Covid-19 e blocco dei licenziamenti.

Tribunale di Roma. Sentenza n. 2362, del 12 marzo 2021.

Covid-19 e blocco dei licenziamenti. Non è sufficiente la mera inattività aziendale per giustificare il licenziamento.

Tribunale di Roma. Sentenza n. 2362, del 12 marzo 2021.

di Eva Zanghì

Secondo le norme di legge sul blocco dei licenziamenti,  il licenziamento di un dipendente è giustificato solo dalla cessazione definitiva dell’attività di impresa. Questa va però provata, non essendo sufficiente a legittimare il licenziamento la mera inattività dell’impresa. Per la legittimità del licenziamento durante la pandemia da Covid-19, il datore di lavoro non può limitarsi a fornire la prova di non svolgere alcuna attività ma deve dimostrare la definitiva cessazione dell’attività d’impresa.

1. Con sentenza n. 2362 del 12 marzo 2021, il Tribunale di Roma si è pronunciato sul blocco dei licenziamenti, introdotto sin dall’inizio dell’emergenza Covid per contrastare gli effetti negativi della pandemia sull’occupazione.

Come noto, tale misura, introdotta col DL 18/2020 e poi confermata e ampliata insieme alla proroga degli ammortizzatori sociali Covid, ha precluso ai datori di lavoro il potere di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo o di avviare/proseguire procedure di licenziamento collettivo.

Si ricorda che la normativa in vigore (fino al 30 giugno 2021 o al 31 ottobre 2021 a seconda del tipo di “sostegni” utilizzata dalle aziende), prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento nelle  ipotesi di: a) cessazione definitiva dell’attività aziendale, conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività in cui -nel corso della liquidazione- non si ravvisi la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa, oppure, di accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, oppure, b) licenziamenti intimati per fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.

2.La sentenza in argomento riguarda un licenziamento intimato durante il periodo protetto dalla normativa emergenziale, comminato con causale “cessazione dell’attività aziendale”. Nel caso in esame il giudice ha accolto il ricorso del lavoratore in quanto il datore di lavoro non aveva avviato alcuna procedura di cessazione definitiva dell’attività, limitandosi a denunciare lo stato di semplice inattività alla Camera di Commercio. Inoltre, non rilevava in alcun modo la presentazione della documentazione attestante l’avvenuta risoluzione del contratto di appalto di servizi in cui era impiegato il lavoratore licenziato, la quale non giustifica, di per sé, l’esclusione dal divieto.

Il giudice ha pertanto dichiarato la nullità del licenziamento intimato e ha condannato la società resistente a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, con corresponsione di un risarcimento in misura pari all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del T.F.R. per 13 mensilità, in relazione all’intero periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento e il giorno dell’effettiva reintegrazione.

3. Il lavoratore aveva sostenuto la nullità e/o illegittimità del recesso, per violazione del divieto di licenziamento Covid introdotto nell’ordinamento sin dal D.L. n. 18/2020. Il recesso era stato intimato nella vigenza del divieto dell’intimazione del licenziamento a seguito del Coronavirus, disposto con l’art. 46 del D.L. n. 18/2020 (“Decreto Cura Italia”), confermato con il D.L. n. 34/2020 (“Decreto Rilancio”) e successivamente ribadito con l’art. 14 del D.L. n. 104/2020 e con il D.L. n. 137/20202.

Nella lettera di licenziamento il datore affermava che le ragioni del licenziamento erano costituite dagli effetti legati alla crisi di settore e generale che l’impresa stava subendo, con conseguente drastica riduzione dei consumi, che non le permettevano la prosecuzione dell’attività lavorativa. Da qui il licenziamento giustificato con la cessazione dell’attività aziendale.

Nell’esaminare le posizioni delle parti in causa, il Tribunale ha richiamato la normativa di riferimento rammentando che le eccezioni al divieto di licenziamento sono indicate all’art. 12, commi 9 e 11, del D.L. n. 137/20202 e, per quanto rileva nel licenziamento in ogegtto (intimato nel settembre 2020), con formula identica, all’art. 14, co. 1 e 3 del del D.L. n. 104/2020.

