Buono pasto: è legato alla durata del turno eccedente le 6 ore
Corte di Cassazione, sent. 5547/2021Corte di Cassazione, sentenza del 1° marzo 2021, n. 5547.
Dipendente turnista, Diritto alla erogazione dei buoni pasto, Diritto alla mensa identificato con il diritto alla pausa, Dipendenti che effettuavano un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore, Buono pasto, Nessuna natura retributiva ma erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale.
di B.Torres
1.Già con sentenza in data 18 dicembre 2018 nr. 906 la Corte d’Appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da un dipendente turnista della Azienda Ospedaliera, accertando il suo diritto alla erogazione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore.
L’Azienda impugnava la sentenza ritenendo che il lavoratore non avrebbe potuto usufruire del servizio di mensa istituito dalla Azienda Ospedaliera perché, svolgendo turni pomeridiani o serali, non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e non vi era un servizio di mensa serale.
La Corte di Cassazione, accogliendo le ragioni del dipendente, ha convenuto sul fatto che la “particolare articolazione dell’orario di lavoro» è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro”.
La difesa di parte ricorrente lega il diritto alla mensa ad una obbligatoria sosta lavorativa ma assume che la norma contrattuale richiede, altresì, che l’attività lavorativa sia prestata “nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto”; una eventuale volontà della parti sociali in tal senso sarebbe stata, tuttavia, chiaramente espressa, con l’ indicazione di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa, fasce che non sono, invece, previste.
L’interpretazione esposta, secondo cui il diritto alla mensa ex art. 29, comma 2, CCNL Integrativo Sanità 20.9.2001 è legato al diritto alla pausa, è coerente con i principi già enunciati dalla Suprema Corte, (cfr. sent. n. 31137/2019o, in relazione alle previsioni dell’articolo 40, CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie Fiscali.
Il giudice del merito ha dunque correttamente interpretato la disposizione contrattuale, con conseguente rigetto dell’impugnazione
2.Pausa pranzo e Buono pasto. Cosa dicono legge e giurisprudenza.
2.1.Il diritto alla pausa pranzo è previsto dal D.Lgs n. 66/2003 (“Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).
Decreto legislativo n. 66/2003, Art. 8: “Pause”.
“1. Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.
2. Nelle ipotesi di cui al comma 1, in difetto di disciplina collettiva che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
3. Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata i periodi di cui all’articolo 5 regio decreto 10 settembre 1923, n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell’articolo 4 del regio decreto 10 settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni”.
2.2.Pur non prevedendo alcuna definizione di pausa lavorativa e non proponendo, diversamente dal R.D. n. 1955/1923, la dicotomia riposi intermedi-semplici soste, l’art. 8 si riferisce a qualsiasi momento d’inattività, nell’arco lavorativo giornaliero, che abbia le seguenti finalità: a) recupero delle energie psico-fisiche; b) consumazione del pasto; c) attenuazione del carico di mansioni monotone e ripetitive. Come anticipato, l’art. 8 cit. prevede una soglia minima di tutela, giusta la quale spetta ai lavoratori una pausa ogni sei ore continuate di lavoro. In assenza di una previsione collettiva, la pausa non può essere inferiore ai dieci minuti. Il momento di fruizione della pausa può coincidere con qualsiasi momento della giornata lavorativa e non necessariamente e successivamente al trascorrere delle sei ore di lavoro. Laddove il datore organizzi il lavoro “spezzando” la giornata lavorativa, l’obbligo di fruizione della pausa può essere assolto in coincidenza con la detta sospensione. Il periodo di pausa può essere fruito anche sul posto di lavoro e la sua collocazione, in assenza di previsione collettiva, è decisa dal datore di lavoro a seconda delle esigenze tecnico-organizzative e del processo produttivo.
2.3. Ambito soggettivo di applicazione. La previsione in esame non si applica ai settori e alle categorie di lavoratori di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 66/2003. Fermo restante il rispetto dei principi generali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, l’art.8 non si applica ai dipendenti il cui orario di lavoro, per le caratteristiche della prestazione di lavoro, non è misurato, o predeterminato o determinato dagli stessi lavoratori. In particolare non si applica: i) ai dirigenti, al personale con funzioni direttive o avente un autonomo potere decisionale; b) alla manodopera familiare; c) ai telelavoratori e ai lavoratori a domicilio; d) ai lavoratori mobili.
