Danno da violazione dell’obbligo di non concorrenza. Risarcimento. Determinazione in via equitativa.

Cassazione , Ordinanza 31 gennaio 2022, n. 2824.

 

Il danno da violazione dell’obbligo di non concorrenza, pattuito tra le parti, può essere provato mediante presunzioni.

Corte di Cassazione. Ordinanza 31 gennaio 2022, n. 2824.

Rapporti societari .Soci uscenti. Patto di non concorrenza. Violazione. Risarcimento danni. Determinazione in via equitativa.

Dal testo dell’Ordinanza 31 gennaio 2022, n. 2824.

“[…] Viene proposto ricorso per cassazione, sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze del 20 giugno 2019, n. 1515, la quale, decidendo su rinvio da Cass. 22 aprile 2016, n. 8233 ed in accoglimento delle domande proposte da […], ha: a) accertato una minor somma dovuta ai soci uscenti, in ragione di passività emerse e riferite al periodo ante recesso, condannando i soci stessi alla restituzione della differenza; b) accertato la violazione del patto di non concorrenza, ad opera dei soci, condannandoli a titolo di risarcimento del danno, in via solidale, al pagamento della somma di € 60.000,00 in favore della società, oltre alle spese di lite.

Si difende con controricorso la società intimata.

Parte ricorrente ha depositato la memoria.

Ritenuto.

1.– Il ricorso articola verso la sentenza impugnata i seguenti motivi:

1) violazione o falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., i quali permettono la liquidazione equitativa del danno provato nell’an, ma nella specie non esiste tale prova; inoltre, non si sarebbe potuto liquidare il danno da violazione dell’obbligo di non concorrenza prendendo a parametro l’avviamento dell’azienda, che non riguarda solo i clienti della stessa;

2) violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., perché la controparte non ha assolto al proprio onere probatorio, avendo beneficiato della liquidazione equitativa del danno, il quale, invece, non poteva essere considerato in re ipsa.

2.– La corte territoriale, decidendo su rinvio, ha ritenuto — per quanto qui ancora rileva — che la sentenza rescindente Cass. 22 aprile 2016, n. 8233 abbia chiarito come, da un lato,il danno da violazione dell’obbligo di non concorrenza, pattuito tra le parti, ben possa essere provato mediante presunzioni, come nella specie la prossimità dei due esercizi commerciali (bar e pasticceria), e, dall’altro lato, il danno non consista solo nella contrazione del fatturato, ma anche nella riduzione del potenziale di vendita.

Sulla base di tali principi, ha ritenuto, da un lato, provata l’esistenza del pregiudizio, sulla base degli elementi probatori in atti e delle considerazioni da essa esposte, ai sensi dell’art. 2729 c.c., atteso, in particolare, che la prossimità degli esercizi commerciali — anche comparata all’accordo concluso fra le parti, che richiedeva doversi svolgere ad almeno due chilometri il bar e fuori dalla provincia di Arezzo la pasticceria — lascia presumere la sottrazione di clientela.

Per determinare il danno, ha utilizzato il criterio equitativo, secondo il parametro dato dal valore concordato dell’avviamento aziendale, ridotto con riguardo alla sottrazione solo parziale del medesimo, peraltro per tre anni.

3.— I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto presentano lo stesso vizio, sono inammissibili.

In entrambi gli assunti, i motivi mirano invero a riproporre il giudizio fattuale — l’esistenza di un danno da violazione del dovere di non concorrenza, la riduzione dell’avviamento — che non pertiene alla Corte di legittimità, ma ai poteri-doveri riservati al giudice del merito.

Del resto, il potere del giudice di merito di valutare il danno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., consiste nella possibilità del giudice di ricorrere, anche d’ufficio, a criteri equitativi per raggiungere la prova dell’ammontare del danno risarcibile, integrando così le risultanze processuali che siano insufficienti a detto scopo ed assolvendo l’onere di fornire l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale ha adottato i criteri stessi.

Quanto al secondo motivo, esso è inammissibile anche perché, denunciando violazione del principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., non concerne affatto l’individuazione del soggetto gravato dell’onere probatorio, ma si appunta in buona sostanza sull’assunto, concernente però il merito, secondo cui sarebbe mancata la prova di un danno. Tuttavia, costituisce principio costante che la violazione dell’art. 2697 c.c. ricorre solo quando il giudice attribuisca l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulti per legge gravata (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; più di recente, Cass. 13 febbraio 2018, n. 3450, ed altre).

Nel caso in esame, invece, la censura non investe l’individuazione del soggetto tenuto a provare la sussistenza del credito risarcitorio: soggetto che resta il danneggiato, come invero la corte territoriale ha correttamente affermato.

4.— Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in € 5.100,00, di cui € 100,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Dà atto che sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto il contributo unificato […]”.