Donne afghane. Protezione internazionale. Misure discriminatorie nei confronti di ragazze e donne. Conclusioni dell’Avvocato generale nelle cause riunite C-608/22 e C-609/22. Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl e a.
Secondo l’Avvocato generale Richard de la Tour, le misure discriminatorie adottate nei confronti delle donne afghane dal regime dei talebani costituiscono, per il loro effetto cumulativo, una persecuzione. Nulla osta a che uno Stato membro riconosca, per tali donne, la sussistenza di un fondato timore di persecuzione in ragione del loro genere, senza dover ricercare altri elementi propri della loro situazione personale
1.Dopo il ritorno del regime dei talebani in Afghanistan, la situazione delle donne si è deteriorata a tal punto che si può parlare di negazione vera e propria della loro identità.
Tale regime è caratterizzato da una somma di atti e di misure discriminatori che limitano o addirittura vietano, in particolare, il loro accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, il loro esercizio di un’attività professionale, la loro partecipazione alla vita pubblica e politica, la loro libertà di movimento nonché la pratica di un’attività sportiva, che le privano della protezione contro la violenza di genere e la violenza domestica e impongono loro di coprirsi interamente il corpo e il viso. Una corte austriaca chiede alla Corte di giustizia se un tale trattamento possa essere qualificato come atto di persecuzione che giustifica il riconoscimento dello status di rifugiato.
Essa chiede inoltre se, ai fini della valutazione individuale della domanda di protezione internazionale, uno Stato membro possa concludere che sussiste un timore fondato di subire una persecuzione tenendo conto unicamente del genere della richiedente.
Nelle Conclusioni presentate il 9 novembre 2023, l’Avvocato generale Jean Richard de la Tour considera che la somma di atti e di misure discriminatori adottati nei confronti delle ragazze e delle donne dai talebani in Afghanistan costituisce una persecuzione. Infatti, a suo avviso, tali atti e tali misure, per la gravità delle privazioni che comportano, possono compromettere la loro integrità fisica o mentale, al pari delle minacce più dirette alla loro vita. Per il loro effetto cumulativo e per la loro applicazione deliberata e sistematica, tali misure dimostrano l’istituzione di un’organizzazione sociale basata su un regime di segregazione e di oppressione nei confronti delle ragazze e delle donne, nel quale queste sono escluse dalla società civile e private del diritto di condurre una vita decente e dignitosa nel loro paese d’origine.
Tali misure portano quindi a negare in modo flagrante e con accanimento i diritti più essenziali delle ragazze e delle donne, a motivo del loro genere, privandole della loro identità e rendendo intollerabile la loro vita quotidiana. L’Avvocato generale considera altresì che tale regime è attuato nei loro confronti per il solo fatto di stare sul territorio, indipendentemente dalla loro identità o dalla loro situazione personale. Sebbene una donna possa non essere colpita da una o più delle misure di cui trattasi in ragione di caratteristiche che le sono proprie, la stessa rimane esposta a restrizioni e privazioni che, prese singolarmente o considerate nel loro insieme, raggiungono un livello di gravità equivalente a quello richiesto per essere qualificate come persecuzioni. In tali circostanze, nulla osta, a suo avviso, a che uno Stato membro ritenga che non sia necessario dimostrare che la richiedente sia presa di mira in ragione di tratti distintivi diversi dal proprio genere.
2. CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE JEAN RICHARD DE LA TOUR, presentate il 9 novembre 2023 (1).
Cause riunite C‑608/22 e C‑609/22. AH (C‑608/22), FN (C‑609/22) con l’intervento di Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl [domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria)]
«Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Direttiva 2011/95/UE – Norme relative al riconoscimento della protezione internazionale e al contenuto di tale protezione – Articolo 9, paragrafo 1, lettera b) – Nozione di “atti di persecuzione” – Somma di atti e di misure discriminatori adottati nei confronti delle ragazze e delle donne – Modalità di valutazione del livello di gravità richiesto – Articolo 4, paragrafo 3 – Valutazione individuale della domanda – Presa in considerazione del genere, a prescindere da altri elementi propri della situazione personale – Margine di discrezionalità degli Stati membri»
Introduzione
1. Dopo il ritorno del regime dei talebani in Afghanistan, la situazione delle ragazze e delle donne di tale paese si è rapidamente deteriorata al punto che si può parlare di negazione vera e propria della loro identità. Per evitare di subire detta situazione intollerabile, alcune ragazze e donne afghane fuggono dal loro paese o rifiutano di ritornarvi e vengono a cercare asilo, in particolare, nell’Unione europea. Di fronte a tale situazione, le autorità degli Stati membri sono incerte se concedere lo status di rifugiato a tali donne semplicemente in ragione del loro sesso o se ricercare individualmente la sussistenza di un rischio di persecuzioni.
2. La presente causa consentirà alla Corte di chiarire detta situazione.
3. Più precisamente, con i presenti rinvii pregiudiziali, la Corte è invitata a precisare le modalità di valutazione della sussistenza di un timore fondato di subire un «atto di persecuzione», ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE (2), quando la domanda di protezione internazionale sia presentata da una donna per il motivo che essa rischia di essere esposta, in caso di ritorno nel suo paese d’origine, ad un cumulo di atti e di misure discriminatori che limitano l’esercizio dei suoi diritti civili, politici, economici, sociali e culturali.
4. In particolare, il Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria) chiede alla Corte se atti come quelli adottati dal regime dei talebani a partire dal 15 agosto 2021, che restringono l’accesso delle ragazze e delle donne all’istruzione, all’esercizio di un’attività professionale e all’assistenza sanitaria, che limitano la loro partecipazione alla vita pubblica e politica nonché la loro libertà di movimento e di pratica sportiva, che impongono loro, inoltre, di coprirsi integralmente il corpo e il viso e che le privano della protezione contro la violenza di genere e la violenza domestica, possano essere considerati, tenuto conto del loro effetto cumulativo e della loro intensità, un «atto di persecuzione» ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95. In tale contesto, la Corte è quindi invitata a completare i principi da essa già enunciati nelle sentenze del 5 settembre 2012, Y e Z (3), e del 7 novembre 2013, X e a. (4), quanto all’interpretazione della nozione di «atti di persecuzione» ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/83/CE (5), che è stata abrogata e sostituita dalla direttiva 2011/95, essendo l’articolo 9 di tali due direttive redatto in modo quasi identico.
5. Inoltre, il giudice del rinvio chiede alla Corte se, nell’ambito dell’esame della situazione individuale e delle circostanze personali della richiedente, prescritto ai fini della valutazione individuale della domanda di protezione internazionale, l’autorità competente possa concludere che sussiste un timore fondato che la richiedente subisca un simile atto di persecuzione a causa del suo genere, senza dover ricercare altri elementi propri della sua situazione personale.
6. Tale seconda questione, relativa alla portata della valutazione individuale richiesta dal legislatore dell’Unione all’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, si inserisce in un contesto particolare. Infatti, alcuni Stati membri, come i Regni di Svezia (6) e di Danimarca (7) o la Repubblica di Finlandia (8), hanno già deciso di concedere lo status di rifugiato alle cittadine afghane in modo quasi automatico, semplicemente a causa del loro genere, inseriendosi quindi nella falsariga degli Stati che, fin dall’agosto 2021, prevedevano l’attuazione del regime di protezione temporanea istituito dalla direttiva 2001/55/CE (9). L’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA) conclude, dal canto suo, nella sua ultima relazione informativa sull’Afghanistan (2023), che un timore fondato di persecuzione sarà in generale ritenuto sussistente per le ragazze e le donne afghane alla luce delle misure adottate dal regime dei talebani (10), mentre l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) sottolinea, nella sua dichiarazione rilasciata nel contesto dei presenti rinvii pregiudiziali, che sussiste una presunzione di riconoscimento dello status di rifugiato nei confronti delle ragazze e delle donne afghane (11).