Sul punto, la normativa in questione esclude dal divieto l’ipotesi in cui il licenziamento sia stato adottato per cessazione definitiva dell’attività di impresa.

Giova in proposito ricordare ancora una volta che restano esclusi dal blocco i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività aziendale, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, i casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa, o le ipotesi di accordo collettivo aziendale, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, o, infine, i licenziamenti intimati per fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.

Nelle ipotesi di cessazione dell’attività -ha precisato il Tribunale-  il datore di lavoro non può limitarsi a fornire la prova di non svolgere alcuna attività, ma è tenuto a provare che l’attività di impresa è cessata in modo definitivo, in conseguenza della messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività.

Tale circostanza, tuttavia, non si era ancora verificata nel caso in esame, atteso che dalla visura prodotta in giudizio risultava che l’impresa non era definitivamente cessata e non era stata neanche cancellata, né messa in liquidazione, pur risultando in quel momento inattiva.

Inoltre, non poteva costituire prova della cessazione definitiva dell’attività la comunicazione che il datore aveva inviato tramite PEC, avente ad oggetto la risoluzione immediata di contratto di appalto di servizi in essere per causa di forza maggiore. Difatti, la sola cessazione di un contratto di appalto non legittimava, di per sé, il licenziamento.

Il Tribunale ha pertanto dichiarato la nullità del licenziamento, condannando la società datrice a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a corrispondergli, a titolo di risarcimento del danno subito, un’indennità in misura pari all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR per 13 mensilità, maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.

Testo della sentenza

Tribunale di Roma – Sezione lavoro – Sentenza 12 marzo 2021 n. 2362

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI ROMA

SEZIONE LAVORO – PRIMO GRADO TERZA

IL GIUDICE, Dott. Umberto Buonassisi, quale giudice del lavoro, all’udienza del 12 marzo 2021 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 30499/2020 R.G e vertente

TRA

GA.EN., elettivamente domiciliato in Roma, Via (…), presso lo Studio dell’Avv. St.Mu. e dell’Avv. Fe.Ia., che lo rappresentano e difendono per procura in atti. RICORRENTE

IR.SRL, elettivamente domiciliata in Viterbo, via (…), rappresentata e difesa dall’Avv. Pa.Za. e dall’Avv. Sa.Za. per procura in atti. RESISTENTE

FATTO E DIRITTO

Ga.En., già dipendente dal 1.2.2018 della Ir. S.r.l. come vice capo cuoco ai sensi del livello B1 CCNL Servizi Ausiliari Ampit, ha impugnato il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo (cessazione dell’attività aziendale), con lettera consegnata il 7.9.2020, che dovrebbe essere considerato a suo avviso nullo e comunque illegittimo, stante la violazione dell’art. 14 D.L. n. 104/2020 e comunque delle norme precedenti che vietavano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Ha rassegnato pertanto le seguenti conclusioni: “1) Dichiarare la nullità del licenziamento intimato in data 7-9-2020 per violazione dell’art. 14 D.L. 14-8-2020 n. 104, o comunque per violazione delle norme precedenti che vietano l’intimazione del licenziamento e per l’effetto ai sensi dell’art. 2 D. Lgs 4-3-2015 n. 23, ordinare la reintegra nel posto di lavoro nonché condannare la soc. convenuta, in p.l.r.p.t, al risarcimento del danno subito dalla ricorrente, stabilendo un’indennità in misura pari all’ultima retribuzione utili ai fini del T.F.R. pari ad Euro 1474.56per 13 mensilità maturata dal giorno del licenziamento (07-09-2020) oltre ferie e incidenza sul TFR sino a quello dell’effettiva reintegrazione; 2) in via gradata e subordinata, accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento e per l’effetto ,ai sensi dell’art. 3 e 9 D. lgs 4-3-2015 n. 23, condannare la soc. convenuta ad un indennizzo secondo quanto stabilito dalle norme indicate in misura non inferiore a n. 12 mensilità di retribuzione da calcolare sulla base di Euro 1474.56 per 13 mensilità o nella diversa somma stabilita dall’Ill.mo Giudice, anche tenendo conto di quanto disposto dalla Corte Costituzionale. 3) In ogni caso, in caso di mancata reintegra in servizio condannare la soc. convenuta al pagamento dell’indennità di preavviso quantificata in Euro 2.949,12 o nella diversa somma che llll.mo Giudice ritenga…”.

