Attività esigibili dai provider per la tutela del diritto all'oblio.

Cass. Civ. Sez. I, 21 luglio 2021, n. 20861.

DIRITTO ALL’OBLIO. Cass. Civ. Sez. I, 21 luglio 2021, n. 20861.

Nota di Ada Noli

Diritto all’oblio, URL e parole-chiave. La deindicizzazione. Riservatezza e attività esigibili dai provider per la tutela del diritto all’oblio.

Riferimenti legislativi: D.Lgs. n. 196/2003: “Codice in materia di protezione dei dati personali”; Regolamento (UE) n. 679/2016, del PE e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).

1.Con l’Ordinanza  in argomento, la Corte di Cassazione Sezione I Civile ha cassato la sentenza n. 825/2016 del Tribunale di Spoleto il quale, nonostante l’assenza di un’individuazione puntuale e specifica, da parte del ricorrente, dei contenuti di cui questi richiedeva la rimozione, aveva disposto un’inibitoria generica nei confronti di uno dei maggiori motori di ricerca mondiali comportando, quindi, un obbligo, in capo a quest’ultimo, di ricerca attiva o di monitoraggio dei contenuti suppostamente lesivi del diritto alla tutela dei dati personali.

Ai fini della determinatezza del petitum mediato della pretesa., la domanda di deindicizzazione esige la precisa individuazione ed indicazione degli URL che l’attore intende far rimuovere. Ciò si rende necessario in particolare nella materia della deindicizzazione, perché l’obbligo di intervento del provider non è assoluto e illimitato, bensì condizionato dalla possibilità di prendere atto dell’interferenza delle informazioni, reperibili attraverso l’attività del motore di ricerca, con i diritti fondamentali della persona, e quindi anche con quello alla riservatezza. In tal senso, una doglianza generica, che non identifichi le informazioni che ledono il diritto del singolo alla protezione dei propri dati personali, si traduce in una domanda che non individua i contenuti minimi rispetto ali quali possa ritenersi esigibile, in concreto, l’intervento del prestatore del servizio. Il ricorrente aveva intrapreso un’azione nei confronti di Google per vedere accertato il suo diritto ad ottenere la rimozione da un motore di ricerca di tutti i risultati che comparivano digitando il proprio nome, oltre al risarcimento del danno.

2.“In conclusione -afferma la S.C.- ai fini della determinazione del petitum mediato, la domanda di deindicizzazione esige la precisa individuazione dei risultati della ricerca che l’attore intende rimuovere, e quindi, normalmente, l’indicazione degli indirizzi telematici, o URL, dei contenuti rilevanti a tal fine, anche se non è escluso che una puntuale rappresentazione delle singole informazioni che sono associate alle parole chiave possa rivelarsi, secondo le circostanze, idonea a dare precisa contezza della cosa oggetto della domanda, in modo da consentire al convenuto, gestore del motore di ricerca, di apprestare adeguate e puntuali difese sul punto. Nel caso in esame, la domanda di deindicizzazione risultava essere totalmente indeterminata, avendo l’odierno ricorrente richiesto pronunciarsi un ordine di rimozione di “tutti i risultati che appaiono in seguito alla digitazione delle parole ‘Don B.R.’”.

Dal testo dell’Ordinanza

“[…] Cass. civ., sez. I, ord., 21 luglio 2021, n. 20861 […]

Fatti di causa

1.-B.R. agiva in giudizio chiedendo di accertarsi il proprio diritto ad ottenere la rimozione, dal motore di ricerca G., di tutti i risultati che comparivano digitando il proprio nome: rilevava infatti che tali risultati, consistenti in articoli giornalistici che associavano il suo nome a una vicenda di cronaca, risultavano inadeguati ed eccessivi in relazione allo scopo per i quali erano stati pubblicati; domandava inoltre la condanna della convenuta G.I.. al risarcimento del danno. Questa si costituiva in giudizio deducendo che le domande attrici non potevano trovare accoglimento: eccepiva, in proposito, che la controparte non aveva indicato gli URL specifici dei contenuti di cui era stata domandata la rimozione e asseriva che le informazioni raggiungibili attraverso il motore di ricerca presentavano un interesse pubblico e dovevano ritenersi ancora attuali. Il Tribunale di Spoleto, con sentenza del 14 dicembre 2016, rilevava che le informazioni di cui si dibatteva più non riflettevano un interesse per la collettività, dato che l’istante non ricopriva alcun ruolo pubblico ed erano trascorsi numerosi anni dall’accaduto; accertava, dunque, che l’attore vantava il diritto all’oblio per i fatti oggetto di causa e per l’effetto ordinava a G.I.. la rimozione e cancellazione dal motore di ricerca G. di tutti i risultati che apparivano digitando il nome dell’attore; rigettava, invece, la domanda risarcitoria.

