(Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di cassazione, Sentenza 26 marzo 2024, n. 12332.

Infortunio sul lavoro. Decesso lavoratore. Assenza delle condizioni di sicurezza. Violazione norme antinfortunistiche. Inottemperanza a obblighi datore di lavoro. Rigetto.

Corte di cassazione

[…] Fatto

1. La Corte di appello di Bari, con la sentenza indicata in epigrafe, ha parzialmente riformato, riducendo il trattamento sanzionatorio, la pronuncia di condanna emessa il 5/03/2020 dal Tribunale di Foggia nei confronti di A.A., imputato del delitto di cui all’art. 589 cod. pen. perché, in qualità di amministratore unico e dì responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell’impresa edile C. Srl, per colpa, consistita nella violazione degli artt. 111, comma 1, e 113, comma 5, d.lgs. n. 81/2008, aveva cagionato il decesso di F.F., muratore specializzato dipendente dell’impresa indicata, incaricato di effettuare un sopralluogo presso la villetta di G.G. per la verifica di eventuali infiltrazioni di acqua piovana dal tetto, deceduto per politrauma a seguito di caduta dall’altezza di circa nove metri; in particolare, per aver consentito che il F.F. effettuasse il lavoro in quota, in assenza delle condizioni di sicurezza e delle condizioni ergonomiche adeguate, in quanto il medesimo F.F. si era posizionato in un luogo inadatto allo scopo e privo delle attrezzature idonee a garantire le condizioni di sicurezza dell’operazione (ad esempio piattaforma mobile, c.d. cestello), atteso che la villetta del G.G. non presentava alcuna predisposizione o scala specifica per accedere al tetto spiovente; e ancora, per aver omesso di fornire al F.F. una scala adeguatamente assicurata o trattenuta al piede da altra persona, tanto che il lavoratore aveva utilizzato una scala molto più alta del muro sul quale l’aveva appoggiata, quindi soggetta a sbandamenti. Fatto avvenuto in Cerignola il 24 febbraio 2010 in relazione al quale le elevate contestazioni delle contravvenzioni di cui agli artt. 111, comma 1, e 113, comma 5, d. lgs. n.81/2008 sono state dichiarate prescritte.

2. A.A. propone ricorso, censurando la sentenza, con il primo motivo, per erronea applicazione degli artt. 40, 41 e 589 cod. pen. nonché per mancanza di motivazione. La difesa evidenzia come il giudice di merito abbia espressamente e ripetutamente riconosciuto la colpa della vittima nella causazione dell’infortunio qualificando come gravemente colposa la condotta del F.F. e, considerato che con l’atto di appello si era affermato che tale condotta, ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. pen., fosse da sola sufficiente a determinare l’evento, la Corte di appello avrebbe dovuto spiegare se all’imputato potesse rimproverarsi di aver creato un rischio originario e se l’intervento del lavoratore con la propria condotta gravemente colposa non avesse soppiantato tale rischio. Simile percorso logico non è stato compiutamente esplicitato nella sentenza impugnata. Al datore di lavoro non era contestato di aver ordinato al dipendente di salire sul tetto dell’abitazione ma di effettuare un sopralluogo. La difesa aveva decisamente contestato anche la circostanza di fatto dell’incarico dato al lavoratore di recarsi presso la villetta di G.G. ma, pur ammettendo che la C. Srl avesse incaricato il F.F. di fare un sopralluogo, il lavoratore si sarebbe dovuto limitare a verificare se all’interno dell’abitazione di G.G. vi fossero infiltrazioni; il F.F. non aveva bisogno di fare altro dovendo, anzi, rinviare a un successivo momento ulteriori approfondimenti. Il lavoratore, imprudentemente, in condizioni di improvvisazione, come affermato nella sentenza impugnata, ossia con una scala reperita sul posto di altezza incongrua rispetto all’altezza tra il tetto e il piano di appoggio, ha deciso di salire autonomamente sul tetto, tanto più che la società datrice di lavoro non aveva un cantiere aperto in via P a C , quindi non aveva uomini né mezzi né un’organizzazione d’impresa in quel luogo, posto che la costruzione del complesso residenziale di case in via (…) era terminata sin dal 2006. Secondo la difesa, la condotta altamente imprudente e deliberatamente rischiosa della vittima esclude il nesso causale tra la condotta omissiva addebitata all’imputato e l’evento perché la condotta della vittima rappresenta una condizione sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. Dalla stessa sentenza impugnata emerge che l’infausta manovra sia stata compiuta in solitudine dal lavoratore con una scala inadeguata e senza chiedere la collaborazione di alcuno. Bisogna chiedersi quale sia stato nella fattispecie il rischio originario posto in essere dal datore di lavoro, se non quello minimo di aver incaricato il dipendente di effettuare un sopralluogo visivo. Rispetto a tale rischio, la condotta gravemente imprudente del lavoratore di salire sul tetto senza l’aiuto di alcuno e senza una scala adatta va qualificato come rischio eccentrico o esorbitante rispetto alla sfera di rischio che il datore di lavoro poteva governare.

