(Studio legale G. Patrizi, G.Arrigo, G. Dobici)
Corte di cassazione. Ordinanza 28 maggio 2024, n. 14933.
Domanda di superiore inquadramento. Accertamento dei comportamenti vessatori e persecutori qualificabili come mobbing. Erronea interpretazione delle norme del CCNL di categoria applicabile. Rigetto.
“[…] La Corte di cassazione
(omissis)
Rilevato che
1. Il Tribunale di Foggia, con pronuncia del 1.2.2014, rigettava la domanda proposta da A.R., dipendente del B.N. spa già S.P. B.N. spa con mansioni di commesso, diretta ad ottenere il suo diritto ad essere inquadrato nella 2^ categoria grado II a far data dal luglio 1986 e nella qualifica di impiegato di 1^ classe del CCNL Aziende di credito a far data dal luglio 1993.
2. Con distinta sentenza del 13.2.2015 lo stesso Tribunale dichiarava inammissibile la domanda proposta dal R. nei confronti di I.S. spa (già S.P.I. spa) volta ad ottenere l’accertamento dei comportamenti vessatori e persecutori qualificabili come mobbing da parte della società; il riconoscimento sia del danno patrimoniale subito alla professionalità, per mancata percezione del bonus “risultati conseguiti” sia del danno non patrimoniale alla salute, alla vita di relazione, alla personalità e per le innumerevoli sofferenze morali patite.
3. Presentati gravami avverso entrambe le decisioni la Corte di appello di Bari, riuniti i giudizi, confermava le impugnate pronunce, sia pure con integrazioni motivazionali.
4. In particolare, i giudici di seconde cure rilevavano che:
a) dalla comparazione delle relative declaratorie contrattuali e dall’esame dei compiti concretamente svolti dal R., mancava la prova che le mansioni espletate fossero in “maniera prevalente” superiori a quelle della categoria di commesso ove era inquadrato;
b) la domanda di risarcimento dei danni era coperta da precedente giudicato fino al 2003;
c) per il periodo successivo, dalle testimonianze raccolte non si evinceva l’ascrivibilità alla Banca di atteggiamenti che avrebbero potuto dare luogo a responsabilità datoriale per tutti i danni pretesi dal R.
5. Avverso la decisione di secondo grado A.R. proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resisteva con controricorso I.S. spa.
6. Le parti hanno depositato memorie.
7. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Considerato che
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 5 cpc, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 cc, 116 cc e degli artt. 11, 13 e 18 del CCNL per i Dipendenti delle aziende di credito del 30.4.1987 e degli artt. 13, 15 e 20 del CCNL per i medesimi dipendenti del 23.11.1990 nonché l’omesso esame circa un pluralità di fatti decisivi, perché la Corte territoriale aveva errato, in relazione alla sua domanda di superiore inquadramento, nella interpretazione delle norme contrattuali collettive, affermando che rientrava nella declaratoria della categoria dei commessi anche lo svolgimento di mansioni che richiedevano una, ancorché limitata, applicazione intellettuale e, conseguentemente, per avere errato nel ritenere che le mansioni svolte da esso ricorrente fossero riconducibili a quelle proprie della categoria dei commessi e non invece a quella superiore degli Impiegati di 2^ categoria.
3. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3, 4 e 5 cpc, si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2103 e 2697 cc, degli artt. 11 e 13 del CCNL per i Dipendenti delle aziende di credito del 30.4.1987 e degli artt. 13 e 15 del CCNL per i medesimi dipendenti del 23.11.1990, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 cpc, ai sensi dell’art. 360 co. n. 4 cpc nonché l’omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, perché la Corte territoriale, attraverso un errato inquadramento delle mansioni concretamente espletate dal R., non aveva, a decorrere dal 2003, correttamente svolto una valutazione circa l’equivalenza di compiti affidati con quelli rientranti nella categoria di commesso; inoltre, si obietta che la Corte di appello, incorrendo nel vizio di travisamento della prova, aveva esteso gli effetti temporali del contenuto oggettivo della testimonianza di tale R.D. (riferita al periodo 1999 – 2004) sino al 2010, così riconducendo le mansioni svolte erroneamente a quelle di commesso;
si deduce, poi, la violazione dell’art. 2697 cc, in tema di ripartizione dell’onere della prova, per non avere rilevato la Corte distrettuale che la datrice di lavoro non aveva fornito alcuna dimostrazione dell’esatto adempimento dell’obbligo contrattuale sancito dall’art. 2103 cc; si sostiene, infine, che esso ricorrente aveva specificato, negli atti processuali, a differenza di quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, le mansioni espletate antecedentemente al luglio 2003 e che non era stato considerato un fatto decisivo rappresentato dalla mancata corresponsione, dal lontano 1997, del bonus per i risultati conseguiti e dalla mancata comunicazione, dal 2007, delle ragioni di tale mancata corresponsione.