2.-G.I.. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale umbro; l’impugnazione si compone di tre motivi. Resiste con controricorso B.R. . Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Ragioni della decisione.

1- Col primo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione dell’art. 15 dir. 2000/31/CE e del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 17, per avere il giudice del merito disposto un’inibitoria generica che comporta in capo a G., quale internet service provider, un obbligo di ricerca attiva o di monitoraggio dei contenuti che si asseriscono lesivi del diritto alla tutela dei dati personali non specificamente identificati tramite URL. Dopo aver richiamato il regime di responsabilità dei service provider e, in particolare, dei caching provider rispetto ai contenuti generati dagli utenti, la ricorrente osserva come l’unico modo per individuare in modo specifico ed univoco detti contenuti è costituito dall’indicazione dell’URL dei medesimi, e cioè della sequenza dei caratteri che identifica l’indirizzo di una risorsa in internet. Viene lamentato che, mancando l’indicazione specifica dei detti indirizzi, l’inibitoria avrebbe un contenuto generico e implicherebbe un obbligo di ricerca attiva di contenuti non identificati e memorizzati temporaneamente dal caching provider, oltre che un obbligo di monitoraggio preventivo non compatibile con la disciplina vigente.

Col secondo motivo sono denunciate la violazione e la falsa applicazione dell’art. 12, lett. b), e art. 14, comma 1, lett. a), della dir. 95/46/CE relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 7, comma 3, lett. b), e comma 4, lett. a), nonché dell’art. 17 del regolamento generale sulla protezione dei dati 2016/679, per avere il Tribunale ordinato la cancellazione dei dati trattati dal motore di ricerca e la cessazione del trattamento degli stessi attraverso un’inibitoria generica che comporta in capo all’internet service provider un obbligo di ricerca attiva o di monitoraggio dei contenuti in contrasto con l’art. 15 dir. 2000/31/CE, del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 17, dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115c.p.c., e art. 163 c.p.c., comma 1, n. 5. Viene osservato, in sintesi, che il divieto di imporre al provider un obbligo di monitoraggio preventivo o di ricerca attiva dei contenuti da rimuovere opera anche in materia di dati personali. Il terzo mezzo oppone l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere il giudice del merito considerato l’eccezione preliminare e pregiudiziale di G. circa il mancato deposito o la semplice elencazione degli URL su cui intendeva esercitare il diritto all’oblio. Viene ricordato che la ricorrente aveva evidenziato, in via pregiudiziale, nel corso del giudizio innanzi al Tribunale di Spoleto, che la domanda attrice non era suffragata dalla identificazione degli URL cui si riferiva l’accertamento domandato. L’istante lamenta che detto giudice abbia omesso l’esame del fatto decisivo, discusso tra le parti, relativo alla mancata identificazione nel ricorso, tramite i pertinenti URL, dei contenuti oggetto di contestazione.

Il terzo motivo è fondato e tanto determina l’assorbimento dei primi due.