2.1. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione dell’art. 41, comma 1, cod. pen. e mancanza di motivazione. Considerato che la condotta colposa del F.F. è stata definita gravemente colposa e gravemente imprudente, tale condotta avrebbe dovuto essere confrontata e comparata con quella del datore di lavoro. Avendo la sentenza qualificato la colpa del lavoratore come grave, la percentuale di colpa a suo carico non si sarebbe potuta attestare al 30% come, immotivatamente, fatto dalla Corte di appello senza dimostrare che la colpa del datore di lavoro fosse stata ancora più grave.

2.2. Con il terzo motivo deduce che, essendo stata dichiarata la prescrizione dei reati contravvenzionali concernenti la violazione delle norme antinfortunistiche, dunque in mancanza di accertamento della sussistenza di tali reati, l’aggravante prevista dall’art. 589, comma 2, cod. pen. avrebbe dovuto essere esclusa per cui le riconosciute circostanze attenuanti generiche avrebbero dovuto incidere sulla pena edittale, riducendola.

2.3. Con il quarto motivo deduce violazione degli artt. 589 e 133 cod. pen. chiedendo, nel caso di accoglimento del secondo motivo di ricorso sulla graduazione della colpa della vittima, l’annullamento della sentenza sul trattamento sanzionatorio sia in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in termini di prevalenza rispetto alla aggravante, sia in relazione alla misura della pena, che la sentenza impugnata ha definito significativamente superiore al minimo edittale.

3. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.

4. I difensori delle parti civili E.E., B.B., C.C. e G.N. hanno depositato memoria, concludendo per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso.

Diritto

1. Va premesso che non sono ammissibili i motivi di ricorso tendenti a sollecitare la Corte di legittimità a riesaminare le acquisizioni istruttorie in quanto si tratta di compito rimesso al giudice di merito. Le censure svolte con il primo motivo di ricorso possono, dunque, essere esaminate circoscrivendone la disamina ai profili diversi dalla contestazione dell’incarico dato al lavoratore di recarsi presso la villetta di G.G. e dall’allegazione che la C. Srl avesse incaricato il F.F. di fare un mero sopralluogo.

1.1. Le conformi sentenze di merito hanno, infatti, ritenuto provato che F.F., dipendente della C. Srl, di cui l’imputato è amministratore unico, si sia recato in via P allo scopo di effettuare alcuni lavori di manutenzione connessi a infiltrazioni verificatesi in una delle villette ultimate, circa tre anni prima, dalla C., escludendo l’ipotesi dell’iniziativa autonoma della vittima in orario di lavoro; che il lavoratore aveva utilizzato una scala appoggiata sul balcone del secondo piano della medesima villetta, non essendovi altro accesso al tetto; che il decesso era conseguenza della caduta da tale scala da un’altezza di circa 9 metri; che la scala impiegata, di altezza pari a m.3,9, risultava inidonea a essere utilizzata senza l’ausilio di altro soggetto che avrebbe dovuto reggerla; che sul posto non erano stati rinvenuti altri dispositivi di sicurezza, ad eccezione delle scarpe antinfortunistiche; che, in ogni caso, i dispositivi di protezione individuali messi a disposizione dalla ditta risalivano al 2002 e non erano mai stati revisionati; che, in data 16 giugno 2008, era stata inviata alla C. Srl da G.G., proprietario dell’abitazione da cui il lavoratore era caduto, una missiva nella quale il medesimo aveva sollecitato l’intervento di riparazione per infiltrazioni a seguito di numerose richieste verbali e telefoniche; che la vittima era stata già sul posto in precedenza per eseguire un sopralluogo.

