Tratto da “I 100 anni di Franco Basaglia, lo psichiatra che chiuse i manicomi.

[Fonte: https://www.casadellacarita.org/approfondimenti/franco-basaglia-100-anni]

Chi era e che cosa ha fatto Franco Basaglia.

Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924. Dopo 13 anni come docente di psichiatria all’Università di Padova, nel 1961 vince il concorso di direttore all’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove entra in contatto con le terribili condizioni di vita delle persone ricoverate: uomini, donne e persino ragazzi, spesso vincolati nelle camicie di forza o nei letti di contenzione, sottoposti a trattamenti inumani come elettroshock, lobotomie e bagni ghiacciati; sedati con un uso massiccio di psicofarmaci.

In quegli anni, infatti, le persone con sofferenza psichica sono considerate pericolose per sé e per gli altri e quindi sono tenute separate e nascoste dal resto della società in luoghi chiusi e isolati, quali erano appunto i manicomi, dove spesso vengono sostanzialmente abbandonate. Non c’è cura ma controllo.

Come ha scritto alcuni anni fa Peppe dell’Acqua, allievo di Basaglia: «La malattia nascondeva ogni cosa. I nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non hanno mai abitato quel luogo. E la cura, neanche a pensarci».

A Gorizia allora, insieme a un gruppo di giovani psichiatri, Basaglia inizia la sua battaglia per restituire diritti e dignità ai pazienti del manicomio: abolisce contenzioni fisiche ed elettroshock e sostiene un nuovo rapporto tra medico e paziente, non più verticale ma orizzontale, basato sull’ascolto e sulla parola, in cui pazienti e operatori hanno pari dignità e pari diritti. Cambia anche la vita quotidiana dell’ospedale, con momenti di festa e aggregazione, gite e laboratori artistici e teatrali. 

Si iniziano ad aprire le porte dei padiglioni e i cancelli della struttura, ma il tentativo di Basaglia di superare l’istituzione manicomiale e portare l’assistenza psichiatrica sul territorio fallisce, a causa della resistenza dell’amministrazione locale.

Nel 1968, i frutti dell’esperienza all’ospedale di Gorizia sono raccolti in un libro, scritto con la collaborazione della moglie Franca Ongaro, che diventa il manifesto del movimento di Basaglia: “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”.

Nel 1970, lo psichiatra lascia Gorizia e accetta l’invito a dirigere l’ospedale psichiatrico di Colorno, in provincia di Parma, ma anche qui il processo di trasformazione avviato da Basaglia si scontra con numerose difficoltà, burocratiche e politiche.

Nel 1971, Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove il presidente della Provincia Michele Zanetti, da cui all’epoca dipendeva il manicomio, gli garantisce piena libertà di azione, appoggiando il suo progetto di superamento del manicomio e di un’organizzazione territoriale della psichiatria. È la cosiddetta “deistituzionalizzazione”.

La rivoluzione di Trieste. 

Quando Basaglia arriva a Trieste, la struttura ospita 1.182 persone di cui 840 sottoposte a regime coatto e subito lo psichiatra si mette al lavoro per riorganizzare équipe mediche e reparti e rompere l’isolamento del manicomio, integrandolo con la città. 

L’obiettivo ultimo è chiudere il manicomio e affidare i pazienti a una rete di cura e inclusione sociale e lavorativa sul territorio, mirando a responsabilizzare le persone con disagio psichico e a renderle autonome. Per questo, viene fondata la Cooperativa Lavoratori Uniti, grazie a cui i pazienti dell’ospedale psichiatrico lavorano, occupandosi inizialmente della pulizia e manutenzione dei reparti, del parco, delle cucine, e ottengono una retribuzione equa.

Intanto, nel parco dell’ospedale si organizzano corsi di pittura, scultura, scrittura creativa e teatro. Tra le varie iniziative artistiche, nel 1973 prende forma l’opera collettiva “Marco Cavallo”: un cavallo di cartapesta azzurro, alto 4 metri, così da poter idealmente contenere nella sua pancia i sogni e i desideri dei pazienti.

Marco Cavallo vuole essere un simbolo dell’umanità nascosta nei manicomi, che da questi non-luoghi vuole uscire, per rivendicare libertà, diritti e dignità fino ad allora negati. Marco Cavallo, quindi, sfonda letteralmente il cancello del manicomio e, insieme a un corteo di pazienti e operatori, raggiunge il centro di Trieste. Da allora, Marco Cavallo è un’installazione itinerante per sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo politico sui problemi della salute mentale. In Italia è stato esibito anche all’EXPO di Milano del 2015 e in quell’occasione fa visita anche alla Casa della Carità.

La legge Basaglia: dai manicomi alla comunità.

Nel 1973, Basaglia, insieme ad alcuni collaboratori, fonda il movimento  “Psichiatria Democratica”, convinto che per attuare un vero cambiamento nell’ambito della psichiatria fosse necessario anche un cambiamento politico.

Nel gennaio 1977 si annuncia la chiusura dell’ospedale psichiatrico “San Giovanni” di Trieste e il dibattito sulla chiusura dei manicomi arriva in Parlamento.

Il 13 maggio 1978 è approvata la legge 180, scritta e promossa dal deputato DC e psichiatra Bruno Orsin, soprannominata appunto “Legge Basaglia”, che ridefinisce la concezione di malattia mentale e mette la persona al centro della cura.

La legge mette quindi fine ai manicomi e istituisce servizi di cura territoriale: reparti di psichiatria negli ospedali, centri per la salute mentale e centri diurni, centri di supporto alle famiglie. La riforma, tuttavia, diventa operativa solo a metà degli anni ‘90, quando in Italia vengono effettivamente chiusi gli ultimi ospedali psichiatrici.

L’eredità tradita di Franco Basaglia.

Oggi, a quasi 46 anni dall’approvazione della Legge 180, essa rimane ancora in parte incompiuta, quando non è apertamente ostacolata. Da una parte, a livello culturale e politico, nonostante l’eliminazione dalla normativa sanitaria della parola “pericolosità”, lo stigma verso le persone con sofferenza psichica rimane ancora forte e periodicamente, soprattutto quando avvengono casi di cronaca che hanno per protagoniste persone con sofferenza mentale, si fanno più insistenti le voci e le tesi di chi chiede un ritorno a ricoveri in luoghi chiusi. 

Dall’altra parte, da un punto di vista operativo, restano ancora in parte incomplete le misure necessarie a sostituire pienamente gli ospedali psichiatrici e a favorire l’inserimento nella società delle persone con disagio mentale. In particolare, pesano:

-i ritardi nell’organizzazione dei servizi territoriali per la presa in carico delle persone sofferenti. Di conseguenza, il peso della cura e della gestione di queste persone resta a carico delle loro famiglie;

-la mancanza in molte regioni di risorse, personale e strutture adeguate a fronte di una richiesta d’aiuto crescente;

-l’impoverimento di molti servizi territoriali (la cui apertura quotidiana e h24 non viene garantita), a causa della mancanza o dei tagli alle risorse economiche destinate alla psichiatria;

-il continuo ricorso all’ospedalizzazione e alla contenzione meccanica e farmacologica;

-la mancata formazione degli operatori;

-la trasformazione delle strutture residenziali in luoghi di custodia anziché luoghi di cura;

-la difficoltà, per molti enti del terzo settore che operano nella salute mentale, di trovare ascolto, spazio e sostegno da parte delle istituzioni”.