2.1. – La ricorrente si duole della genericità dell’inibitoria disposta dal Tribunale, la quale le imporrebbe compiti di monitoraggio non compatibili con la disciplina unionale recepita dal legislatore nazionale; lamenta, inoltre, l’assenza di specificità della domanda introduttiva, la quale era intesa, secondo quanto ricordato nel ricorso (pag. 2), alla cancellazione dal motore di ricerca G. dei dati personali che risultavano dalla digitazione delle parole “Don B.R. ” e, di conseguenza, alla “rimozione di tutti i risultati di ricerca che (apparivano) in seguito alla digitazione” delle dette parole. È corretto ritenere, dunque, che il ricorso per cassazione ponga due questioni, tra loro connesse: una, di natura sostanziale, sviluppata all’interno dei primi due motivi, e incentrata sulla inesigibilità di una condotta del provider consistente nella rimozione, dal motore di ricerca, di contenuti indeterminati; l’altra, di natura processuale, svolta nel terzo motivo, vertente sulla necessità, o meno, di indicare, nell’atto introduttivo del giudizio inibitorio D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, inteso alla deindicizzazione, i dati identificativi – in particolare gli URL – dei contenuti di cui si domanda la cancellazione. Non rileva, ai fini dell’esame di questa seconda questione, che la ricorrente abbia denunciato, nella rubrica del terzo motivo, il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5). L’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass. 7 novembre 2017, n. 26310; Cass. 27 ottobre 2017, n. 25557; Cass. 20 febbraio 2014, n. 4036). Nella fattispecie, la doglianza della ricorrente, secondo cui il Tribunale avrebbe omesso di apprezzare la “circostanza decisiva e pregiudiziale” della “mancata identificazione dei contenuti che avrebbero violato il diritto alla tutela dei dati personali di controparte” (pag. 22 del ricorso) si inscrive sul piano processuale e investe il tema della sufficiente determinatezza della domanda introduttiva. Alla stregua di tale mezzo di censura ci si deve infatti chiedere se le indicazioni contenute nel ricorso fossero idonee a soddisfare le condizioni di cui all’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 3: norma applicabile nel caso in cui l’interessato si avvalga del procedimento sommario di cognizione, come nella fattispecie è avvenuto (condizioni comunque coincidenti con quelle desumibili dall’art. 414 c.p.c., n. 3, cui deve farsi riferimento nel caso in cui la causa sia introdotta non col rito speciale di cui all’art. 702 bis c.p.c. e ss., ma col rito del lavoro, a norma del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10, comma 1): si tratta in altri termini di chiarire se, nella fattispecie che interessa, la domanda fosse adeguatamente circostanziata quanto alla “cosa” che ne costituiva oggetto. Tale questione, siccome inerente ad un vizio dell’atto introduttivo che, ove esistente, avrebbe precluso l’esame del merito dell’azionata pretesa, riveste priorità, sul piano logico e giuridico, rispetto a quella su cui sono incentrati i primi due motivi. Sicché lo scrutinio del terzo motivo deve precedere quello dei restanti mezzi di censura.

2.2. – La ricorrente, come accennato, si duole della omessa enunciazione, nel ricorso, degli URL. L’URL (uniform resource locator) designa univocamente l’indirizzo di una risorsa sulla rete: nella fattispecie si fa questione degli URL dei contenuti reperibili attraverso il motore di ricerca e riferibili all’odierno controricorrente. G. – lo si è pure anticipato – fonda le proprie doglianze sul divieto di imporre all’internet service provider un obbligo di monitoraggio preventivo o di ricerca attiva. La deduzione si fonda sulla disciplina del commercio elettronico (dir. 2000/31/CE) che esclude che il detto provider possa essere tenuto a predisporre un sistema di filtraggio delle comunicazioni che transitano per i suoi servizi.

2.3. – L’attività di G., quale motore di ricerca, è riconducibile alla previsione dell’art. 13.1 della dir. 2000/31/CE, che contempla la prestazione del servizio di caching, consistente nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta. Essa si differenzia dall’attività di mere conduit, che si sostanzia nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione (art. 12.1 dir. cit.) e dall’attività di hosting, consistente nella memorizzazione di informazioni a richiesta di un destinatario del servizio (art. 14.1), la quale è individuata, principalmente, nella fornitura di spazi digitali deputati ad ospitare i siti web degli utenti (ma anche in altre, come ad esempio i servizi promozionali di posizionamento che si avvalgono di parole chiave, come gli Ad Words). Per tutte le indicate attività l’art. 15 dir. 2000/31/CE dispone che gli Stati membri non impongano ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, nè un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. La Corte di giustizia ha conseguentemente escluso che al prestatore di servizi internet possa essere imposto un sistema di filtraggio preventivo e generalizzato idoneo ad identificare file contenenti opere musicali, cinematografiche o audiovisive rispetto alle quali il richiedente affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale (Corte giust. UE 24 novembre 2011, C-70/10, Scarlet, per il servizio di mere conduit; Corte giust. UE 16 febbraio 2012, C-360/10, Netlog, per il servizio di hosting). Non è il caso, qui, di approfondire il tema afferente la precisa individuazione degli elementi che condizionano l’obbligo, da parte del provider, di rimuovere, su richiesta dell’interessato, contenuti lesivi dei diritti di tale soggetto. È opportuno però ricordare come, nella materia della proprietà intellettuale, la Corte di giustizia abbia da tempo chiarito che, ove non abbia svolto un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati, il prestatore (nella specie, proprio G., con riguardo al servizio di posizionamento su internet) non possa essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o di disabilitare l’accesso agli stessi (Corte giust. UE, Grande sezione, 23 marzo 2010, C-236/08, C-237/07 e C-238/08, G. France, 120; in termini analoghi, con riferimento all’ipotesi di prestazione del servizio di gestione di un mercato on line, per l’ipotesi di acquisita conoscenza, da parte del provider, di fatti o circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità delle offerte in vendita, Corte giust. UE, Grande sezione, 12 luglio 2011, C-324/09, L’Orèal, 124).