7. Nelle presenti conclusioni, esporrò le ragioni per le quali ritengo che le misure menzionate dal giudice del rinvio costituiscano un «atto di persecuzione» ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95. Spiegherò che la discriminazione grave, sistematica e istituzionalizzata esercitata nei confronti delle ragazze e delle donne afghane ha la conseguenza di privare queste ultime dei loro diritti più essenziali in una vita sociale e pregiudica il pieno rispetto della dignità umana, quale sancito dall’articolo 2 TUE e dall’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (12).
8. Esporrò inoltre i motivi per i quali ritengo che nulla osti a che l’autorità competente stabilisca la sussistenza di un timore fondato di persecuzione semplicemente in ragione del genere della richiedente, senza dover ricercare altri elementi propri della sua situazione personale.
I. Contesto normativo
A. La CEDU
9. L’articolo 15 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (13), intitolato «Deroga in caso di stato d’urgenza», ai paragrafi 1 e 2 prevede quanto segue:
«1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.
2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2 [“Diritto alla vita”], salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3 [“Proibizione della tortura”], 4 § 1 [“Proibizione della schiavitù”] e 7 [“Nulla poena sine lege”]».
B. Direttiva 2011/95
10. Il considerando 14 della direttiva 2011/95 così recita:
«Gli Stati membri dovrebbero avere facoltà di stabilire o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli delle norme stabilite nella presente direttiva per i cittadini di paesi terzi o per gli apolidi che chiedono protezione internazionale a uno Stato membro, qualora tale richiesta sia intesa come basata sul fatto che la persona interessata è o un rifugiato ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione [relativa allo status dei rifugiati (14), come integrata dal protocollo sullo status dei rifugiati (15) (in prosieguo: la “Convenzione di Ginevra”)] o una persona avente titolo a beneficiare della protezione sussidiaria».
11. L’articolo 2, lettera d), di tale direttiva prevede quanto segue:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
(…)
d) “rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12».
12. L’articolo 3 di detta direttiva, intitolato «Disposizioni più favorevoli», così dispone:
«Gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale, purché siano compatibili con le disposizioni della presente direttiva».
13. L’articolo 4 della direttiva 2011/95, intitolato «Esame dei fatti e delle circostanze», è così formulato:
«1. Gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale. Lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda.
2. Gli elementi di cui al paragrafo 1 consistono nelle dichiarazioni del richiedente e in tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, estrazione, anche, ove occorra, dei congiunti, identità, cittadinanza/e, paese/i e luogo/luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d’asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di viaggio nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale.
3. L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:
a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e le relative modalità di applicazione;
b) delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;
c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;
(…)».
14. L’articolo 9 di tale direttiva, intitolato «Atti di persecuzione», ai paragrafi 1 e 2 prevede quanto segue:
«1. Sono atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra gli atti che:
a) sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEDU]; oppure
b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).
2. Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:
a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;
b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
(…)
f) atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia».
II. Fatti e questioni pregiudiziali
15. AH, ricorrente nel procedimento principale nella causa C‑608/22, è una cittadina afghana nata nel 1995. Dopo essere entrata in Austria il 31 agosto 2015, ha presentato in tale Stato membro una domanda di protezione internazionale. A sostegno di tale domanda, ella ha affermato, tra l’altro, di essere fuggita per sottrarsi ad un matrimonio forzato pianificato dal padre. La ricorrente, avente all’epoca circa 14 anni, sarebbe fuggita con la madre in Iran, dove avrebbe vissuto con le sue due sorelle fino al 2015. Ella avrebbe presentato la propria domanda in Austria perché suo marito, con cui si sarebbe sposata durante un soggiorno in Grecia, viveva già lì.
16. FN, ricorrente nel procedimento principale nella causa C‑609/22, è anch’ella una cittadina afghana, nata nel 2007. Ha presentato una domanda di protezione internazionale in Austria nel 2020. Non avrebbe mai vissuto in Afghanistan. Avrebbe da ultimo vissuto con la madre e le due sorelle in Iran, paese da cui sarebbe fuggita per il fatto che i membri della sua famiglia non disponevano lì di un permesso di soggiorno e non erano autorizzati a lavorare e che lei non poteva frequentare la scuola. Ha affermato che, in caso di ritorno in Afghanistan, sarebbe esposta, in quanto donna, al rischio di rapimento e non potrebbe andare a scuola e che rischierebbe di non poter provvedere alle proprie necessità in assenza di una famiglia in loco. A sostegno della propria domanda, FN ha dichiarato inoltre di voler vivere liberamente e disporre degli stessi diritti degli uomini.
17. Il Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl (Ufficio federale per il diritto degli stranieri e il diritto di asilo, Austria) ha ritenuto che gli argomenti addotti da AH in merito al motivo di fuga non fossero credibili e che FN non fosse esposta a un rischio effettivo di persecuzione in Afghanistan, alla luce delle relazioni disponibili al momento della decisione, vale a dire nell’ottobre 2020. Tale autorità ha quindi rifiutato di riconoscere lo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 in entrambi i casi. Essa ha tuttavia concesso ad AH e FN il beneficio della protezione sussidiaria con la motivazione che, in assenza di una rete sociale in Afghanistan, esse sarebbero esposte a difficoltà di natura economica e sociale qualora tornassero in tale paese.
18. AH e FN hanno ciascuna proposto un ricorso al Bundesverwaltungsgericht (Tribunale amministrativo federale, Austria) avverso le decisioni di rifiuto di riconoscere loro lo status di rifugiato, sostenendo in particolare che, in seguito alla presa di potere da parte del regime dei talebani nell’estate del 2021, la situazione in Afghanistan era cambiata in modo tale che le donne erano ormai esposte a persecuzioni di ampia portata. FN ritiene che il semplice fatto di essere una donna afghana debba portare al riconoscimento dello status di rifugiato, come avrebbe ammesso il Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa) nella sua giurisprudenza risalente all’epoca della precedente presa di potere da parte dei talebani.
19. Il Bundesverwaltungsgericht (Tribunale amministrativo federale) ha respinto entrambi i ricorsi in quanto infondati, osservando, in particolare che, considerate le condizioni di vita delle ricorrenti in Austria, esse non avevano adottato uno «stile di vita occidentale» che fosse divenuto una componente talmente essenziale della loro identità che sarebbe stato impossibile per loro rinunciarvi al fine di sfuggire alle minacce di persecuzione nel loro paese d’origine.
20. AH e FN hanno ciascuna proposto un ricorso per cassazione («Revision») dinanzi al Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa), sostenendo nuovamente che la situazione delle donne sotto il nuovo regime talebano giustificava, di per sé, il riconoscimento alle medesime dello status di rifugiato.
21. Alla luce di tali circostanze, il Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, identiche in entrambe le cause:
«1) Se si debba considerare che la somma di misure adottate, promosse o tollerate in uno Stato da un attore che di fatto detiene il potere governativo e che consistono in particolare nella circostanza che le donne
– non possono ricoprire cariche politiche né partecipare a processi decisionali di natura politica;
– non hanno a disposizione mezzi giuridici per proteggersi da violenza di genere e violenza domestica;
– sono generalmente esposte al rischio di matrimoni forzati, benché l’attore che di fatto detiene il potere governativo vieti tale pratica; alle donne non viene assicurata alcuna protezione efficace contro dette unioni, che vengono talvolta celebrate anche con la partecipazione di soggetti che di fatto esercitano poteri pubblici, ben sapendo che si tratta di matrimoni forzati;
– non possono svolgere alcuna attività lavorativa, se non in misura limitata e in prevalenza entro le mura domestiche;
– sono penalizzate nell’accesso alle strutture sanitarie;
– sono escluse dal sistema di istruzione, del tutto o in larga misura (nel senso che per le bambine è previsto unicamente l’accesso all’insegnamento primario);
– non possono comparire in pubblico o muoversi liberamente, specie se si allontanano oltre una certa distanza dal luogo di residenza, senza essere accompagnate da un uomo (a cui siano legate da un certo grado di parentela);
– in pubblico devono coprire completamente il loro corpo e indossare il velo;
– non possono praticare uno sport,
abbia un impatto, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva [2011/95], sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a) dell’articolo 9, paragrafo 1, della medesima direttiva.
