezione, ove ne ricorrano i presupposti, qualora i fatti storici addotti a fondamento della stessa risultino ad essa pertinenti, trattandosi di domanda autodeterminata avente ad oggetto diritti fondamentali. Va pertanto confermato ed integrato l’orientamento, seguito in parte qua dalla giurisprudenza, a mente del quale ciò che rileva non è l’indicazione precisa del nomen iuris della fattispecie di protezione internazionale che s’invoca, ma esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria. Il principio va ulteriormente specificato nel senso che tale regola processuale non cambia pur in presenza (come nella specie) di una espressa limitazione della domanda di protezione internazionale ad alcune soltanto delle sue possibili forme, poiché tale limitazione non può assumere il significato di una rinuncia tacita a quella non richiesta, sempre che i fatti esposti con l’atto introduttivo del giudizio siano rilevanti e pertinenti rispetto alla fattispecie non espressamente invocata.
2. Il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perché il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile. E’ del tutto consolidato, inoltre, il principio per cui la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poiché incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto. Pertanto, non appare conforme a diritto la semplicistica affermazione secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva di cui al d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedano, in nessun caso, alcun approfondimento istruttorio officioso. In termini sintetici, sul giudice incomba sempre l’obbligo di cooperazione istruttoria, non potendo, se non ex post, all’esito dei disposti accertamenti, decidere nel merito la domanda.
3. La valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo in sede giurisdizionale non possa ritenersi volta alla capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione della sua personale situazione, volta che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la sistematica assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte intra pares. Più che alle regole proprie del processo civile, lo sguardo dell’interprete andrebbe rivolto, mutatis mutandis, alla stessa ragion d’essere ed alla filosofia che permeano il processo penale, teso all’accertamento della verità, per quanto possibile, anche ad opera dell’organo d’accusa, in ossequio ad un elementare principio di civiltà giuridica: e tanto è a dirsi quantomeno in relazione a vicende in cui le dichiarazione della parte lesa appaiono l’unica possibile fonte di prova.

I fatti di causa. I motivi di ricorso 1. Il signor omissis propose opposizione avverso il provvedimento con quale la commissione territoriale di gli aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e di ogni altra forma di protezione, chiedendo che gli fosse concesso, in via principale, il diritto alla protezione sussidiaria, ovvero, in subordine, quello al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Intervenuto in giudizio, il P.M. non formulò alcuna osservazione ostativa all’accoglimento della domanda.
2. Dinanzi alla Commissione territoriale, il ricorrente dichiarò: – che, a seguito della morte per Ebola dei suoi più stretti congiunti, si era trasferito presso uno zio; – che era poi stato catturato e condotto in un bosco, dove avrebbe dovuto sottoporsi ad un rito di iniziazione per entrare a far parte della Poro Society; – che era riuscito a fuggire, apprendendo, al ritorno a casa, che anche lo zio, a sua volta membro della setta, pretendeva da lui che ne entrasse a far parte; – che non si era recato alla polizia, su consiglio dello stesso zio, non sapendo nulla di particolare sulla Poro Society; – che il padre, peraltro, prima di morire, l’aveva messo in guardia dagli adepti alla setta.
3. L’organo amministrativo ritenne le circostanze narrate dal ricorrente vaghe, generiche e in alcuni aspetti contraddittorie, opinando che la causa principale del suo allontanamento dal paese d’origine fosse da ricondursi a vecchi contrasti proprietari.
4. Il ricorso proposto avverso il provvedimento amministrativo di rigetto delle istanze venne impugnato dinanzi al Tribunale di omissis ove, all’udienza dell’11.12. 2018, il sig. omissis rese, in sede di audizione, ben più ampie e circostanziate dichiarazioni (testualmente riportate nel provvedimento impugnato ai ff. 2-5 del decreto, alle quali in questa sede si rinvia,e delle quali si dirà in seguito, per quanto ancora di rilievo nel presente giudizio).
5. Il Tribunale ha rigettato la domanda.
5.1. Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso per cassazione dal difensore del sig. omissis sulla base di due motivi di censura.