2.4. – Analogo obbligo di intervento è stato riconosciuto nel campo del c.d. diritto all’oblio, che qui interessa: si è affermato, difatti, che il provider possa essere tenuto a sopprimere dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, i link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative alla stessa persona. In tale ambito l’obbligo di intervento trova fondamento nel rilievo per cui l’attività del motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti della rete secondo un determinato ordine di preferenza è da qualificare come trattamento di dati personali (Corte giust. UE 13 maggio 2014, Grande sezione, G. Spain e G., C.131/12, 41): con la conseguenza che compete allo stesso gestore di assicurare che l’attività svolta sia osservante delle prescrizioni della dir. 95/46/CE relativa al trattamento di tali dati. In tema di diritto all’oblio, dunque, l’obbligo di intervento dell’internet service provider presenta un fondamento diverso rispetto a quello che si delinea ove venga in questione la violazione dei diritti di proprietà intellettuale: in questa seconda ipotesi, infatti, viene in questione l’art. 14.1, lett. a), della dir. 2000/31/CE, secondo cui il prestatore del servizio può essere esonerato da qualsiasi responsabilità per i dati di natura illecita che ha memorizzato solo a condizione di non essere stato “effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita” (cfr. Corte giust. UE, C-324/09, cit., 119).

2.5. – L’obbligo di intervento dell’internet service provider presuppone, comunque, in entrambe le ipotesi (sia nel caso di violazione dei diritti di privativa, sia nel caso in cui venga in questione il trattamento dei dati personali), la precisa conoscenza, da parte dello stesso prestatore di servizi, dei contenuti passibili di rimozione. Con riferimento alla prima fattispecie la Corte di giustizia ha rilevato, in particolare, che in caso di segnalazione di contenuti illeciti le informazioni fornite al provider debbano essere sufficientemente circostanziate (cfr. sul punto Corte giust. UE, C-324/09, cit., 122, ove si sottolinea che una notifica di un’attività o di un’informazione illecita non può automaticamente far venire meno l’esonero dalla responsabilità del provider previsto all’art. 14 della direttiva 2000/31/CE, “stante il fatto che notifiche relative ad attività o informazioni che si asseriscono illecite possono rivelarsi insufficientemente precise e dimostrate”). Analogo principio è stato formulato con riguardo all’obbligo di intervento del gestore del motore di ricerca la cui attività incida sui diritti fondamentali della persona: infatti, detto gestore deve assicurare nell’ambito “delle sue possibilità” – oltre che delle sue responsabilità e delle sue competenze – il soddisfacimento delle prescrizioni della direttiva 95/46/CE, affinché le garanzie previste da quest’ultima possano sviluppare pienamente i loro effetti e possa essere effettivamente realizzata una tutela efficace e completa delle persone interessate, in particolare del loro diritto al rispetto della loro vita privata (Corte giust. UE, C-131/12, cit., 38). Quel che accomuna le due ipotesi è, dunque, la necessità, sul piano sostanziale, che il provider sia posto nella condizione di avere precisa contezza della situazione che, in base alle richiamate discipline, lo obbliga ad intervenire.