2) Se, ai fini dell’attribuzione dello status di beneficiaria di asilo, sia sufficiente che le misure in questione abbiano impatto su una donna nel suo paese di origine semplicemente a motivo del suo genere o se, per determinare l’impatto su una donna delle misure previste, da intendersi nella loro somma, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva [2011/95], occorra esaminare la sua situazione individuale».
22. Con decisione del presidente della Corte del 13 ottobre 2022, le due cause sono state riunite ai fini delle fasi scritta e orale del procedimento nonché della decisione della Corte.
23. Hanno presentato osservazioni scritte le ricorrenti, i governi austriaco, belga, spagnolo e francese nonché la Commissione europea.
III. Analisi
24. Conformemente all’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, il riconoscimento dello status di rifugiato implica che il cittadino del paese terzo interessato abbia un timore fondato di essere perseguitato nel suo paese d’origine, per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale.
25. Per concedere lo status di rifugiato, l’autorità competente deve quindi giungere alla conclusione che sussista una persecuzione o un rischio di persecuzione nei confronti dell’interessato.
26. Da un lato, dal combinato disposto degli articoli 9 e 10 della direttiva 2011/95 risulta che la nozione di «persecuzione» è composta da due elementi.
27. Il primo è l’elemento materiale. Si tratta dell’«atto di persecuzione» definito all’articolo 9 di tale direttiva. Detto elemento è determinante perché è alla base del timore dell’individuo e spiega l’impossibilità o il rifiuto di quest’ultimo di avvalersi della protezione del suo paese d’origine. Con la sua prima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio intende quindi stabilire se le misure discriminatorie adottate dal regime dei talebani nei confronti delle ragazze e delle donne raggiungano il livello di gravità richiesto dall’articolo 9 di detta direttiva per essere qualificate come «atti di persecuzione». Il secondo è l’elemento intellettuale. Si tratta del motivo, enunciato all’articolo 10 della medesima direttiva, per il quale è commesso o applicato l’atto o l’insieme di atti o di misure. Quest’ultimo elemento non è in discussione nelle presenti cause.
28. Dall’altro lato, l’autorità competente deve esaminare, sulla base della valutazione dei fatti e delle circostanze relativi alla domanda di protezione internazionale richiesta dall’articolo 4 della direttiva 2011/95, se il timore del richiedente di essere perseguitato, una volta tornato nel suo paese d’origine, sia fondato. Con la sua seconda questione pregiudiziale, il giudice del rinvio si chiede se, alla luce in particolare dell’articolo 4, paragrafo 3, di tale direttiva, una donna afghana possa beneficiare della protezione internazionale senza che si proceda a un esame individuale della sua situazione, tenuto conto del fatto che talune donne potrebbero non respingere, o addirittura approvare, le misure adottate o tollerate dai talebani, le quali potrebbero quindi non incidere sulla situazione concreta di tali donne.
A. La portata della nozione di «atti di persecuzione» ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 (prima questione)
29. Con la sua prima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, alla Corte se l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che gli atti e le misure discriminatori che impongono alle ragazze e alle donne severe restrizioni alla loro libertà di movimento, alla loro partecipazione alla vita pubblica e politica, al loro accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, al loro esercizio di un’attività professionale e di un’attività sportiva, che le privano, inoltre, di protezione contro la violenza di genere e contro la violenza domestica e che impongono alle stesse un abbigliamento che copre interamente il loro corpo e il loro viso, costituiscono un «atto di persecuzione».
1. Osservazioni preliminari
30. Nelle loro osservazioni, AH, il governo belga e la Commissione esprimono dubbi sulla portata di tale questione.
31. In primo luogo, la Commissione e il governo belga sottolineano che non spetta alla Corte pronunciarsi, in abstracto, sul punto se la somma delle misure espressamente menzionate dal giudice del rinvio costituisca un «atto di persecuzione» ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95. È ben vero che, a norma dell’articolo 4 di tale direttiva e dell’articolo 10, paragrafo 3, della direttiva 2013/32/UE (16), tale valutazione rientra nella responsabilità esclusiva dell’autorità competente, la quale deve valutare le esigenze di protezione internazionale del richiedente al termine di un esame adeguato, completo e aggiornato.
32. Tuttavia, non ritengo che la prima questione pregiudiziale sia posta in tali termini. Infatti, il giudice del rinvio mira soltanto a comprendere in quale modo occorra valutare la gravità di dette misure risultante dal loro effetto cumulativo, in confronto al livello di gravità richiesto dall’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95. Come dimostra l’uso della locuzione «in particolare» nella formulazione di tale questione, detto giudice non ha inteso elencare l’insieme delle misure alle quali possono essere esposte le cittadine afghane in caso di ritorno nel loro paese d’origine. La portata di tali misure si amplia costantemente, come risulta dall’ultima relazione informativa sull’Afghanistan (2023) dell’AUEA (17) nonché dal recente decreto adottato dal regime dei talebani che dispone la chiusura degli istituti di bellezza, unico luogo «pubblico» in cui le donne erano ancora autorizzate a riunirsi. Il giudice del rinvio è consapevole del fatto che, sebbene dette misure, considerate singolarmente, meritino riprovazione, esse non costituiscono una violazione di un diritto assoluto tra quelli menzionati all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU e per i quali non è possibile alcuna deroga, e che, considerate nel loro insieme, esse potrebbero non essere ritenute tali da raggiungere il livello di gravità richiesto ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della citata direttiva.
33. In secondo luogo, AH sostiene, nelle sue osservazioni, che non è necessario esaminare le misure discriminatorie menzionate dal giudice del rinvio alla luce dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95, poiché le ragazze e le donne afghane sono esposte anche ad atti che ledono gravemente i loro diritti fondamentali ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva. È evidente, infatti, che gli atti di violenza di genere e gli atti di violenza domestica, che queste ultime rischiano di subire in caso di ritorno nel loro paese d’origine, possono costituire, a causa della loro natura o della loro frequenza, una «violazione grave dei diritti umani fondamentali» e quindi un atto di persecuzione ai sensi di detta disposizione (18).
34. Non vi sono dubbi neanche sul fatto che le azioni giudiziarie e le sanzioni a cui sono esposte le cittadine afghane quando non rispettano le prescrizioni loro imposte possano costituire, di per sé, atti di persecuzione ai sensi di detto articolo 9, paragrafo 1, lettera a), in quanto possono causare danni gravi e intollerabili alla persona umana.
35. Osservo, tuttavia, che le questioni pregiudiziali vertono sulla qualificazione delle misure discriminatorie adottate nei confronti delle ragazze e delle donne afghane alla luce dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 e che l’autorità competente è tenuta a procedere a una caratterizzazione completa degli atti di persecuzione o dei danni gravi che la richiedente rischierebbe di subire qualora fosse rinviata nel suo paese d’origine.