La società resistente si è costituita chiedendo invece di rigettare il ricorso perché infondato.

All’odierna udienza la causa è stata infine decisa.

Occorre premettere che la lettera di licenziamento indica in questo modo le ragioni della scelta datoriale: “Premesso che la Scrivente società attualmente sta subendo gli effetti legati alla crisi sia del settore che generale, con conseguente drastica riduzione dei consumi, che non permettono la prosecuzione dell’attività lavorativa, siamo spiacenti di informarLa che, con decorrenza 31 Agosto 2020 siamo costretti a procedere al Suo licenziamento causa la cessazione dell’attività aziendale. Con la presente siamo contestualmente a darLe preavviso di licenziamento secondo quanto previsto dall’art. 281 del C.C.N.L. applicato, facendoLe presente che al termine del medesimo, in data 31/08/2020, il rapporto cesserà senza comunicazione ulteriore. Nel ringraziarLa sin da ora per la collaborazione sin qui dimostrataci cogliamo l’occasione per inviarLe i migliori saluti”.

Nel suo ricorso il sig. Ga. sostiene che il licenziamento sarebbe nullo per violazione del divieto di licenziamento introdotto nel nostro ordinamento dal D.L. n. 18/2020.

E’ vero infatti che il licenziamento è stato intimato quando proseguiva il divieto dell’intimazione del licenziamento a seguito del Covid disposto con l’art. 46 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (“Decreto Cura Italia”) e confermato con il c.d. Decreto Rilancio del 19-5-2020 n. 34, successivamente ribadito con l’art. 14 D.L. 14-8-2020 n. 104 e con il D.L.n.137/2020.

Le eccezioni al divieto si ricavano oggi dall’art. 12, co. 9 e 11, del d.l. n. 137 del 28 ottobre 2020 – ma già, per ciò che rileva nel presente giudizio (licenziamento del settembre 2020), con formula identica, dall’art. 14, co. 1 e 3 del d.l. n. 104 del 2020. La normativa richiamata esclude dal divieto l’ipotesi in cui il licenziamento sia stato adottato per cessazione definitiva dell’attività di impresa: “Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge. Le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile, o nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Sono altresì esclusi dal divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso”.

Ne consegue che, il datore di lavoro non può limitarsi a fornire la prova di non svolgere alcuna attività ma deve provare che l’attività di impresa è cessata in modo definitivo, in conseguenza della messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività.

Circostanza che, come emerge dalla stessa comparsa di costituzione e dalla documentazione ad essa allegata, non si è ancora verificata nel caso di specie risultando dalla visura prodotta che l’impresa non è definitivamente cessata, e non è stata neanche cancellata, né messa in liquidazione, pur risultando in questo momento inattiva.

Né fornisce questa prova la comunicazione che la committente in data 14/05/2020 (Doc. n. 03 Ir.) ha inviato tramite PEC avente ad oggetto la risoluzione immediata di contratto di appalto di servizi in essere per causa di forza maggiore.

La sola cessazione di un contratto di appalto non legittima, per le ragioni esposte, il licenziamento.

Il ricorso merita quindi accoglimento e la causa va decisa immediatamente e senza dilazione secondo le regole del processo del lavoro (Cass. n. 27457 del 22 dicembre 2006; Cass. n. 13708 del 12.6.2007; Cass. n. 25575 del 22 ottobre 2008 ecc.).

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando:

dichiara la nullità del licenziamento intimato al ricorrente il 7.9.2020 e condanna la società resistente a reintegrare nel posto di lavoro Ga.En. e a corrispondergli a titolo di risarcimento del danno subito, un’indennità in misura pari all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del T.F.R. pari ad Euro 1474.56 per 13 mensilità maturata dal giorno del licenziamento (07-09- 2020) sino a quello dell’effettiva reintegrazione;

oltre rivalutazione ed interessi come per legge;

condanna la società resistente a rifondere alla stessa parte attrice le spese di lite liquidate in Euro 3.500,00 oltre, spese generali (15%), IVA e CPA, da distrarsi.

Così deciso in Roma il 12 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2021.