2.6. – Se ora ci si sposta sul piano processuale è agevole comprendere come l’esigenza di una precisa rappresentazione dei contenuti cui l’utente internet ha accesso a mezzo dell’attività del provider rilevi nell’economia dell’editio actionis e, segnatamente, quanto alla determinazione della cosa oggetto della domanda. L’indicazione dei contenuti di cui è domandata la rimozione è ovviamente indispensabile in quanto è attraverso tale indicazione che è possibile individuare il petitum mediato della pretesa; ma lo è anche in una diversa prospettiva, segnata dal rilievo per cui, come si è visto, nella materia della deindicizzazione, che qui interessa, l’obbligo di intervento del provider non è assoluto e illimitato, quanto, piuttosto, condizionato dalla possibilità, da parte di detto soggetto, di prendere atto dell’interferenza delle informazioni, reperibili attraverso l’attività del motore di ricerca, con i diritti fondamentali della persona, e quindi anche con quello alla riservatezza: in tal senso, una doglianza generica, che non identifichi le informazioni che ledano il diritto del singolo alla protezione dei propri dati personali si traduce in una domanda che non individua i contenuti rispetto al quale possa ritenersi esigibile, in concreto, l’intervento del prestatore del servizio. Ma non è tutto. Si è appena parlato di intervento esigibile in concreto, in quanto l’accoglimento della domanda di deindicizzazione postula un accertamento, da parte del giudice, circa la prevalenza che possa assumere, nella singola fattispecie, il diritto alla protezione dei dati personali rispetto all’interesse pubblico all’informazione (segnatamente, a quell’informazione che è più velocemente reperibile attraverso l’attività del motore di ricerca). La Corte di giustizia, pur riconoscendo che il provider è tenuto a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative alla stessa persona, ha precisato che la soppressione di link dall’elenco di risultati potrebbe, a seconda dell’informazione in questione, avere ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima; ha affermato che, in conseguenza, occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona di cui trattasi, derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, precisando, poi, che i diritti della persona interessata tutelati da tali articoli prevalgono, di norma, sull’interesse degli utenti di internet, anche se tale equilibrio può dipendere, in casi particolari, dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta, nonché dall’interesse del pubblico a disporre di tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica (Corte giust. UE, C-131/12, cit., 81). L’esigenza di tale bilanciamento, che parrebbe però modulato nel senso di una maggiore valorizzazione del diritto all’informazione, è stata ribadita dalla giurisprudenza più recente della Corte di giustizia: si è infatti precisato che il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere una richiesta di deindicizzazione vertente su link verso pagine web nelle quali compaiono informazioni relative a un procedimento giudiziario quando queste ultime si riferiscono ad una fase precedente del procedimento giudiziario considerato e non corrispondono più, tenuto conto dello svolgimento di quest’ultimo, alla situazione attuale, nei limiti in cui si constati, nell’ambito della verifica dei motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 8.4 della dir. 95/46/CE, che, tenuto conto di tutte le circostanze pertinenti della fattispecie, i diritti fondamentali della persona interessata, garantiti dagli artt. 7 e 8 della Carta, prevalgono sui diritti degli utenti di internet potenzialmente interessati, protetti dall’art. 11 di tale Carta (Corte giust. UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, G.C. e altri, C-136/17, 79). Pertanto la mancata individuazione delle informazioni, e cioè dei risultati ottenuti attraverso ricerche condotte a partire dal nome della persona, rende indeterminata la domanda anche perché questa deve rappresentare gli elementi fattuali – prima di tutto desumibili dalla precisa rappresentazione dei risultati che si intendono rimuovere -, che consentono di procedere al menzionato giudizio di bilanciamento tra i diritti in conflitto: giudizio che costituisce momento centrale della decisione avente ad oggetto la deindicizzazione e su cui, naturalmente, il convenuto deve poter prendere posizione.