36. Da un lato, dai requisiti stabiliti dall’articolo 4 della direttiva 2011/95 risulta che l’autorità nazionale competente è tenuta a svolgere un esame adeguato ed efficace della domanda di protezione internazionale al fine di garantire una valutazione esaustiva delle esigenze di protezione dell’interessato. La Corte ha infatti dichiarato, nella sentenza Y e Z, che, «quando un’autorità competente procede all’esame su base individuale di una domanda di protezione internazionale, ex articolo 4, paragrafo 3, [di tale] direttiva, essa è tenuta a prendere in considerazione tutti gli atti ai quali il richiedente è stato, o rischia di essere, esposto per determinare se, alla luce della sua situazione personale, tali atti possano essere considerati una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, [di detta] direttiva» (19).
37. Dall’altro lato, ciò deve consentire di evitare le situazioni delicate in cui si ritenga che l’interessato, in applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/95, cessi di essere una persona che può beneficiare dello status di rifugiato a causa di un cambiamento di circostanze nel suo paese d’origine e si veda quindi revocare prematuramente il proprio status a seguito di una caratterizzazione insufficiente dei rischi.
38. Ciò premesso, sebbene sia chiaro che alcune delle misure discriminatorie in questione costituiscano palesemente atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95, spetta all’autorità nazionale competente stabilire, a seguito della sua valutazione dei rischi, in quale misura le richiedenti rischino di subire anche atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della medesima direttiva (20).
2. Nel merito
39. L’articolo 9 della direttiva 2011/95 definisce gli elementi che consentono di qualificare un atto come persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra (21).
40. L’articolo 9, paragrafo 1, di tale direttiva riguarda i requisiti relativi alla natura e alla gravità dell’atto, mentre l’articolo 9, paragrafo 2, della stessa elenca, in modo non esaustivo, le forme che un atto di persecuzione può assumere.
41. Nel caso di specie, non vi è dubbio che le misure menzionate dal giudice del rinvio rientrino in tale elenco, non essendo qui in discussione l’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2011/95. Invero, il legislatore dell’Unione non intende limitare gli atti di persecuzione agli atti di violenza fisica, ma si propone, mediante un testo sufficientemente aperto e adattabile, di riflettere la natura evolutiva ed estremamente varia delle forme di persecuzione (22). Infatti, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b), c) e f), di tale direttiva, gli atti di persecuzione possono, «tra l’altro», assumere la forma di «provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio», di «azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie» e di «atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia».
42. Per contro, occorre stabilire se tali misure possano raggiungere il livello di gravità richiesto dall’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2011/95.
43. Tale articolo opera una distinzione a seconda che gli atti di cui trattasi violino i diritti umani fondamentali [lettera a)] o altri diritti umani [lettera b)].
44. Per quanto riguarda, in un primo momento, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95, esso dispone che gli atti di cui di cui trattasi devono essere, «per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEDU]» (23).
45. Un atto che, per la sua natura, può non essere sufficientemente grave da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali può, per la sua frequenza, raggiungere tale livello di gravità e costituire una siffatta violazione.
46. I diritti menzionati all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU sono i cosiddetti diritti «assoluti» o «inalienabili» di ogni individuo. Essi non possono subire alcuna limitazione, anche in caso di pericolo pubblico eccezionale «che minacci la vita della nazione». Si tratta del diritto alla vita, del diritto di non essere sottoposti a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti, del diritto di non essere ridotti in schiavitù o servitù, nonché del diritto di non essere arrestati o detenuti arbitrariamente (24). Nella sua posizione comune 96/196/GAI (25), il Consiglio aveva già definito la nozione di «persecuzione» nel senso che essa riguarda fatti che costituiscono una violazione dei diritti essenziali dell’uomo, per esempio il diritto alla vita, il diritto alla libertà o all’integrità fisica, o che non consentono manifestamente, alla persona che li ha subiti, di continuare a vivere nel suo paese d’origine (26). Ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95, l’atto di persecuzione deve pertanto costituire un pregiudizio grave e intollerabile alla persona umana, e in particolare ai suoi diritti più essenziali.
47. Tuttavia, come ha rilevato la Corte, tale articolo fa riferimento all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU «a titolo indicativo» per determinare quali atti in particolare devono essere considerati alla stregua di una persecuzione (27). Ne consegue che, quando il richiedente fonda la propria domanda di protezione internazionale su una violazione di un diritto assoluto contemplato da detta disposizione, la sussistenza della persecuzione è stabilita ipso facto allorché tale violazione è ispirata da motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale.
48. Per contro, quando il richiedente fonda la propria domanda su una violazione di un diritto fondamentale che non è un diritto assoluto, la Corte ritiene che una simile violazione non obblighi di per sé l’autorità competente a concedergli lo status di rifugiato (28). La Corte considera che tale violazione debba raggiungere un «determinato livello di gravità» (29) «che colpisca l’interessato in modo significativo» (30). Secondo la Corte, occorre quindi valutare se detta violazione non costituisca una limitazione legittima all’esercizio del diritto fondamentale di cui trattasi, nel qual caso la qualificazione di «atto di persecuzione» sarebbe esclusa (31). Occorre altresì determinare in quale misura detta violazione possa presentare una gravità assimilabile o pari a quella della violazione dei diritti assoluti di cui all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU (32). In tale contesto, la Corte ritiene che sia necessario superare la «nomenclatura» del diritto o della libertà di cui trattasi al fine di prendere in considerazione non solo la gravità intrinseca dell’atto o della misura e le conseguenze che ne derivano per l’interessato, ma anche la natura e la gravità della repressione esercitata su quest’ultimo (33). Nelle sentenze Y e Z nonché del 4 ottobre 2018, Fathi (34), la Corte ha infatti dichiarato che il richiedente era esposto ad un atto di persecuzione nella misura in cui, a causa dell’esercizio della propria libertà di religione nel suo paese d’origine, correva un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguito penalmente o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva 2011/95 (35).
49. Per quanto riguarda, in un secondo momento, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95, al quale fa riferimento il giudice del rinvio, esso precisa che un atto di persecuzione può anche essere costituito dalla somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva.
50. Il legislatore dell’Unione si riferisce in questo caso ad atti o misure, comprese violazioni dei diritti umani, che, considerati isolatamente, non costituiscono una violazione dei diritti fondamentali del richiedente. Come si evince dalla formulazione della disposizione in parola, tali atti o misure possono equivalere ad una persecuzione solo nella misura in cui, in forza della loro «somma», esercitino sul richiedente un effetto analogo a quello di una violazione grave di un diritto umano fondamentale ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), di detta direttiva (36).
51. Quest’ultimo elemento è determinante in quanto deve consentire di distinguere la nozione di «atti di persecuzione» da qualsiasi altra misura discriminatoria. Infatti, l’obiettivo del sistema europeo comune di asilo non è concedere una protezione ogniqualvolta una persona non possa esercitare pienamente ed effettivamente, nel proprio paese d’origine, le garanzie che le sono riconosciute dalla Carta o dalla CEDU, bensì limitare il riconoscimento dello status di rifugiato agli individui che rischiano di subire una negazione grave o una violazione sistemica dei loro diritti più essenziali e la cui vita è divenuta, per questo motivo, intollerabile in tale paese.
52. Per determinare l’esistenza di un atto materiale di persecuzione è quindi necessario esaminare la misura in cui le restrizioni o le discriminazioni subite dal richiedente nell’esercizio dei suoi diritti, anche di un diritto fondamentale, comportino, a causa del loro effetto cumulativo, gravi conseguenze per tale richiedente nel suo paese d’origine, raggiungendo un livello di gravità equivalente a una grave violazione di uno dei suoi diritti fondamentali (37). Nell’ambito della Convenzione di Ginevra, l’UNHCR sottolinea che non è possibile stabilire una regola generale per quanto riguarda le ragioni cumulative che possono dare luogo a una domanda valida di status di rifugiato (38). A suo avviso, una misura discriminatoria costituisce una persecuzione solo se comporta conseguenze gravemente pregiudizievoli per la persona interessata, come gravi restrizioni al diritto di guadagnarsi da vivere, al diritto di praticare la propria religione o di accedere agli istituti di istruzione, e dipende da tutte le circostanze, segnatamente dal particolare contesto geografico, storico ed etnologico (39).