5.Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 6, 7 n. 2 e 14 lett. a e b del D.lgs. 251/2007; dell’art. 8 comma 3 del D.lgs. 25/2008 in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c..
Con il secondo motivo, egli si duole della violazione dell’art. 5 comma 6 del D.lgs. n. 286/1998 in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.- Protezione umanitaria.

Le ragioni della decisione– 1. Devono essere preliminarmente esaminatele censure contenute, in parte qua, nel primo motivo, riferibili al diniego di riconoscimento di una delle forme di protezione internazionale rientrante nei parametri di cui all’art. 7 del D.lgs. 251 del 2007.
1.1. Si legge, difatti, al folio 1 del provvedimento del Tribunale che, nell’impugnare il provvedimento della Commissione territoriale “con il quale gli veniva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e di forme complementari di protezione”, il ricorrente chiese “che gli fosse riconosciuto, in via principale, il diritto alla protezione sussidiaria o, in subordine, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari”.
2. Le censure proposte sono, in parte qua, ammissibili rispetto a tutte le forme di protezione internazionale (come correttamente ritenuto dal giudice di merito, che ne ha esaminato i presupporti tout court), nonostante violino, prima facie, il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
2.1. Pur risultando specificamente circoscritto alle (sole) forme di protezione sussidiaria e/o umanitaria l’originario petitum introdotto dinanzi al tribunale, vanno comunque esaminate, in questa sede, le argomentazioni addotte dal giudice territoriale a fondamento dell’impredicabilità dello status di rifugiato del ricorrente.
2.2. A prescindere dalla domanda delle parte, difatti, il giudice è comunque tenuto ad esaminare (come correttamente verificatosi nel caso di specie) la possibilità di riconoscere al richiedente asilo detta forma di protezione, ove ne ricorrano i presupposti, qualora i fatti storici addotti a fondamento della stessa risultino ad essa pertinenti, trattandosi di domanda autodeterminata avente ad oggetto diritti fondamentali.
Va pertanto confermato ed integrato l’orientamento, seguito in parte qua dalla giurisprudenza di questa Corte, a mente del quale ciò che rileva non è l’indicazione precisa del nomen iuris della fattispecie di protezione internazionale che s’invoca, ma esclusivamente la prospettazione di una situazione che possa configurare il rifugio politico o la protezione sussidiaria (quanto alla legittimità dell’esame delle varie forme di protezione sussidiaria, sebbene non specificamente indicate, Cass. n. 14998 del 2015). Il principio va ulteriormente specificato nel senso che tale regola processuale non cambia pur in presenza (come nella specie) di una espressa limitazione della domanda di protezione internazionale ad alcune soltanto delle sue possibili forme, poiché tale limitazione non può assumere il significato di una rinuncia tacita a quella non richiesta, sempre che i fatti esposti con l’atto introduttivo del giudizio siano rilevanti e pertinenti rispetto alla fattispecie non espressamente invocata (per l’applicazione di un principio non dissimile, mutatis mutandis, in tema di nullità negoziali, Cass. ss.uu. 26242/2014).
3. Le argomentazioni svolte con il primo motivo, pertanto, risultano ammissibili non solo limitatamente alle questioni poste in tema di protezione sussidiaria.
4. Tanto premesso, il motivo è fondato, sia pur nei limiti di cui si dirà.
4.1. Esso pone, in diritto: – la questione dell’estensione e dei limiti del dovere di cooperazione del giudice nei procedimenti di protezione internazionale;
– la questione dei criteri di valutazione della credibilità del richiedente asilo.
5. Le censure relative alla omessa attivazione del dovere di cooperazione officiosa da parte del giudice sono fondate.
5.1. Si legge, difatti, al folio 8 del provvedimento impugnato, che “il giudizio di non attendibilità del dichiarante, secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale esime il giudice dall’onere di cooperazione nell’acquisizione della prova che si atteggi come ulteriore vaglio di credibilità del richiedente asilo, in particolare con riguardo all’acquisizione, da parte del giudice, di aggiornate informazioni sul Paese d’origine del ricorrente”. Secondo tale orientamento (si citano Cass. 5224 e 7333/2015 e Cass.16925/2018)”il potere/dovere istruttorio del giudice non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili, e non si richiede, pertanto, alcun approfondimento istruttorio”.