1.2. Non risponde al tenore del provvedimento impugnato l’assunto difensivo secondo il quale la Corte di appello non si sia fatta carico di indicare sulla base di quali elementi fosse stato accertato il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento. In particolare, vi si legge che il lavoratore era stato indirizzato il giorno dell’infortunio a casa del G.G. in quanto dipendente della C. Srl e che non fosse stato possibile individuare quali ordini il F.F. avesse trasgredito, in assenza di qualsiasi documentazione in merito a corsi o comunque istruzioni al personale concernenti la specifica disposizione di utilizzare “più operai per eseguire lavori in quota”. I giudici di merito hanno, con logica motivazione, descritto su quali acquisizioni istruttorie si fondasse il giudizio che, in quell’occasione, il lavoratore fosse stato incaricato dalla ditta, essendo tale valutazione in linea con il modus operandi dell’impresa, che inviava gli operai per risolvere autonomamente i problemi lamentati dagli inquilini degli appartamenti costruiti dalla medesima impresa edile.

1.3. La Corte ha anche espressamente escluso che la condotta imprudente del lavoratore potesse qualificarsi come abnorme, dal momento che il A.A., in qualità di amministratore unico e di responsabile del servizio di prevenzione protezione della C. Srl aveva consentito che l’operaio edile svolgesse lavori in quota in assenza di condizioni di sicurezza idonee e adeguate e aveva consentito di eseguire tale lavoro in assenza di qualsiasi prova circa la scelta o predisposizione di adeguate istruzioni in merito ai presìdi da adottare o circa la predisposizione di protocolli di intervento o circa una valida delega dei suoi obblighi a terzi.

1.4. Contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, si è chiaramente espresso, a pag.14, che l’evento dannoso avesse concretizzato il pericolo che le norme cautelari contestate all’imputato erano volte a evitare. L’assunto difensivo secondo il quale il A.A. si occupava di altri cantieri e in quel momento si trovava all’estero, è stato considerato inidoneo a escludere la posizione di garanzia del datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione protezione dell’impresa, tanto più che non sussistevano valide deleghe rilasciate ad altri soggetti presenti. Se l’imputato avesse ottemperato agli obblighi previsti dalla normativa antinfortunistica, si legge a pag.15, l’evento morte non si sarebbe verificato secondo un giudizio di elevata credibilità razionale in quanto si sarebbe evitato di lasciare che il lavoratore operasse in condizioni di improvvisazione accedendo al tetto con una scala reperita sul posto di altezza incongrua rispetto all’altezza tra il tetto e il piano di appoggio e semplicemente appoggiata, senza alcuna attrezzatura idonea a prevenire le cadute dall’alto.

2. Si chiede, nondimeno, di vagliare la tenuta della motivazione in ordine alla sussistenza del nuovo scenario di rischio, attivato dalla condotta che gli stessi giudici di merito hanno definito “gravemente colposa” (anche se non abnorme) del lavoratore, sul presupposto che tale condotta avrebbe innescato un rischio tale da soppiantare il rischio originario, comunque asseritamente non esplicitato.

2.1. Va, in primo luogo, sottolineato che i giudici di merito hanno ben evidenziato che la causa prima dell’evento fosse da individuare nella marcata superficialità nell’organizzazione del lavoro, nell’assenza di attrezzature idonee e nell’assenza di qualsiasi istruzione di carattere generale e particolare, ossia nell’inottemperanza a obblighi specificamente gravanti sul datore di lavoro, dunque rientranti nell’area di rischio della quale egli è costituito per legge gestore e garante.