53. Alla luce dei principi enunciati dalla Corte in merito all’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95, l’autorità competente deve esaminare, tenuto conto della situazione personale dell’interessato, la situazione concreta a cui quest’ultimo è esposto nel suo paese d’origine, prendendo in considerazione non solo la natura e la gravità delle misure discriminatorie che egli rischia di subire e le conseguenze che ne derivano per lui, ma anche la natura e la gravità delle sanzioni nelle quali rischia di incorrere qualora non rispetti le limitazioni e le restrizioni che gli sono così imposte. Ricordo, infatti, che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, gli atti che possono essere considerati una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2011/95 devono essere individuati in funzione della gravità delle misure e delle sanzioni adottate o che potrebbero essere adottate nei confronti dell’interessato (40).
54. Nel caso di specie, non vi è alcun dubbio che, indipendentemente dalla natura della repressione a cui sono esposte le ragazze e le donne afghane in caso di inosservanza delle prescrizioni adottate dal regime dei talebani – le quali sono di per sé idonee a costituire un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95, in quanto possono causare danni gravi e intollerabili alla persona umana –, gli atti e le misure discriminatori di cui trattasi raggiungono un livello di gravità equivalente a quello della violazione dei diritti assoluti di cui all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, tanto per la loro intensità e per il loro effetto cumulativo quanto per le conseguenze che comportano per la persona interessata.
55. Le restrizioni all’accesso ai servizi sanitari sono talmente gravi da violare il diritto fondamentale alla protezione della salute sancito dall’articolo 35 della Carta ed espongono le ragazze e le donne afghane al rischio di trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 4 della Carta, in mancanza di accesso ai servizi sanitari competenti. Le restrizioni all’accesso all’istruzione, alla formazione professionale e al mercato del lavoro violano i diritti delle donne di accedere all’istruzione e di lavorare, riconosciuti in particolare agli articoli 14 e 15 della Carta, esponendole al rischio di non poter far fronte alle loro esigenze più elementari e a quelle dei loro figli, come quelle di nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio (41). Restrizioni del genere, per la gravità delle privazioni che comportano, possono compromettere la loro integrità fisica o mentale, al pari delle minacce più dirette alla vita. A questo proposito, tali ragazze e donne vengono private anche della tutela giuridica nei confronti della violenza di genere e della violenza domestica, il che, al di là della violazione del principio dell’uguaglianza davanti alla legge e del diritto a un ricorso effettivo, può costituire una violazione del diritto alla vita e del divieto della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (42).
56. A tali misure si aggiungono le altre misure discriminatorie adottate nei confronti delle ragazze e delle donne afghane che tendono a limitare o addirittura a negare la loro libertà di movimento nello spazio pubblico, le loro libertà di espressione e di associazione o la loro libertà di partecipare alle funzioni politiche e al processo decisionale politico. L’insieme di tali misure dimostra la palese volontà dei responsabili della persecuzione di escludere le ragazze e le donne dalla vita sociale, negando i loro diritti, siano essi civili, politici, economici, sociali o culturali. Per il loro effetto cumulativo e per la loro applicazione deliberata e sistematica, tali misure dimostrano l’istituzione di un’organizzazione sociale basata su un regime di segregazione e di oppressione nei confronti delle ragazze e delle donne, nel quale queste ultime sono escluse dalla società civile e private del diritto di condurre una vita decente e dignitosa nel loro paese d’origine.
57. Nelle sue conclusioni nelle cause riunite Y e Z, l’avvocato generale Bot sottolineava che «la persecuzione concretizza un atto di una gravità estrema perché consiste nel negare in modo flagrante e con accanimento i diritti più essenziali della persona umana, a motivo del colore della pelle, della nazionalità, del sesso e degli orientamenti sessuali, delle convinzioni politiche o del credo religioso. Quale che sia la forma che assume e al di là della discriminazione che opera, la persecuzione si accompagna alla negazione della persona umana e fa in modo di escluderla dalla società. Dietro alla persecuzione si profila l’idea di un divieto, il divieto di vivere nella società con altre persone a causa del proprio sesso, il divieto di essere trattati su un piede di parità a causa delle proprie convinzioni o quello di avere accesso alle cure e all’istruzione a causa della propria razza. Tali divieti sottintendono una sanzione, la sanzione di quello che l’individuo è o rappresenta» (43).
58. Nel caso di specie, non vi è dubbio che, indipendentemente dalla forma che le misure discriminatorie assumono – si tratti di decreti adottati dal regime al potere o di atti tollerati da quest’ultimo – esse comportano di per sé una sanzione, la sanzione di ciò che la donna è o rappresenta nel suo paese. Infatti, tali misure portano a negare in modo flagrante e con accanimento i diritti più essenziali delle ragazze e delle donne, a motivo del loro genere, privandole della loro identità e rendendo intollerabile la loro vita quotidiana.
59. Alla luce di tali elementi, ritengo che l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di «atti di persecuzione» una somma di atti e di misure discriminatori, adottati in un paese nei confronti delle ragazze e delle donne, che limitano o addirittura vietano, in particolare, il loro accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, il loro esercizio di un’attività professionale, la loro partecipazione alla vita pubblica e politica, la loro libertà di circolazione e di pratica sportiva, che le privano della protezione contro la violenza di genere e contro la violenza domestica e impongono loro di coprirsi interamente il corpo e il volto, in quanto tali atti e tali misure, per il loro effetto cumulativo, hanno la conseguenza di privare le ragazze e le donne dei loro diritti più essenziali in una vita sociale e pregiudicano pertanto il pieno rispetto della dignità umana, quale sancito dall’articolo 2 TUE nonché dall’articolo 1 della Carta.
B. La portata dell’esame su base individuale che l’autorità competente è tenuta ad effettuare ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 (seconda questione)
60. Con la sua seconda questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiede, in sostanza, alla Corte se l’articolo 4, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che esso impone all’autorità competente di prendere in considerazione elementi propri della situazione personale della richiedente, diversi dal suo genere, per determinare se le misure discriminatorie alle quali ella è stata o rischia di essere esposta nel suo paese d’origine costituiscano una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva.
61. In particolare, tale giudice si chiede se sia sufficiente stabilire che la richiedente sia una donna o se sia necessario dimostrare che tale donna sia specificamente presa di mira a causa di altri elementi propri della sua situazione personale.
62. Tale questione si basa su due tipi di considerazioni.
63. Da un lato, essa trae origine dalla giurisprudenza elaborata dal giudice del rinvio in merito alla valutazione delle domande di protezione internazionale presentate da ragazze e donne afghane fuggite dal precedente regime dei talebani in Afghanistan. Secondo tale giurisprudenza, anteriore all’adozione della direttiva 2011/95, la situazione di tali ragazze e donne, nel suo complesso, doveva essere qualificata come sufficientemente grave da ritenere che le misure discriminatorie che le riguardavano costituissero, di per sé, atti di persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra. Pertanto, alle richiedenti veniva riconosciuto lo status di rifugiato per il solo fatto di essere ragazze o donne afghane. In seguito alla caduta del regime dei talebani, il giudice del rinvio ha modificato la propria giurisprudenza e ha ritenuto che potessero beneficiare della protezione internazionale soltanto le ragazze e le donne che rischiavano di essere perseguitate a causa dell’adozione di uno «stile di vita di ispirazione occidentale» divenuto talmente essenziale per la loro identità che non si poteva pretendere che esse vi rinunciassero al fine di sottrarsi a una minaccia di persecuzione, circostanza che andava valutata sulla base di un esame in concreto delle circostanze di specie.