5.2. Il principio di diritto affermato dal tribunale felsineo (che, peraltro, non omette poi di esaminare, a f. 9 del provvedimento, la situazione del Paese di provenienza, nella parte in cui vengono citate alcune fonti internazionali) si colloca nella scia di un orientamento espresso anche da alcune pronunce di questa Corte, ma non può, in alcun modo, dirsi conforme a diritto, e deve ritenersi sostanzialmente superato dal più recente indirizzo di legittimità, inaugurato da Cass. 2954/2020, cui il collegio presta convinta adesione, sia pur con le precisazioni che seguono.
5.3. Va premesso come il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorgaipso facto sol perché il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile. 5.4. E’ del tutto consolidato, ancora, il principio per cui la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poiché incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (per tutte, Cass. sez.6, 25/07/2018, n. 19716).
5.5. Il giudice, pertanto, deve, in limine, prendere le mosse del suo accertamento e della conseguente decisione da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova – perché non reperibile o non esigibile – della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è sicuramente funzionale, in astratto, all’attivazione officiosa del dovere di cooperazione volta all’accertamento della situazione del Paese di origine del richiedente asilo; ma non appare conforme a diritto la semplicistica affermazione secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva di cui al d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedano, in nessun caso, alcun approfondimento istruttorio officioso (in tal senso, invece, Cass. Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez.6, 1/3/2013 n.5224).
5.6. Il quinto comma dell’art.3 del d.lgs. 251/2007 stabilisce che, anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.
5.6.1. Il contenuto dei parametri sub c) ed e)sopra indicati già evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del Paese quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, ma la relativa subordinazione, tout court, al giudizio di veridicità della narrazione alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca: Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202) non appare legittimamente predicabile.
5.7. Si è già fatto cenno, poc’anzi, di quanto recentemente affermato da questa Corte (Cass. 2954/2020, cit.) in difformità dal principio secondo il quale le dichiarazioni del richiedente asilo giudicate inattendibili non consentirebbero, comunque, un approfondimento istruttorio officioso. Si afferma, difatti, nella motivazione di quel provvedimento, come tale principio “vada opportunamente precisato e circoscritto, nel senso che esso vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. a) e b), del d.lgs.251/2007” – e ciò qualora, va ulteriormente specificato, la mancanza di tali presupposti emerga ex actis. Di converso, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria “una volta assolto da parte del richiedente asilo il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dall’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007” (Cass. 2954/2020; Cass. 3016/2019). 5.8. A tale principio il collegio presta convinta adesione, con le precisazioni che seguono.
5.8.1. Il presupposto legislativo della sopra ricordata fattispecie ex art. 14, lettera c) è quello della minaccia grave e individuale alla persona derivante da violenza indiscriminata scaturente da una situazione di conflitto armato interno o internazionale.
5.8.2. Secondo l’insegnamento della stessa Corte di giustizia (C.G. 30 gennaio 2014, in causa C-285/12, Diakité, punto 10.3), la minaccia grave può, sia pur eccezionalmente, rilevare non in relazione alla situazione personale quando il livello di violazione dei diritti umani raggiunge un livello così elevato che il rischio risulta in re ipsa.
5.9. Ne deriva, sul piano strettamente logico, prima ancor che cronologico, che l’accertamento di tale situazione deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del ricorrente. 5.9.1. Ne deriva ancora che qualsiasi valutazione di non credibilità della narrazione non può in alcun modo essere posta a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege. Quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del Paese di provenienza del richiedente asilo, sicché risulta frutto di un evidente paralogismo l’equazione mancanza di credibilità/insussistenza dell’obbligo di cooperazione.
5.9.2. Ne consegue, inoltre, che, in tale fase del giudizio (evidentemente prodromica alla decisione di merito), la valutazione di credibilità dovrà limitarsi alle affermazioni circa il Paese di provenienza rese dal ricorrente (così che, ove queste risultassero false, si disattiverebbe immediatamente l’obbligo di cooperazione).