2.7. – Posto che competeva all’odierno controricorrente, a mente dell’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 3, individuare i link accessibili attraverso il motore di ricerca di cui era domandata la rimozione, resta da chiarire se, a tal fine, si imponesse l’indicazione dei singoli URL, come dedotto da G.. Contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, la Corte di giustizia non fornisce utili spunti in detta direzione: l’affermazione, richiamata dalla ricorrente, secondo cui il gestore del motore di ricerca deve assicurare nell’ambito “delle sue possibilità” il soddisfacimento delle prescrizioni della direttiva 95/46/CE (Corte giust. UE, C-131/12, cit., 38) non implica affatto che, sul piano sostanziale, lo stesso gestore sia tenuto ad attivarsi solo nel caso in cui l’interessato identifichi gli URL dei contenuti che possono essere lesivi del suo diritto alla riservatezza. Non può quindi credersi che da detta pronuncia si tragga indirettamente la regola per cui, in sede processuale, la domanda vada in tal modo circostanziata. La soluzione additata da G. non trova, del resto, un migliore appiglio nella disciplina introdotta dalla dir. 2000/31/CE. E infatti, sempre nel campo sostanziale, con riguardo al tema della responsabilità dell’hosting provider per la lesione dei diritti di proprietà intellettuale, questa Corte di cassazione ha avuto modo di precisare che resta affidato al giudice del merito l’accertamento in fatto se, in riferimento al profilo tecnico-informatico, l’identificazione di contenuti (nella specie fonogrammi) diffusi in violazione dell’altrui diritto, sia possibile mediante l’indicazione del solo nome o titolo (della trasmissione, in quel caso) da cui sono tratti, oppure sia indispensabile, a tal fine, la comunicazione dell’indirizzo URL, alla stregua delle condizioni esistenti all’epoca dei fatti (Cass. 19 marzo 2019, n. 7708). Ora, è da ritenere che, in tema di deindicizzazione, gli URL rappresentino, di regola, lo strumento più idoneo ai fini dell’individuazione del petitum mediato della domanda. Non può però escludersi che, perlomeno in alcune circostanze, in assenza dei detti URL, i contenuti di cui è domandata in giudizio la rimozione siano suscettibili di identificazione attraverso il rinvio dell’atto introduttivo alle parole chiave impiegate e ai precisi contenuti cui l’utente ha accesso attraverso i link che appaiono come risultati della ricerca. Ciò potrà accadere quando i risultati reperibili attraverso l’azione del motore di ricerca sia tale da prestarsi a un processo di puntuale individuazione, così da permettere la trasposizione, nell’atto introduttivo, degli specifici contenuti che si assumono lesivi del diritto dell’attore, e di cui si chiede la rimozione. In tal senso, pare ad esempio difficile ipotizzare l’indeterminatezza della domanda di deindicizzazione, e la conseguente nullità dell’atto introduttivo del giudizio, nel caso in cui i risultati associati alla parola chiave siano due, ben distinti tra loro, e chi agisce in giudizio ne operi una appropriata descrizione. È ben vero che ÌURL consente una più precisa identificazione dell’informazione (giacché sul web contenuti che presentano diversità minime sono contrassegnati da URL differenti). È altrettanto vero, però, che la declaratoria di nullità della citazione postula una valutazione da compiersi caso per caso, nel rispetto di alcuni criteri di ordine generale, occorrendo, da un canto, tener conto che l’identificazione dell’oggetto della domanda va operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, e, dall’altro, che l’oggetto deve risultare “assolutamente” incerto: in particolare, quest’ultimo elemento deve essere vagliato in coerenza con la ragione ispiratrice della norma che impone all’attore di specificare sin dall’atto introduttivo, a pena di nullità, l’oggetto della sua domanda, ragione che, principalmente, risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora che di offrire al giudice l’immediata contezza del thema decidendum): con la conseguenza che non può prescindersi, nel valutare il grado di incertezza della domanda, dalla natura del relativo oggetto e dalla relazione in cui, con esso, si trovi eventualmente la controparte (se tale, cioè, da consentire, comunque, un’agevole individuazione di quanto l’attore richiede e delle ragioni per cui lo fa, o se, viceversa, tale da rendere effettivamente difficile, in difetto di maggiori specificazioni, l’approntamento di una precisa linea di difesa) (Cass. 12 novembre 2003, n. 17023; cfr. pure, più di recente, Cass. 29 gennaio 2015, n. 1681). In tale prospettiva, può senz’altro ipotizzarsi l’esistenza di situazioni in cui l’indicazione delle parole chiave e la puntuale descrizione delle singole informazioni che si assumono lesive del diritto dell’attore sia sufficiente per individuare i contenuti cui si riferisce la domanda di deindicizzazione e per definire con precisione la materia del contendere: che è l’ambito in cui deve poter spiegare le proprie difese il convenuto, il quale gestisce il motore di ricerca attraverso cui si producono i risultati da rimuovere.

2.8. – In conclusione, ai fini della determinazione del petitum mediato, la domanda di deindicizzazione esige la precisa individuazione dei risultati della ricerca che l’attore intende rimuovere, e quindi, normalmente, l’indicazione degli indirizzi telematici, o URL, dei contenuti rilevanti a tal fine, anche se non è escluso che una puntuale rappresentazione delle singole informazioni che sono associate alle parole chiave possa rivelarsi, secondo le circostanze, idonea a dare precisa contezza della cosa oggetto della domanda, in modo da consentire al convenuto, gestore del motore di ricerca, di apprestare adeguate e puntuali difese sul punto.

2.9. – Nel caso in esame, la domanda di deindicizzazione risultava essere totalmente indeterminata, avendo l’odierno ricorrente richiesto pronunciarsi un ordine di rimozione di “tutti i risultati che appaiono in seguito alla digitazione delle parole ‘Don B.R. ‘” (cfr. sentenza impugnata, pag. 2).

  1. – Il Collegio ritiene, perciò, che la sentenza impugnata vada cassata, con rinvio al Tribunale di Perugia, il quale dovrà trattare e decidere la causa promuovendo previamente la sanatoria dell’atto introduttivo, a norma dell’art. 164 c.p.c., comma 5. Al giudice del rinvio è rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Perugia.