64. Dall’altro lato, il giudice del rinvio sottolinea che, sebbene le misure adottate dal regime dei talebani riguardino le ragazze e le donne nel loro insieme, potrebbe accadere che, in un caso particolare, una di esse non sia concretamente esposta a una o più di tali misure, cosicché le misure discriminatorie alle quali ella è esposta non raggiungerebbero, per il loro effetto cumulativo, un livello di gravità analogo a quello previsto all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95.
65. L’articolo 4 della direttiva 2011/95 enuncia le norme relative all’esame dei fatti e delle circostanze sui quali si basa la valutazione dell’esigenza di protezione internazionale. La Corte ha dichiarato che tale articolo è applicabile a tutte le domande di protezione internazionale, a prescindere dai motivi di persecuzione addotti a loro sostegno (44).
66. L’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 impone all’autorità competente di procedere ad un esame della domanda su base individuale. Quest’ultimo deve consentire a tale autorità di identificare la persona che ha effettivamente bisogno di protezione internazionale e di valutarne l’attendibilità (45). Nell’ambito di tale esame, detta autorità è chiamata, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, lettera c), di tale direttiva, a tenere conto «della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali [di quest’ultimo], gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione» (46). Il legislatore dell’Unione non stabilisce norme particolari quanto al peso o all’importanza da attribuire agli elementi propri della situazione individuale o delle circostanze personali del richiedente.
67. Esigendo, all’articolo 4, paragrafo 1, e all’articolo 10, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2013/32, che l’autorità competente effettui un esame della domanda adeguato e completo (47), il legislatore dell’Unione concede a tale autorità un margine di discrezionalità sufficiente per determinare, caso per caso e alla luce di tutte le informazioni di cui essa dispone, gli elementi della domanda rilevanti ai fini dell’esame dell’esigenza di protezione internazionale del richiedente. Detta autorità, infatti, è nella posizione migliore per determinare gli elementi da prendere in considerazione, alla luce dei fatti e delle circostanze su cui si basa la domanda (48).
68. La Corte ha riconosciuto nella sua giurisprudenza l’esistenza di detto margine di discrezionalità.
69. Infatti, nelle sentenze del 2 dicembre 2014, A e a. (49), e del 25 gennaio 2018, F (50), relative ad un timore di persecuzione a causa dell’orientamento sessuale, la Corte ha dichiarato che, anche se le disposizioni dell’articolo 4 della direttiva 2011/95 sono applicabili a tutte le domande di protezione internazionale, a prescindere dai motivi di persecuzione addotti a loro sostegno, spetta alle autorità competenti adeguare le loro modalità di valutazione delle dichiarazioni e degli elementi di prova documentali o di altro tipo in funzione delle caratteristiche proprie di ciascuna categoria di domanda di protezione internazionale, nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta (51). La Corte non ha quindi escluso che alcune forme di consulenza si rivelino utili per l’esame dei fatti e delle circostanze, a condizione che esse siano effettuate nel rispetto dei diritti fondamentali del richiedente la protezione internazionale (52).
70. Inoltre, nella sentenza del 17 febbraio 2009, Elgafaji (53), relativa a un timore di subire una minaccia grave e individuale derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, la Corte ha ammesso che l’esistenza di una siffatta minaccia può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti, raggiunga un livello così elevato che un civile rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia, e ciò senza che egli sia tenuto a fornire la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale (54).
71. Ne consegue che l’esigenza stessa di procedere ad un esame su base individuale della domanda di protezione internazionale presuppone che l’autorità competente adegui le modalità di valutazione degli elementi di fatto e di prova in funzione delle caratteristiche proprie di ciascuna domanda.
72. Orbene, le domande di protezione internazionale presentate dalle ragazze e dalle donne originarie dell’Afghanistan presentano, a mio avviso, caratteristiche proprie che autorizzano le autorità competenti ad adeguare le modalità di valutazione di tali domande.
73. Infatti, le misure discriminatorie a cui le ragazze e le donne afghane rischiano di essere esposte rientrano in un regime di segregazione e oppressione che viene attuato nei loro confronti per il solo fatto della loro presenza sul territorio, indipendentemente dalla loro identità o dalla loro situazione personale (55). Invero, sebbene sia possibile che una richiedente non sia colpita da una o più delle misure di cui trattasi a causa di caratteristiche particolari, la stessa rimane esposta a restrizioni e privazioni che, prese singolarmente o considerate nel loro insieme, raggiungono un livello di gravità equivalente a quello richiesto dall’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95. Tale regime, ampiamente documentato, è d’altronde descritto come somigliante a nessun altro (56). Tanto le relazioni redatte dall’AUEA, dagli organi del Consiglio d’Europa o afferenti al sistema delle Nazioni Unite, quanto le relazioni emesse dalle ONG internazionali, attestano che il trattamento riservato alle ragazze e alle donne in Afghanistan è tale da creare un’esigenza generale di protezione internazionale per le richiedenti.
74. In tali circostanze, nulla osta, a mio avviso, a che un’autorità competente ritenga, alla luce di tutte le informazioni di cui dispone, che non sia necessario dimostrare che la richiedente sia presa di mira a causa di caratteristiche distintive diverse dal proprio genere.
75. In tal senso si pronuncia anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Infatti, essa attenua il requisito secondo cui il richiedente deve essere in grado di dimostrare la sussistenza di un rischio reale di maltrattamento a causa di circostanze che gli sono proprie o di caratteristiche particolari, nelle cause in cui è accertato che il richiedente fa parte di un gruppo sistematicamente preso di mira nel suo paese d’origine e che la situazione generale di violenza in tale paese lo esporrà, per il solo fatto del suo ritorno, a un rischio di trattamento inumano o degradante contrario all’articolo 3 della CEDU (57).
76. A mio avviso, simili modalità di valutazione rientrano anche nel margine di manovra che il legislatore dell’Unione concede agli Stati membri all’articolo 3 della direttiva 2011/95. Ai sensi di tale articolo, gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli, in particolare, in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati, a condizione, tuttavia, che tali disposizioni siano compatibili con la direttiva. Come la Corte ha ricordato nella sentenza del 9 novembre 2021, Bundesrepublik Deutschland (Mantenimento dell’unità del nucleo familiare) (58), dette disposizioni possono, in particolare, consistere in un’attenuazione delle condizioni previste per il riconoscimento dello status di rifugiato e non devono compromettere l’economia generale o gli obiettivi di detta direttiva (59).
77. Orbene, ritengo che siffatte modalità di valutazione non possono compromettere l’economia generale e la finalità della direttiva 2011/95, quando lo status di rifugiato sia concesso al termine di un esame adeguato e completo dell’esigenza di protezione internazionale della richiedente, conformemente alle condizioni di riconoscimento di tale status previste ai capi II e III della direttiva.
78. Alla luce di tali elementi, ritengo che l’articolo 4, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che esso non osta a che, nell’ambito dell’esame della situazione individuale e delle circostanze personali della richiedente, richiesto ai fini della valutazione individuale della domanda di protezione internazionale, le autorità nazionali competenti concludano che sussiste un timore fondato di subire atti di persecuzione a causa del suo genere, senza dover ricercare altri elementi propri della sua situazione personale.