5.9.3. La non attivazione dell’obbligo di cooperazione sarà del pari predicabile nei casi in cui il giudice, ricorrendo al notorio, possa categoricamente escludere l’esistenza dei presupposti di cui alla lettera c) dell’art. 14 (un richiedente asilo di origine australiana non potrà evidentemente esigere l’attivazione di tale obbligo, essendo fatto notorio che, in quel Paese, non esiste alcuna situazione di conflitto armato).
5.9.4. Ne consegue, infine, che tale obbligo non sussisterà tutte le volte che la difesa del richiedente asilo non abbia esposto fatti storici idonei a renderne possibile la valutazione, ovvero abbia espressamente e motivatamente rinunciato ad una delle possibili forme di protezione (come, ad esempio, nel caso che risulti probabile, e di facile accertamento, il riconoscimento della protezione umanitaria, ed appaia invece pressoché impossibile quello di rifugiato, che costituirebbe comunque oggetto obbligato di indagine da parte del tribunale).
6. Al di fuori di tali ipotesi, deve ritenersi che, per espresso dettato normativo, così come interpretato dalla stessa Corte di giustizia, sul giudice incomba sempre l’obbligo di cooperazione istruttoria, non potendo, se non ex post, all’esito dei disposti accertamenti, decidere nel merito la domanda.
6.1. Tale obbligo si sostanzia nell’acquisizione di COI [Country of Origin Information] pertinenti e aggiornate al momento della decisione (ovvero ad epoca ad essa prossima), da richiedersi agli enti a ciò preposti (tale non potendosi ritenere, come già affermato da questa Corte, il sito ministeriale “Viaggiare sicuri”, il cui scopo e la cui funzione non coincidono, se non in parte, con quelli perseguiti in sede di giudizio di protezione internazionale). E ciò è a dirsi alla luce dell’obbligo, sancito dall’art. 10, c. 3 lett. b), Direttiva Procedure, “di mettere a disposizione del personale incaricato di esaminare le domande informazioni precise e aggiornate provenienti dall’EASO, dall’UNHCR e da Organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani circa la situazione generale nel paese d’origine dei richiedenti e, all’occorrenza, dei paesi in cui hanno transitato”. Spetterà, dunque (all’amministrazione, prima, e poi) al giudice fare riferimento anche di propria iniziativa a informazioni relative ai Paesi d’origine che risultino complete, affidabili e aggiornate.
7. Una differente impostazione della valutazione di credibilità rischia di trasfigurarla da strumento di valutazione della prova in giudizio sulla lealtà processuale o, addirittura, in condizione di ammissibilità o presupposto del riconoscimento del diritto. Secondo tale, non condivisibile e non legittimo orientamento, la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di cui all’art. 3 d.lgs n. 251/2007, impedirebbe al giudice di procedere ad un approfondimento istruttorio officioso persino nel caso di cui all’art. 14, lett. c), quand’anche non sia controversa l’area di provenienza del richiedente – così finendo per estendere la rilevanza e l’influenza della valutazione negativa di credibilità ben oltre il piano della prova dei soli fatti resi indimostrati dalla mancanza di prova. Una interpretazione, questa, del tutto priva di fondamento di diritto positivo e di ordine sistematico.
7.1. Nel caso di specie, le fonti indicate dal giudice di merito, compiutamente indicate a ff.6-7-8 del decreto impugnato, confermano, nella sostanza, e in linee generali, il contenuto delle dichiarazioni rese dal richiedente asilo quanto alle caratteristiche della società segreta Poro ed alla sua influenza nel Paese, mentre (si legge ancora a f.7) “mancano informazioni circa il reclutamento forzato: dalla fonte Canada – Immigration and Refugee Board, Sierra Leone emerge, infatti, che “information on treatment of individuals who refuse iniziati and/or leadership roles within Poro Society could not be found among the sources consulted by Research Directorate”, informazioni che, viceversa, appaiono decisive ai fini della valutazione di credibilità del ricorrente, proprio alla luce dei fatti da lui minuziosamente narrati.
