(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile,ordinanza 16 febbraio 2024,  n. 4289.

Danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica. Quantificazione del risarcimento. Criteri.  Reddito effettivamente percepito dalla vittima. Cessazione del rapporto lavorativo. Stato di disoccupazione. Applicabilità. Condizioni e limiti.

In tema di danni alla persona, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’ art. 1223 c.c. , il danno da perdita della capacità lavorativa specifica deve essere liquidato – ferma restando l’esigenza di tener conto anche della persistente, benché ridotta, capacità di reperire e mantenere altra occupazione retribuita- in base al reddito che il danneggiato avrebbe potuto conseguire proseguendo nell’attività lavorativa perduta a causa dell’illecito o dell’inadempimento, sia nell’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro in atto al tempo dell’evento dannoso, sia in quella di stato di disoccupazione, purché questa sia involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, e sussista ragionevole certezza o positiva dimostrazione che lo stesso danneggiato, se rimasto sano, avrebbe intrapreso un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività o altra confacente al proprio profilo professionale (massima ufficiale).

Secondo la Cassazione,  con l’ordinanza in parola, “il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri in relazione al lavoro svolto al momento dell’evento dannoso, va provato dal danneggiato mediante la dimostrazione che il sinistro abbia determinato la cessazione del rapporto lavorativo in atto e la perdita, per il futuro, del relativo reddito”.

Conforme è la giurisprudenza di legittimità più recente secondo cui “il reddito perduto dalla vittima costituisce la base di calcolo per la quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, la quale, peraltro, deve tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà (il cui peso deve essere adeguatamente considerato), un’altra attività lavorativa retribuita”(Cassazione, n. 14241/2023). Pertanto, tiene a precisare la S,C., il danno da perdita della capacità lavorativa va liquidato “moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione affidabili, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”.

Se è vero che tali criteri sono commisurati al caso di un rapporto di lavoro in essere al momento dell’evento dannoso, la giurisprudenza di legittimità estende l’applicazione degli stessi al caso in cui lo stato di disoccupazione, oltre che involontario, sia anche contingente e temporaneo, sussistendo la ragionevole certezza o addirittura la positiva dimostrazione che, se non vi fosse stato l’illecito, il danneggiato avrebbe ripreso lo svolgimento della medesima attività lavorativa o comunque di un’attività confacente alle sue attitudini, idonea a produrre lo stesso reddito.

Come già fatto rilevare dalla Cassazione (n. 9682/2020), ai fini della liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, il Giudice deve valutare se: i) possa ritenersi che la vittima, se fosse rimasta sana, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale; ii)  i postumi residuati all’infortunio consentano o meno lo svolgimento di un lavoro confacente al profilo professionale della vittima.

Applicando tali principi, la Corte di Cassazione conclude che la Corte territoriale ha liquidato irragionevolmente, nella misura di un terzo del danno non patrimoniale già liquidato dal primo giudice, il danno patrimoniale di cui era stato invocato il ristoro, senza tenere conto che: a) il danneggiato aveva sempre svolto l’attività lavorativa di autotrasportatore; b) al momento dell’illecito si trovava in stato di disoccupazione non per propria volontà o colpa, ma per vicende oggettive che avevano colpito l’impresa datrice di lavoro; c) sussisteva la ragionevole certezza, se non la positiva dimostrazione, che lo stato di disoccupazione sarebbe cessato, con ripresa della medesima attività lavorativa, ove non vi fosse stato l’illecito, per avere egli ricevuto una proposta di assunzione da un’altra impresa.