Diffamazione a mezzo stampa: carcere solo nei casi di eccezionale gravità
Corte costituzionale, 22 Giugno 2021Diffamazione a mezzo stampa: carcere solo nei casi di eccezionale gravità.
Corte costituzionale, Sentenza 22 Giugno 2021.
A cura di Eva Zanghì
La Corte costituzionale ha esaminato il 22 giugno 2021 le questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista per la diffamazione a mezzo stampa, per contrasto, tra l’altro, con l’articolo 21 della Costituzione e con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Le questioni sono tornate all’esame della Corte un anno dopo l’ordinanza n. 132 del 2020 che sollecitava il legislatore a una complessiva riforma della materia[1].
In attesa del deposito della sentenza, la Corte, preso atto del mancato intervento del legislatore, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa (L. n. 47 del 1948) che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa[2].
È stato invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, per le ordinarie ipotesi di diffamazione compiute a mezzo della stampa o di un’altra forma di pubblicità, la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa. Quest’ultima norma consente infatti al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità[3].
Resta peraltro attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento -che la Corte non ha gli strumenti per compiere- tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, già evidenziati nell’ordinanza 132.
La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.
[1] Con l’ordinanza n. 132, la Corte aveva per l’appunto rinviato all’udienza del 22 giugno 2021 la decisione delle questioni sulla legittimità della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa, in modo da consentire al legislatore di approvare una nuova disciplina. Il bilanciamento espresso dalla normativa vigente, aveva detto la Corte, “è divenuto ormai inadeguato, e richiede di essere rimeditato dal legislatore anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (…), che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive (…) nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”, e ciò anche in funzione dell’esigenza di non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri. Il nuovo bilanciamento, proseguiva l’ordinanza, “dovrà coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica (…) con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”. Un così delicato bilanciamento spetta dunque primariamente al legislatore, che è il soggetto più idoneo a “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso -nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito- a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si inscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.
[2] Art. 13 (Pene per la diffamazione): “Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000”. La misura della multa è stata così elevata dall’art. 113, secondo comma, l. 24 novembre 1981, n. 689. Per effetto dell’art. 24 c.p. l’entità della sanzione non può essere inferiore a lire 10.000. La sanzione è esclusa dalla depenalizzazione in virtù dell’art. 32, secondo comma, della cit. L. n. 689/1981 (N.d.R.).
[3] L’articolo 595 c.p., “Diffamazione“, così dispone:
“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.
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