8. Il motivo risulta altresì fondato in relazione alla lamentata violazione di legge circa i criteri da seguire per la valutazione di credibilità del richiedente asilo.
8.1. Osserva il collegio che, nella specie, l’error procedendi in cui è incorso il tribunale nella valutazione della credibilità del racconto si sostanzia nell’esserne stati esaminati i singoli elementi secondo un criterio puramente atomistico, caratterizzato da una (non condivisibile) scomposizione/dissociazione/confutazionedi ciascun singolo fatto esposto rispetto al generale contesto narrativo, così omettendosi la -pur necessaria, e ben diversa- disamina complessiva dell’intera vicenda riferita dal richiedente asilo, che lo ha visto, come meglio si dirà in seguito, e secondo quanto da lui dettagliatamente esposto, costretto a fuggire dal suo Paese d’origine (in termini, di recente, Cass. 7546/2020).
8.2. Va in particolare osservato come la valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo in sede giurisdizionale non possa ritenersi volta alla capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione della sua personale situazione, volta che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la sistematica assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte intra pares. Più che alle regole proprie del processo civile, lo sguardo dell’interprete andrebbe rivolto, mutatis mutandis, alla stessa ragion d’essere ed alla filosofia che permeano il processo penale, teso all’accertamento della verità, per quanto possibile, anche ad opera dell’organo d’accusa, in ossequio ad un elementare principio di civiltà giuridica: e tanto è a dirsi quantomeno in relazione a vicende in cui le dichiarazione della parte lesa appaiono l’unica possibile fonte di prova (si pensi ai reati di violenza sessuale, cui non appare impensabile un’equiparazione ideale della situazione del richiedente asilo, a sua volta parte lesa di violenze in vario modo inflittegli dalle sue stesse condizioni originarie di vita).
8.3.Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve, infatti, ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche al di là ed a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, andranno opportunamente valutate in una dimensione di senso e di significato complessivamente inteso.
8.4. Nel peculiare settore della protezione internazionale devono, difatti, riaffermarsi, ad ancor più forte ragione, ratione materiae, i condivisibili ed illuminanti principi affermati da questo stesso giudice di legittimità nella sua più autorevole espressione (Cass. ss.uu. 10531/2013) sul tema della giustizia della decisione, sottolineandosi come la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato (tematica “classica” di diritto processuale) sia posta in funzione di una concezione del processo che semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, ma che, andando a fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione, che deve ritenersi valore primario del processo (valore primario che, a più forte ragione, permea quei procedimenti nei quali i valori in gioco hanno riguardo alle persone, alla loro storia, ai loro diritti fondamentali, sempre e comunque garantiti dalla Carta costituzionale e dalle Convenzioni internazionali).
8.5. Quanto all’attendibilità complessiva del richiedente asilo, ove, rispetto ad alcuni dettagli, residuino all’organo giudicante dubbi in parte qua, è convincimento del collegio (diversamente da quanto opinato, non condivisibilmente, nell’ordinanza di questa Corte n. 16028 del 2019) che possa trovare legittima applicazione il principio del beneficio del dubbio.
8.6. L’art. 3 del D.lgs. 251/2017, infatti, dispone che: “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.
8.7. Come ricordato nel rapporto Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum Systems dell’UNHCR, “nonostante gli sforzi che il richiedente (ed eventualmente anche la stessa autorità accertante) possa fare per cercare di raccogliere le prove dei fatti affermati, può darsi che permangano tuttavia dubbi relativamente a tutte o ad alcune delle sue affermazioni” e che, talvolta, “la stessa vita o l’incolumità del richiedente potrebbero essere messe a rischio ove la protezione internazionale gli fosse ingiustamente negata”. Quest’orientamento dell’UNHCR è significativamente suffragato da quanto affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di onere della prova: “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (CEDU, R.C. v. Svezia,2010, paragrafo 50; CEDU, N. v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU, A.A. V. Svizzera, 2014, paragrafo 59).