IV. Conclusione
79. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dal Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria) nel modo seguente:
1) L’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta,
deve essere interpretato nel senso che:
rientra nella nozione di «atti di persecuzione» una somma di atti e di misure discriminatori, adottati in un paese nei confronti delle ragazze e delle donne, che limitano o addirittura vietano, in particolare, il loro accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, il loro esercizio di un’attività professionale, la loro partecipazione alla vita pubblica e politica, la loro libertà di circolazione e di pratica sportiva, che le privano della protezione contro la violenza di genere e contro la violenza domestica e impongono loro di coprirsi interamente il corpo e il volto, in quanto tali atti e tali misure, per il loro effetto cumulativo, hanno la conseguenza di privare le ragazze e le donne dei loro diritti più essenziali in una vita sociale e pregiudicano pertanto il pieno rispetto della dignità umana, quale sancito dall’articolo 2 TUE nonché dall’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
2) L’articolo 4, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2011/95
deve essere interpretato nel senso che:
esso non osta a che, nell’ambito dell’esame della situazione individuale e delle circostanze personali della richiedente, richiesto ai fini della valutazione individuale della domanda di protezione internazionale, le autorità nazionali competenti concludano che sussiste un timore fondato di subire atti di persecuzione a causa del suo genere, senza dover ricercare altri elementi propri della sua situazione personale.
1 Lingua originale: il francese.
2 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).
3 C‑71/11 e C‑99/11; in prosieguo: la «sentenza Y e Z», EU:C:2012:518. Tale sentenza è relativa alla valutazione di una domanda di protezione internazionale fondata su un rischio di persecuzione a causa della religione del richiedente. V., inoltre, sentenza del 4 ottobre 2018, Fathi (C‑56/17, EU:C:2018:803).
4 Da C‑199/12 a C‑201/12, EU:C:2013:720. Tale sentenza è relativa alla valutazione di una domanda di protezione internazionale fondata su un rischio di persecuzione a causa dell’omosessualità del richiedente.
5 Direttiva del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2004, L 304, pag. 12).
6 V. comunicati del Migrationsverket (Ufficio immigrazione, Svezia), del 7 dicembre 2022, intitolati «Women from Afghanistan to be granted asylum in Sweden» e «Being a woman from Afghanistan is enough to get protection».
7 V. comunicato del Flygtningenævnet (commissione per i rifugiati, Danimarca), del 30 gennaio 2023, disponibile al seguente indirizzo Internet: Flygtningenævnet giver asyl til kvinder og piger fra Afghanistan – Fln.
8 V. comunicato del Maahanmuuttovirasto (Ufficio nazionale dell’immigrazione, Finlandia), del 15 febbraio 2023, intitolato «Refugee Status to Afghan Women and Girls».
9 Direttiva del Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi (GU 2001, L 212, pag. 12). V., a seguito dell’osservazione formulata il 19 agosto 2021 da Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, vicepresidente della Commissione, risoluzione del Parlamento europeo, del 16 settembre 2021, sulla situazione in Afghanistan [2021/2877(RSP), punto 41]
10 V. AUEA, Country guidance: Afghanistan, gennaio 2023, in particolare, punto 3.15 (pag. 23) nonché pagg. 86 e segg.
11 V. UNHCR, Statement on the concept of persecution on cumulative grounds in light of the current situation for women and girls in Afghanistan, issued in the context of the preliminary ruling reference to the Court of Justice of the European Union in the cases of AH and FN v. Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl (C‑608/22 and C‑609/22), punto 5.1.11.
12 In prosieguo: la «Carta».
13 Firmata a Roma il 4 novembre 1950; in prosieguo: la «CEDU».
14 Firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Raccolta dei trattati delle Nazioni unite, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)] ed entrata in vigore il 22 aprile 1954
15 Concluso a New York il 31 gennaio 1967 ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967.
16 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).
17 V. nota 10 delle presenti conclusioni.
18 Mi riferisco alle mie conclusioni nella causa Intervyuirasht organ na DAB pri MS (Donne vittime di violenze domestiche) (C‑621/21, EU:C:2023:314, nota 17).
19 V. punto 68 di tale sentenza. Il corsivo è mio.
20 Non ritengo che l’uso della congiunzione «oppure» all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2011/95 osti ad una siffatta interpretazione.
21 Tale convenzione non definisce la nozione di «atti di persecuzione». Solo il suo articolo 1, sezione A, paragrafo 2, primo comma, dispone che il termine «rifugiato» comprende chiunque, «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato» (il corsivo è mio).
22 V., per quanto riguarda la direttiva 2004/83, le osservazioni della Commissione sull’articolo 11, intitolato «La natura della persecuzione» (divenuto l’articolo 9 della direttiva 2004/83), nella proposta di direttiva del Consiglio, presentata il 12 settembre 2001, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi ed apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto dello status di protezione [COM(2001) 510 definitivo].
23 V. sentenza Y e Z (punto 57).
24 Tali diritti sono previsti rispettivamente agli articoli 2 e 3, all’articolo 4, paragrafo 1, e all’articolo 7 della CEDU, nonché agli articoli 2 e 4, all’articolo 5, paragrafo 1, e all’articolo 49 della Carta.
25 Posizione comune del 4 marzo 1996 definita dal Consiglio in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea relativa all’applicazione armonizzata della definizione del termine «rifugiato» ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati (GU 1996, L 63, pag. 2).
26 V. punto 4 di tale posizione comune. Rilevo che nel 2001, nell’ambito dei lavori del Consiglio relativi alla proposta di direttiva citata alla nota 22 delle presenti conclusioni, il legislatore dell’Unione si è riferito ai diritti umani fondamentali insistendo anzitutto sulla «vita, la libertà o (…) l’integrità fisica», prima di fare riferimento, a seguito delle riserve espresse da taluni Stati membri, ai diritti che non possono essere oggetto di alcuna deroga ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU (v. documenti disponibili sul sito Internet del Consiglio con i riferimenti 13620/01, 11356/02, 12620/02 e 13648/02).
27 V. sentenza Y e Z (punto 57).
28 V. sentenza Y e Z (punto 58).
29 V. sentenze del 7 novembre 2013, X e a. (da C‑199/12 a C‑201/12, EU:C:2013:720, punto 53), e del 19 novembre 2020, Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Servizio militare e asilo) (C‑238/19, EU:C:2020:945, punto 22 e giurisprudenza ivi citata).
30 V. sentenza del 4 ottobre 2018, Fathi (C‑56/17, EU:C:2018:803, punto 94 e giurisprudenza ivi citata).
31 V. sentenza Y e Z, nella quale la Corte ha dichiarato, ad esempio, che «sono senz’altro esclusi gli atti che costituiscono limitazioni previste dalla legge all’esercizio del diritto fondamentale alla libertà di religione ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, della Carta, e che, pur tuttavia, non violano tale diritto in quanto coperti dall’articolo 52, paragrafo 1, della Carta» (punto 60).
32 V. sentenza Y e Z, nella quale la Corte ha precisato che «[n]on possono essere considerati persecuzioni nell’accezione dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva [2004/83] e dell’articolo 1 A della Convenzione di Ginevra neppure gli atti che, pur violando il diritto riconosciuto all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta, non presentano una gravità pari a quella della violazione dei diritti umani fondamentali inderogabili in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU» (punto 61; il corsivo è mio).
33 V., a tale riguardo, sentenza Y e Z, nella quale la Corte ha precisato che gli atti i quali, a causa della loro intrinseca gravità unitamente alla gravità della loro conseguenza per la persona interessata, possono essere considerati persecuzione devono essere individuati in funzione non già dell’elemento della libertà di religione che viene leso, bensì della natura della repressione esercitata sull’interessato e delle conseguenze di quest’ultima (punti 65 e 66).
34 C‑56/17, EU:C:2018:803.
35 V. sentenze Y e Z (punto 67) nonché del 4 ottobre 2018, Fathi (C‑56/17, EU:C:2018:803, punto 95 e giurisprudenza ivi citata).