4. I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro interferenza, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
5. Sono inammissibili tutte le censure dirette ad ottenere una diversa spiegazione delle risultanze istruttorie. Ora, come è noto, i motivi del ricorso per cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o consistere in censure che investano la ricostruzione della fattispecie concreta o che siano attinenti al difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice di merito, spettando solo a questo giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass., 6 aprile 2011, n. 7921; Cass., 18 marzo 2011, n. 6288).
6. Analogamente sono inammissibili tutte le doglianze proposte ex art. 360 n. 5 cpc. Invero, deve precisarsi che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, come sopra detto, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 27415/2018; Cass. 19881/2014).
7. Nella fattispecie, la Corte territoriale ha esaminato tutte le attività svolte dal R. (punto 17 della gravata sentenza e, quindi, anche i fatti asseritamente denunciati omessi) ritenendo, però, con accertamento di merito esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, che solo l’attività di compilazione a mano delle distinte, con relativo abbinamento dei valori, con determinazione autonoma dell’importo della affrancatura dei vari plichi e con l’effettuazione, inoltre, della quadratura giornaliera, era differente dalle mansioni proprie del commesso ma che mancava la prova che le suddette mansioni fossero prevalenti rispetto a quelle della categoria di commesso.
8. Per ciò che concerne il periodo successivo al 2003, i giudici di seconde cure hanno evidenziato che il R. non aveva indicato circostanze idonee a dimostrare una “deminutio”, rispetto all’inquadramento di commesso, patita con riferimento alle nuove mansioni di assegnazione per cui doveva ritenersi che il dipendente avesse continuato a svolgere le mansioni di competenza e che un eventuale “svuotamento” delle stesse era stato dovuto alla radicale trasformazione organizzativa della Banca ovvero all’atteggiamento dello stesso R.
9. Analogamente, dando atto di un pregresso giudicato intervenuto tra le parti fino al 2003 (in questa sede non specificamente censurato), hanno accertato l’insussistenza di elementi per ritenere fondata la vantata pretesa di risarcimento dei danni per mobbing non ravvisando condotte illecite della datrice di lavoro per il periodo 2003 – 2010.
10. Si tratta di accertamenti di merito ove nessuna incongruità o lacuna emerge dal ragionamento svolto nella sentenza impugnata, nella quale si dà pienamente conto dell’iter logico seguito, strettamente ancorato all’emergenze istruttorie con riferimento a tutti le questioni oggetto della domanda ante e post 2003: corretto inquadramento, demansionamento e risarcimento dei danni per mobbing.
11. Deve, poi, ribadirsi che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cc si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata non avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cpc (Cass. n. 19064/2006; Cass. n. 2935/2006), con i relativi limiti di operatività ratione temporis applicabili.
12. In tema, inoltre, di ricorso per cassazione, la questione della violazione o falsa applicazione degli art. 115 e 116 cpc non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. n. 20867/2020; Cass. n. 27000 del 2016; Cass. n. 13960 del 2014): in questo caso le suddette ipotesi non sono ravvisabili nel caso in esame.
13. Sono, invece, infondate le doglianze riguardanti una erronea interpretazione delle norme del CCNL di categoria applicabile al caso in esame e concernente la problematica circa l’individuazione dei tratti distintivi tra la figura di impiegato di 2^ categoria e di commesso, qualora quest’ultimo abbia svolto una attività che esula da quelle proprie della categoria di appartenenza.
14. I giudici di seconde cure, infatti, hanno correttamente sottolineato che lo svolgimento di mansioni che richiedono applicazione intellettuale non eccedente la semplice diligenza di esecuzione può costituire motivo per il riconoscimento nella categoria di impiegato di 2^ categoria solo se svolte in maniera prevalente, come riportato testualmente dalla clausola contrattuale (Sono inoltre impiegati di 2^: […] e in genere coloro che svolgono prevalentemente mansioni che richiedano applicazione intellettuale non eccedente la semplice diligenza di esecuzione).
15. Tale interpretazione è pienamente rispondente ai canoni ermeneutici previsti dagli artt. 1362 e 1363 cc e la Corte territoriale si è conformata alle regole secondo cui il procedimento logico giuridico diretto alla determinazione dell’ inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, ed è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da logica e adeguata motivazione (v. ex plurimis, Cass., 28 aprile 2015, n. 8589; Cass., 31 dicembre 2009, n. 28284; Cass., 30 ottobre 2008, nn. 26233 e 26234), per cui neanche alcuna violazione dell’art. 2103 cc è ravvisabile nell’operato dei giudici di seconde cure.
16. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
17. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
18. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso […]”.
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