8.8. Ulteriore conferma della legittimità di tale impianto teorico in tema di valutazione della credibilità del richiedente asilo emerge dal tessuto normativo dell’art. 3, co. 5, lett. e), d.lgs n.251/2007, secondo il quale, nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se il richiedente “è, in generale, attendibile”. Pur senza escludere, in astratto, che una specifica incongruenza relativa anche soltanto ad un profilo accessorio, come le modalità di fuga, possa, per il ruolo specifico della circostanza narrata, inficiare del tutto la valutazione di credibilità – e dunque di efficacia probatoria – la norma, ponendo come condizione che il racconto sia “in generale, attendibile” non può che esser intesa nel senso di ritenere sufficiente che il racconto sia credibile “nell’insieme” – e dunque, attribuendo alle parole il loro esatto valore semantico,”complessivamente”, “globalmente”, appunto “in generale”. Attribuire invece alla locuzione il significato opposto di “integralmente”, “totalmente”, “specificamente”, “credibile in suo ogni particolare”, significherebbe sovvertire il testo e il senso della norma.
8.9. Non appare poi senza significato, seguendo un ragionamento “a contrario,che il dato normativo di cui all’art. 18 del d.lgs 251/2007, in materia di revoca della protezione, consente che essa sia disposta se “il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria è stato determinato, in modo esclusivo, da fatti presentati in modo erroneo o dalla loro omissione, o dal ricorso ad una falsa documentazione dei medesimi fatti”. Una attenta lettura del testo conduce ad una conclusione (del tutto diversa rispetto a quella fatta propria in talune decisioni di questo giudice di legittimità: Cass. sez. VI, 19/02/2019, n. 4892) per la quale la sopravvenuta scoperta della falsità dei fatti integra i presupposti della revoca solo quando essi, “in modo esclusivo” abbiano precedentemente determinato il riconoscimento della protezione, come recita limpidamente la norma. Non, dunque, una qualsiasi falsità concernente fatti diversi da quelli su cui è fondata la protezione riconosciuta, poiché l’art. 18 non può che riguardare i presupposti di fatto accertati sulla base del falso od erroneo presupposto per cui è stata ritenuta integrata la fattispecie costitutiva del diritto riconosciuto; ma solo questi, non altri.
8.10. In definitiva, un approccio differente, rispetto ai principi suesposti, alla valutazione di credibilità rischia trasfigurarla da strumento di valutazione della prova in giudizio sulla lealtà processuale, o persino in condizione di ammissibilità o presupposto del riconoscimento del diritto, così finendo per espandere l’influenza della sua valutazione negativa ben oltre il piano della prova dei soli fatti ritenuti indimostrati per la mancanza di prova. Una interpretazione, questa, che appare priva di alcun fondamento di diritto positivo e di ordine sistematico.
9. Nel caso di specie, i criteri dianzi esposti non risultano correttamente applicati dal giudice di merito, nonostante l’indiscutibile accuratezza e analiticità dell’indagine svolta.
9.1. Le pretese contraddizioni di cui è cenno nel provvedimento impugnato si riferiscono, difatti, a singole vicende, talvolta marginali, senza che le stesse risultino poi collocate in una più ampia e complessiva valutazione dell’intero narrato, ovvero vengono comparati a quelli esposti dinanzi alla Commissione territoriale senza considerare che le domande rivolte al dichiarante dal Tribunale erano state (del tutto opportunamente, ed assai scrupolosamente) differenti nella sostanza (come, ad esempio, i particolari sul rito di iniziazione, ovvero quelli sul luogo di reclusione); senza tacere di alcune latenti contraddizioni in cui incorre il decreto (quando si legge, al folio 8, che il ricorrente, “né nel ricorso né in sede di audizione, aveva allegato alcuna minaccia ricevuta per convincerlo ad entrare a far parte della Poro”, mentre, sia dinanzi alla Commissione che in sede di audizione, egli aveva chiaramente specificato tanto il contenuto degli avvertimenti del padre, quanto le intimidazioni ricevute direttamente dai membri della setta durante la sua prigionia: “mi hanno detto che non sarei uscito vivo se non avessi accettato perché ormai avevo visto il loro covo e le attività che svolgevano, quindi non mi avrebbero potuto lasciare libero”: f. 3 del decreto di rigetto); non senza considerare, ancora, la sommaria valutazione della narrazione delle caratteristiche della Poro Society, definite “generiche ed incoerenti”, benché, viceversa, coerenti con la premessa di averle apprese indirettamente dal padre; e non senza osservare, infine, che lo stesso giudizio di non credibilità tout court appare palesemente contraddetto da quanto affermato in ordine ai rapporti familiari del richiedente asilo al folio 10 del decreto, ove si legge che “il ricorrente…. mantiene, in Sierra Leone, stabili ed effettivi punti di riferimento, ivi collocandosi proprio tutti i suoi riferimenti affettivi e familiari”, così mostrando di ritenere, almeno in parte, del tutto credibili le affermazioni (f. 5 del provvedimento) rese in sede di audizione, secondo le quali il sig. omissisaveva una ragazza che aveva partorito un figlio al momento della sua fuga, ed era rimasto in contatto con la madre per il tramite di un amico.