36 V., a tale riguardo, AUEA, Qualification for International Protection, Judicial analysis, second edition, gennaio 2023 [in particolare punto 1.4.3, relativo all’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95].
37 V., a tale riguardo, l’analisi giuridica citata alla nota 36 delle presenti conclusioni, nella quale l’AUEA rileva che «un trattamento meno favorevole derivante da differenze nel trattamento di diversi gruppi non costituisce di per sé una persecuzione. Una legislazione discriminatoria o un’applicazione discriminatoria della legge può essere considerata un atto di persecuzione solo se sussistano circostanze aggravanti molto forti, quali conseguenze gravemente pregiudizievoli per il richiedente». L’AUEA considera che «gravi restrizioni al diritto di esercitare un’attività professionale, di praticare la propria religione o di accedere a istituti di istruzione possono – a seconda delle circostanze –, di per sé o per effetto del cumulo con altre restrizioni, equivalere a una persecuzione qualora esercitino su un individuo un effetto analogo a quello di una violazione grave di un diritto umano fondamentale ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95. In tale contesto, devono essere prese in considerazione tutte le circostanze individuali e, in particolare, l’effetto cumulativo di atti e/o misure discriminatori sulle condizioni di vita di una persona» (traduzioni libere) (punto 1.4.4.3).
38 V. UNHCR, Guide des procédures et critères à appliquer pour déterminer le statut de réfugié et principes directeurs sur la protection internationale au regard de la convention [de Genève], febbraio 2019 (punti da 53 a 55).
39 V. UNHCR, Guide et principes directeurs sur les procédures et critères à appliquer pour déterminer le statut des réfugiés au regard de la convention [de Genève], dicembre 2011 (punti da 53 a 55), nonché UNHCR, Principes directeurs sur la protection internationale n° 1: La persécution liée au genre dans le cadre de l’article 1A (2) de la [convention de Genève], 8 luglio 2018 (punto 14).
40 Nella sentenza Y e Z, la Corte ha dichiarato che una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/83 quando il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà nel suo paese d’origine, corre un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguito penalmente o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 di tale direttiva (punto 67). V., inoltre, sentenza del 4 ottobre 2018, Fathi (C‑56/17, EU:C:2018:803, punto 95).
41 Secondo la Corte, la soglia particolarmente elevata di gravità di cui all’articolo 4 della Carta è raggiunta in situazioni caratterizzate da un’estrema deprivazione materiale dell’interessato, che non consenta a quest’ultimo di far fronte ai suoi bisogni più elementari, quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudichi la sua salute fisica o psichica o lo ponga in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana. La Corte ha fatto riferimento, nella sentenza del 19 marzo 2019, Jawo (C‑163/17, EU:C:2019:218, punto 92), alla sentenza della Corte EDU del 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia (CE:ECHR:2011:0121JUD003069609, §§ da 252 a 263).
42 V., a tale riguardo, sentenza della Corte EDU del 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia (CE:ECHR:2009:0609JUD003340102, § 176).
43 V. conclusioni dell’avvocato generale Bot nelle cause riunite Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:224, paragrafo 56).
44 V. sentenza del 25 gennaio 2018, F (C‑473/16, EU:C:2018:36, punto 36).
45 V. considerando 12 della direttiva 2011/95. V., inoltre, sentenze del 30 gennaio 2014, Diakité (C‑285/12, EU:C:2014:39, punto 33); del 18 dicembre 2014, M’Bodj (C‑542/13, EU:C:2014:2452, punto 37); del 25 gennaio 2018, F (C‑473/16, EU:C:2018:36, punto 34), e del 10 giugno 2021, Bundesrepublik Deutschland (Nozione di «minaccia grave e individuale») (C‑901/19, EU:C:2021:472, punto 44). Ricordo che la presa in considerazione della situazione personale del richiedente deve inoltre consentire all’autorità competente di valutare se un richiedente necessiti di garanzie procedurali particolari conformemente all’articolo 24 della direttiva 2013/32 e di individuare i benefici che dovranno essere conferiti ai beneficiari della protezione internazionale in forza dell’articolo 20, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/95.
46 Il corsivo è mio. V., a tale riguardo, AUEA, Analyse juridique, Évaluation des éléments de preuve et de la crédibilité dans le contexte du régime d’asile européen commun, 2018, dove l’AUEA rileva che l’effetto combinato delle misure discriminatorie deve essere valutato alla luce della situazione personale del richiedente, tenendo conto di tutti gli atti ai quali quest’ultimo è stato o rischia di essere esposto (punto 4.3.1, pag. 67).
47 V. considerando 18 e 20 della direttiva 2013/32.
48 In tal senso, dall’articolo 18, paragrafo 1, della direttiva 2013/32 risulta che l’autorità competente, qualora lo ritenga pertinente per la valutazione di una domanda ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 2011/95, può disporre, previo consenso del richiedente, una visita medica del richiedente concernente i segni che potrebbero indicare persecuzioni o danni gravi subiti.
49 Da C‑148/13 a C‑150/13, EU:C:2014:2406.
50 C‑473/16, EU:C:2018:36.
51 V. sentenze del 2 dicembre 2014, A e a. (da C‑148/13 a C‑150/13, EU:C:2014:2406, punto 54), e del 25 gennaio 2018, F (C‑473/16, EU:C:2018:36, punto 36).
52 V. sentenza del 25 gennaio 2018, F (C‑473/16, EU:C:2018:36, punto 37). I metodi utilizzati devono essere conformi alle disposizioni delle direttive 2011/95 e 2013/32 nonché, come emerge dai considerando 16 e 60, rispettivamente, di tali direttive, ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta, quali il diritto al rispetto della dignità umana, sancito all’articolo 1 della Carta, nonché il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’articolo 7 della medesima. V., in tal senso, sentenza del 2 dicembre 2014, A e a. (da C‑148/13 a C‑150/13, EU:C:2014:2406, punto 53).
53 C‑465/07, EU:C:2009:94.
54 V. sentenze del 17 febbraio 2009, Elgafaji (C‑465/07, EU:C:2009:94, punto 43), e del 10 giugno 2021, Bundesrepublik Deutschland (Nozione di «minaccia grave e individuale») (C‑901/19, EU:C:2021:472, punto 28).
55 Questa è anche l’opinione espressa dall’UNHCR nella sua dichiarazione resa nel contesto dei presenti rinvii: «Mentre, nell’ambito di talune domande relative all’appartenenza di genere, le richiedenti sono esposte a un rischio di persecuzione a causa di circostanze particolari – ad esempio, una sanzione per la trasgressione dei costumi sociali; violenza domestica –, altre sono esposte a un siffatto rischio a causa della situazione generale di discriminazione e di violenza di genere in un paese» (traduzione libera) (punto 5.2.4).
56 V. Consiglio dei diritti umani, Situation des droits de l’homme en Afghanistan, rapport du Rapporteur spécial sur la situation des droits de l’homme en Afghanistan, 9 settembre 2022: «In nessun altro paese le donne e le ragazze sono scomparse così rapidamente da tutti i settori della vita pubblica e sono così svantaggiate in tutti gli aspetti della loro vita» (punto 21) (traduzione libera).
57 V., ad esempio, sentenza della Corte EDU del 25 febbraio 2020, A.S.N. e altri c. Paesi Bassi (CE:ECHR:2020:0225JUD006837717, § 107 e giurisprudenza ivi citata).
58 C‑91/20, EU:C:2021:898.
59 V. punti 39 e 40 di tale sentenza nonché giurisprudenza ivi citata. La Corte ha ricordato che sono vietate, in particolare, norme dirette a riconoscere lo status di rifugiato a cittadini di paesi terzi che si trovino in situazioni prive di qualsiasi nesso con la logica della protezione internazionale (punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
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