2.2. Occorre ribadire, poi, un principio già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di reati colposi omissivi impropri, “l’effetto interruttivo del nesso causale può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare (Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, V., Rv. 281748 – 01; Sez. 4, n. 123 del 11/12/2018, dep. 2019, N., Rv. 274829). Il canone si estende certamente al reato commissivo, e in egual modo implica che l’esorbitanza del rischio sia tale da costituire “rischio nuovo”. Ancora il giudice di legittimità, nel definire il rischio nuovo ha chiarito che il fatto altrui non esclude in radice l’imputazione dell’evento al primo agente, a meno che, in relazione all’intero concreto decorso causale dalla condotta iniziale all’evento, non abbia soppiantato il rischio originario. L’imputazione non sarà invece esclusa quando l’evento risultante dal fatto del terzo possa dirsi realizzazione sinergica anche del rischio creato dal primo agente (Sez. 4, n.33329 del 05/05/2015, S., Rv. 264365 – 01).

2.3. Corollario di tali affermazioni di principio, con particolare riferimento alla materia degli infortuni sul lavoro, è il criterio valutativo secondo il quale, qualora l’evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia, in quanto l’inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio fino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall’inerzia del datore di lavoro (Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017, dep. 2018, S., Rv. 273247 – 01; Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, M., Rv. 250710 – 01). Conseguentemente, non può ritenersi, come pretende il ricorrente, che la sentenza impugnata non abbia chiarito le ragioni della mancata interruzione della serie causale attivata proprio dalla condotta colposa del A.A. . Tanto è sufficiente per dimostrare l’infondatezza del primo motivo di ricorso.

3. Con riguardo al secondo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha fornito congrua motivazione circa l’incidenza del grado della colpa sulla misura della pena, indicando a fondamento di tale giudizio la condotta assolutamente negligente e incurante dell’imputato, in totale spregio delle cariche rivestite nella società, come peraltro affermato nell’atto di appello laddove si è sostenuto che “il A.A. non aveva alcuna contezza dei fatti in questione, occupandosi di ben altro”. La misura della pena è stata determinata sulla base del grado della colpa ritenuta, con giudizio insindacabile in questa sede in quanto pertinente ai criteri dettati dall’art.133 cod. pen., di maggior peso rispetto all’imprudenza del lavoratore. Giova evidenziare che la percentuale del concorso del fatto colposo del danneggiato non risulta in questa sede contestata in relazione al diritto della parte civile al risarcimento del danno e che, in ogni caso, si tratta di statuizione priva di efficacia nel giudizio civile di danno ai sensi dell’art. 651 cod. proc. pen. (Sez.3 civ., ord. n. 21402 del 06/07/2022, Rv. 665209 – 01; Sez. 3, n. 1665 del 29/01/2016, Rv. 638322 – 01; Sez.3 civ., n.11117 del 17 28/05/2015, M., in motivazione).

4. Il terzo e il quarto motivo di ricorso sono manifestamente infondati, sia per le ragioni indicate con riferimento all’infondatezza del secondo motivo di ricorso, sia perché la dichiarazione di prescrizione dei reati di cui agli artt. 111, comma 1, e 113, comma 5, d.lgs. n. 81/08 non è di per sé idonea ad escludere la circostanza aggravante prevista dall’art.589, comma 2, cod. pen. In ipotesi di duplice contestazione delle contravvenzioni concernenti la violazione di cautele antinfortunistiche prescritte dal d. Igs. n.81/2008 e del delitto di omicidio colposo aggravato ai sensi dell’art. 589, comma 2, cod. pen., la dichiarazione di prescrizione dei reati contravvenzionali non preclude l’accertamento del delitto di omicidio colposo nella forma aggravata dalla violazione di quelle medesime regole cautelari ai sensi dell’art.589, comma 2, cod. pen. in quanto, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. la dichiarazione di prescrizione presuppone il giudizio di non evidenza della prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato e consente, pertanto, al giudice di merito di valutare la violazione di quelle regole cautelari come fatti costitutivi

5. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché, in solido con il responsabile civile, alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili D.D., C.C., B.B. e E.E., liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione, in solido con il responsabile civile C. Srl, delle spese di giudizio sostenute dalle parti civili E.E., B.B., C.C., D.D., nel presente grado di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 5.700,00, oltre accessori come per legge […]”.