10. Fondato risulta, altresì, il secondo motivo, con il quale si lamenta il mancato riconoscimento dei presupposti della protezione umanitaria.
10.1. Questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. 1104/2020), alla luce dell’insegnamento di cui a Cass. S.U. n. 29459 del 2019, che i presupposti necessari ad ottenere la protezione umanitaria devono identificarsiautonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori, e che le due valutazioni non sono sovrapponibili, il che è a dire che i fatti funzionali ad una positiva valutazione della condizione di vulnerabilità ben potrebbero essere gli stessi già allegati per le protezioni maggiori.
10.2. Non può, pertanto, darsi seguito (poiché privo di qualsivoglia fondamento normativo, e frutto di un’interpretazione in malam partem impredicabile in tema di diritti fondamentali) all’orientamento talvolta espresso da questo stesso giudice di legittimità (Cass. 21123/2019 – la cui motivazione si risolve in un’autentica tautologia, in punto di valutazione della credibilità del ricorrente – nonché Cass. 7622/2020), secondo cui dovrebbero essere allegati, ai fini del giudizio reso in tema di protezione umanitaria, fatti diversi da quelli prospettati per le altre forme di protezione – affermazione che contraddice il basilare dovere del giudice di qualificazione della domanda sulla base degli stessi fatti storici allegati dalla parte istante, come si è già avuto modo di chiarire in precedenza (supra, sub 5).
10.2.1. Non si può in alcun modo trascurare, difatti, la necessità di collegare la norma che disciplina la protezione umanitaria ai diritti fondamentali che ne costituiscono il presupposto. Gli interessi protetti non possono restare imprigionati nella camicia di Nesso di regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicché, come già puntualizzato da questa Corte ancor prima della già citata pronuncia a sezioni unite, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra le altre, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096). E, come ancora ricordato dalle Sezioni unite, le relative basi normative “non sono affatto fragili”, ma “a compasso largo”: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, comporta l’evoluzione della norma (elastica) sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorirne e di radicarne l’attuazione. In conformità con l’approccio scelto da questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e seguito, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, oltre che dalla preponderante giurisprudenza di merito) e condiviso dalle Sezioni Unite, occorre, pertanto, accordare rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.
10.3. Il giudizio comparativo tra la condizione personale del richiedente asilo e le conseguenze di un suo eventuale rimpatrio – giudizio alla luce del quale, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4455/2018), andranno valutati funditus, operandone poi un bilanciamento di tipo ipotetico, la attuale condizione dell’istante nel Paese di accoglienza ed il suo futuro ricollocamento in quello di provenienza – non può prescindere dall’analisi e dal significato del sintagma “condizione di vulnerabilità” – vulnerabilità che, alla luce dell’insegnamento delle sezioni unite, rappresenta soltanto uno dei requisiti per i quali può riconoscersi la protezione umanitaria.
10.4. Le sezioni unite, difatti, con la sentenza più volte citata, hanno definitivamente chiarito, quanto ai presupposti necessari per ottenere la protezione umanitaria (in consonanza con la citata pronuncia 4455/2018 di questa Corte, ed in aperta difformità da quanto erroneamente opinato dalla ordinanza di rimessione 11749/2019):
1) Che non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano.
