Nota di Giovanni Patrizi.
1.In via preliminare è opportuno inquadrare la fattispecie del “diritto di critica” quale ipotesi scriminante della condotta, in ipotesi censurabile, del lavoratore. Come noto, tale diritto trova fondamento nella libertà di manifestazione del pensiero protetta dall’art. 21 Cost. e dall’art. 1 l. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”), libertà che deve comunque contemperarsi con i doveri di fedeltà, correttezza e buona fede (artt. 2105, 1175 e 1375 c.c.) che tutelano i diritti della personalità all’onore e alla reputazione del datore di lavoro. Il bilanciamento tra gli opposti interessi comporta che la divulgazione all’esterno di fatti o accuse da parte del lavoratore nei confronti dell’imprenditore debba avvenire nel rispetto dei limiti di continenza formale (legata alla rilevanza costituzionale dei beni che si intendono tutelare attraverso la critica) e di continenza sostanziale (connessa alla veridicità dei fatti denunciati e alla correttezza del linguaggio utilizzato).
Occorre quindi che il lavoratore non faccia un uso strumentale, distorto, calunnioso delle facoltà connesse al diritto di criticare fatti accaduti all’interno dell’azienda e si astenga dall’intraprendere iniziative volte a dare pubblicità di quanto portato a conoscenza delle autorità competenti (attraverso denunce penali o amministrative).
La critica rivolta da un lavoratore, concernente fatti specifici, con argomentazioni fondate su rilievi obiettivi e documentati, non diffusa a soggetti estranei all’organizzazione gerarchica né utilizzata con toni ed espressioni sconvenienti, è legittimo esercizio del diritto di critica
2. Occorre anche far riferimento al “diritto al dissenso”, quale fattispecie di esonero da responsabilità del lavoratore, definendolo come una manifestazione di volontà divergente da quella altrui che può svolgersi anche attraverso la formulazione di critiche destinate a spiegare le ragioni della mancanza di consenso.
Diritto di critica e diritto al dissenso, pertanto, sarebbero fattispecie non coincidenti seppur accomunate dalla necessità del rispetto dei limiti di continenza formale e sostanziale.
In concreto tale distinzione tra le due figure appare peraltro poco rilevante dal momento che nelle pronunce giurisprudenziali i diritti di critica e dissenso vengono di fatto accostati ed accompagnati l’uno all’altro (si veda, ad esempio, Cassazione 31 maggio 2022, n. 17689).
Ora, se il dissentire costituisce una diversità di parere e di vedute, vi è da chiedersi se esso, laddove espresso dal lavoratore in maniera consona, costituisca un disvalore (passibile di censura disciplinare) o non sia piuttosto espressione di un suo interesse positivo alle sorti dell’azienda, nel cui ambito egli pur sempre svolge ed esplica la sua personalità secondo quanto previsto e tutelato dall’art. 2 Cost.
La norma di cui all’art. 2105 c.c. ha la funzione essenziale di tutelare la posizione economica dell’impresa nel mercato, e la giurisprudenza va interpretando l’elemento fiduciario oggetto di tale disposizione in maniera evolutiva, abbracciando una varietà sempre maggiore di ipotesi aventi tutte come minimo comune denominatore la sempre più marcata corresponsabilità ricondotta in capo al lavoratore rispetto alle sorti dell’impresa all’interno della quale egli opera.
Se quindi in capo al prestatore di lavoro è ricondotta la (cor)responsabilità nella salvaguardia degli interessi aziendali, una critica costruttiva espressa dallo stesso rispetto ad una determinata situazione imprenditoriale in atto dovrebbe essere vista come atteggiamento di cooperazione del lavoratore al fine di migliorare l’organizzazione dell’attività.
In una prospettiva di sviluppo del sistema delle relazioni lavorative, pertanto, il “dissenso costruttivo” del dipendente, ben lungi dal costituire una violazione del dovere di fedeltà all’imprenditore, andrebbe piuttosto qualificato quale espressione più nobile di fedeltà all’organizzazione d’impresa, come tale quindi meritevole di essere preso in considerazione in quanto sintomo della «collaborazione nell’impresa» alla quale il prestatore di lavoro è chiamato dall’art. 2094 c.c.
3.Con sentenza n. 28711 del 4 luglio 2023, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che non sussiste il reato di diffamazione il pubblico funzionario che, nell’esercizio del diritto di critica e del diritto al dissenso in ambito lavorativo, in una comunicazione al proprio direttore generale si dolga del suo comportamento, senza ricorrere ad espressioni aspre, in ogni caso del tutto legittimo purché compatibili con il principio della continenza verbale.
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