Si applica, invece, ai lavoratori adibiti a mansioni discontinue o di semplice attesa..
2.4. Quanto al regime in deroga della suddetta previsione di legge, e fermo restando disposizioni collettive più favorevoli, il Ministero del lavoro, con la circolare n. 8/2005, del 3 marzo 2005 (“Disciplina di alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro: D.Lgs. n. 66/2003; D.Lgs. n. 213/2004), precisa che: a) il diritto ad usufruire della pausa, almeno nei limiti della soglia minima stabilita dall’art. 8, è indisponibile nel senso che non è monetizzabile e, pertanto, non può essere sostituito da compensazioni economiche; b) sono, pertanto, nulle le clausole collettive che stabiliscono dei compensi o indennità per la mancata fruizione delle pause; c) inquadrata nella disciplina derogatoria di cui al comma 1° dell’art. 17 del D.Lgs n. 66/2003, è legittima l’eventuale “concentrazione” della pausa all’inizio o alla fine della giornata lavorativa, a condizione che vengano previsti dei periodi equivalenti di riposo compensativo, ovvero delle protezioni appropriate.
2.5. Il diritto alla fruizione del buono pasto. per consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore (Cass. 28.11.2019, n. 31137 e giurisprudenza ivi citata); proprio per la suindicata natura il diritto al buono pasto è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono (da ultimo, Cass. 21 ottobre 2020, n. 22985).
3.Testo della sentenza della Corte di Cassazione, 1° marzo 2021, n. 5547.
[…]
Fatto di causa
- Con sentenza in data 18 dicembre 2018 nr. 906 la Corte d’Appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da P. Q., dipendente turnista della Azienda Ospedaliera P.P. (in prosieguo: Azienda Ospedaliera), accertando il suo diritto alla erogazione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore e condannando la Azienda Ospedaliera al risarcimento del danno.
- La Corte territoriale osservava che l’articolo 29, comma 2, CCNL integrativo comparto Sanità, del 20 settembre 2001, doveva essere interpretato in combinato disposto con l’articolo 8 D.Lgs. nr. 66/2003; da tali norme derivava che il diritto alla mensa doveva essere identificato con il diritto alla pausa. Il diritto alla mensa doveva, dunque, riconoscersi a tutti i dipendenti che effettuavano un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore.
- Il Q. -i cui turni seguivano lo schema 7/13, 13/20, 20/7- svolgeva nel turno pomeridiano un orario di sette ore e nel turno notturno un orario di undici ore. Egli non avrebbe potuto usufruire del servizio di mensa istituito dalla Azienda Ospedaliera perché non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e non vi era un servizio di mensa serale. Pertanto, doveva riconoscersi il suo diritto ai buoni pasto.
- Doveva altresì confermarsi il capo della sentenza del Tribunale sul risarcimento del danno, per avere l’appellato provveduto a proprie spese al pasto.
- Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la Azienda Ospedaliera, articolato in un unico motivo, cui P. Q. ha resistito con controricorso.
- La Azienda Ospedaliera ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
- Con l’unico motivo di ricorso la Azienda Ospedaliera ha dedotto— ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 cod.proc.civ.— violazione e falsa applicazione dell’articolo 29, comma 2, CCNL Comparto sanità del 7 aprile 1999, modificato ed integrato dal CCNL in data 20.9.2001 nonché dell’articolo 8 D.Lgs. nr. 66/2003, per avere la sentenza impugnata erroneamente identificato il diritto alla pausa con il diritto alla mensa.
- Ha dedotto che a tenore della norma contrattuale il criterio per riconoscere il diritto alla mensa era la impossibilità, in relazione alla articolazione dell’orario di lavoro, di pranzare fuori dall’ambiente di lavoro.
- Il Q. poteva provvedere alla consumazione del pasto prima di iniziare il turno pomeridiano ed il turno notturno. La norma dell’articolo 8 D.Lgs. nr. 66/2003 non attribuiva il diritto alla mensa ma disciplinava esclusivamente il diritto alla pausa, essendo soltanto una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa.
- La proposta interpretazione trovava conferma nel disposto dell’articolo 45 CCNL 14.9.2000, a tenore del quale possono usufruire della mensa i dipendenti che prestano attività lavorativa di mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane.
- Il ricorso è infondato.
- Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore (Cass. 28.11.2019 nr. 31137 e giurisprudenza ivi citata); proprio per la suindicata natura il diritto al buono pasto è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono ( da ultimo, Cass. 21 ottobre 2020 nr. 22985).
- Nella fattispecie di causa viene dunque in rilievo l’art. 29 del CCNL 20 settembre 2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, a tenore del quale:
- Le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l’esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive.
- Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario.
- Il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro. Il tempo impiegato per il consumo del pasto è rilevato con i normali mezzi di controllo dell’orario e non deve essere superiore a trenta minuti.
- Il costo del pasto determinato in sostituzione del servizio mensa non può superare L. 10.000. Il dipendente è tenuto a contribuire in ogni caso nella misura fissa di L. 2000 per ogni pasto. Il pasto non è monetizzabile.
- Sono disapplicati il D.P.R. n. 270 del 1987, art. 33 e D.P.R. n. 384 del 1990, art. 68, comma 2.
- Tale disposizione è stata poi modificata, nei commi 1 e 4, dall’articolo 4 del CCNL del 31 luglio 2009 (biennio economico 2008-2009), nei seguenti sensi:
- Le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l’esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive. In ogni caso l’organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell’autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all’esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori.
4. Le Regioni, sulla base di rilevazioni relative al costo della vita nei diversi ambiti regionali e al contesto socio-sanitario di riferimento, possono fornire alle aziende indicazioni in merito alla valorizzazione – nel quadro delle risorse disponibili – dei servizi di mensa nel rispetto della partecipazione economica del dipendente finora prevista. Nel caso di erogazione dell’esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive, queste ultime non possono comunque avere un valore economico inferiore a quello in atto ed il dipendente è tenuto a contribuire nella misura di un quinto del costo unitario del pasto. Il pasto non è monetizzabile. - Non è invece conferente al giudizio la norma dell’articolo 45 CCNL 14.9.2000, richiamata dalla Azienda Ospedaliera, in quanto relativa al diverso comparto Regioni ed Autonomie Locali.
- Così esposte le previsioni contrattuali, la questione di causa consiste nello stabilire quale sia la «particolare articolazione dell’orario» che, ai sensi del comma 2 del richiamato articolo 29 CCNL Integrativo Sanità, attribuisce il diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio.
- L’articolo 26 del CCNL Sanità 1998/2001, del 7.4.1999, sull’orario di lavoro, non contiene utili indicazioni sul punto, in quanto si limita a stabilire un orario di lavoro settimanale di 36 ore ed a fissare i criteri generali per la sua distribuzione.
- Un chiaro indice interpretativo si trae, comunque, dalla disposizione del comma 3 del medesimo articolo 29 CCNL Integrativo 20.9.2001, a tenore del quale il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro ed il tempo a tal fine impiegato è rilevato con i normali strumenti di controllo dell’orario e non deve essere superiore a 30 minuti.
- Da tale norma si ricava che la fruizione del pasto, ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto, è prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato; diversamente, non potrebbe esercitarsi alcun controllo sulla sua durata.
- Si può dunque convenire sul fatto che la «particolare articolazione dell’orario di lavoro» è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro.
- Di qui il rilievo del D.Lgs. 8 aprile 2003 nr. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), articolo 8, a tenore del quale il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto; le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro ed, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
- Anche nel testo legislativo, dunque, la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro ed avviene nel corso della stessa.
- La stessa difesa di parte ricorrente lega il diritto alla mensa ad una obbligatoria sosta lavorativa ma assume che la norma contrattuale richiederebbe, altresì, che la attività lavorativa sia prestata «nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto»; una eventuale volontà della parti sociali in tal senso sarebbe stata, tuttavia, chiaramente espressa, con l’ indicazione di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa, fasce che non sono, invece, previste.
- La interpretazione esposta, secondo cui il diritto alla mensa ex articolo 29, comma 2, CCNL Integrativo Sanità 20.9.2001 è legato al diritto alla pausa, è coerente con i principi già enunciati da questa Corte, con sentenza 28 novembre 2019 nr. 31137, in relazione alle previsioni dell’articolo 40 CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie Fiscali.
- Il giudice del merito ha dunque correttamente interpretato la disposizione contrattuale, con conseguente rigetto dell’impugnazione.
- Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
- Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art.1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002)- della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la impugnazione integralmente rigettata, se dovuto (Cass. SU, 20 febbraio 2020 n. 4315).
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 200 per spese ed € 5.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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