2) Che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicché l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (ex multis, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).
3) Che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione.
4) Che era necessario dar seguito a quell’orientamento di legittimità (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e riaffermato, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19) nonché della prevalente giurisprudenza di merito, che assegnava rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare, come già detto, la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.
10.5. Il collegio esprime convinta adesione (al di là del vincolo ex lege che lo impone) a tale insegnamento, con le precisazioni che seguono.
11. Chiariti i principi posti a presidio dell’istituto della protezione umanitaria, caratterizzata dalla morfologica esigenza di procedere a valutazioni soggettive ed individuali, condotte caso per caso (onde impedire che il giudice di merito si risolva a declinare valutazioni di tipo “seriale”, improntate ai più disparati quanto opinabili criteri, altrettanto seriali, a mò di precipitato di una chimica incompatibile con valori tutelati dalla Carta costituzionale e dal diritto dell’Unione), va nuovamente riaffermato il principio secondo il quale, in subiecta materia, oggetto del giudizio è pur sempre la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua dignità di essere umano.
11.1. Il giudizio di bilanciamento evocato dalle sezioni unite di questa Corte, che ne sottolineano il rilievo centrale, ha, si ripete, testualmente ad oggetto la valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine. Grado di integrazione effettiva che, peraltro, è sintagma del tutto diverso da quello rappresentato dalla condizione di vulnerabilità del richiedente asilo.
11.2. Giova, in proposito, richiamare un fondamentale passaggio della sentenza, ove si legge – sia pur con riferimento al diverso istituto della protezione sussidiaria – che questa ha per presupposto e condizione gli scontri che rappresentino una minaccia personale grave alla vita o all’integrità fisica del ricorrente: quanto più il ricorrente è in grado di dimostrare di essere esposto a rischi, tanto minore è il livello di violenza indiscriminata richiesto per il riconoscimento della protezione sussidiaria.
11.3. Da tale – del tutto condivisibile – affermazione scaturisce, sul piano logico, un più generale principio che può essere sinteticamente definito “di comparazione attenuata”, concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, che impone un peculiare bilanciamento tra condizione soggettiva del richiedente asilo e situazione oggettiva del Paese di eventuale rimpatrio.
11.4.Mutatis mutandis rispetto al principio affermato dalle sezioni unite, si deve conseguentemente affermare che, quanto più risulti accertata in giudizio (con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità se scevra da vizi logico-giuridici che ne inficino la motivazione conducendola al di sotto del minimo costituzionale richiesto dalle stesse sezioni unite con la sentenza 8053/2014) una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri – predicati, si ripete, con esclusivo riferimento alla comparazione del livello di integrazione raggiunto in Italia – rappresentati “dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale” (il principio è stato affermato, con riferimento ad una peculiare fattispecie di eccezionale vulnerabilità, da Cass. 1104/2020).
12. Nella specie, il provvedimento impugnato non è conforme ai principi sopra enunciati.
12.1. Il tribunale, difatti, all’esito del giudizio di assoluta non credibilità del ricorrente, ha omesso di valutare, comparativamente, per le ragioni già esposte (supra, sub 5), la reale situazione esistente nel suo Paese d’origine, tanto sotto il profilo individuale della compromissione dei diritti fondamentali del richiedente asilo, quanto sotto quello generale delle conseguenze di un diniego di affiliazione alla setta Poro, al fine di giungere ad un giudizio definitivo sulla sua vulnerabilità, mentre ha correttamente rilevato – ritenendoli “meritevoli” (f. 10 del decreto) – le attività intraprese e documentalmente provate dalla difesa (frequenza a corsi di formazione per lavoratori, attività lavorativa a tempo determinato, attestato di abilitazione e di frequenza con verifica dell’apprendimento un qualità di carrellista), anche se il giudizio conclusivo risulta orientato nel senso dell’insufficiente radicamento sul territorio, ostativo al suo rientro in Patria.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia il procedimento al Tribunale di che, in diversa composizione, farà applicazione dei principi di diritto suesposti. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I, n. 228 del 2012, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, omissis