Illegittimità del licenziamento del lavoratore che protesta.

Corte di Cassazione, sentenza n. 14199/2021

Illegittimità del licenziamento del lavoratore che protesta.

di Giovanni Patrizi

1.La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14199 del 24 maggio 2021, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa del lavoratore che mette in scena sul posto di lavoro una protesta per denunciare le condizioni cui è sottoposto.

Al riguardo, la Suprema Corte -nel confermare l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore per aver protestato sul luogo di lavoro- ha chiarito che la condotta da questi tenuta non può essere considerata fraudolenta, in quanto non idonea a indurre in errore il datore di lavoro, destinatario della protesta platealmente inscenata. Peraltro, il fatto che non si fosse verificato un reale allontanamento e che ognuna delle manifestazioni fosse durata pochi minuti deve ritenere non giustificata la sanzione espulsiva irrogata. La condotta, infatti, non giustifica il recesso, potendo per lo più essere motivo per una sanzione conservativa.

E’ illegittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che avvia una protesta, sul posto di lavoro, per denunciare le condizioni cui è sottoposto. Secondo la Suprema Corte, la condotta del lavoratore non può essere considerata fraudolenta, in quanto non idonea a indurre in errore il datore di lavoro, destinatario della protesta platealmente inscenata.

2.Il Comune di Pagani aveva licenziato un dipendente per avere “in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio”; aveva aggiunto che in quelle occasioni il dipendente era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e lesive della salute.

In diritto il dipendente ha osservato che l’illecito disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e, pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perché al contrario il dipendente aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria. Ha aggiunto che anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva giustificare la sanzione del licenziamento perché: a) il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; b) le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti.

I giudici hanno statuito che la condotta tenuta dal lavoratore non poteva considerarsi fraudolenta perché non idonea a indurre in errore il datore di lavoro a cui era rivolta la protesta inscenata. Inoltre, non si era proceduto ad un reale allontanamento del lavoratore dal posto di lavoro e le manifestazioni erano durate pochi minuti, tali da non ritenere giustificata la sanzione espulsiva irrogata. In conclusione, la Corte di Cassazione afferma che la condotta posta in essere dal lavoratore non è tale da giustificare la misura estrema del licenziamento bensì può essere motivo per una sanzione conservativa.

La Suprema Corte, rigettando le argomentazioni del Comune, ha stabilito che ai principi di diritto condivisi dal Collegio si è correttamente attenuta la Corte territoriale che ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi, perché ha innanzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

 

Testo della sentenza

 Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-05-2021, n. 14199

[…] LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

[…]

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6037/2019 proposto da:

COMUNE DI PAGANI, in persona del Sindaco pro tempore […]
-ricorrente principale- controricorrente incidentale-

contro

N.M. […] -controricorrente- ricorrente incidentale-

avverso la sentenza n. 707/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO R.G.N. 496/2018;

udita la relazione della causa […];

udito il P.M. […], che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

[…]

Svolgimento del processo

  1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il reclamo proposto, ex art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012, dal Comune di Pagani avverso la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva accolto il ricorso di M. N. e, revocata l’ordinanza emessa in fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dal Comune il 12 agosto 2016 e condannato l’ente locale a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso l’indennità risarcitoria quantificata in € 15.947,10.
  2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che al N. era stato contestato l’illecito disciplinare tipizzato dall’art. 55 quater, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 165/2001, nonché dalla disposizione di eguale contenuto dettata dall’art. 59, comma 9, n. 2 del CCNL per il personale del comparto funzioni locali, per avere «in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio». Ha aggiunto che in quelle occasioni il N. era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e lesive della salute.
  3. In diritto ha osservato che l’illecito disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e, pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perché al contrario il N. aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria. Ha aggiunto che anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva giustificare la sanzione del licenziamento perché: il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti; non era emerso che il dipendente si fosse sottratto a specifici ordini o avesse omesso di attendere alle incombenze demandategli; non si trattava di una reiterazione degli episodi contestati come recidiva, bensì di un comportamento critico assunto nei confronti dell’amministrazione da dipendente pacificamente attivo anche sul versante sindacale.
  4. La Corte salernitana ha respinto anche il reclamo proposto in via incidentale dal N. per censurare la statuizione di compensazione delle spese del giudizio di primo grado e, richiamate le sentenze della Corte Costituzionale nn. 77 e 190 del 2018, ha ritenuto che la pronuncia fosse condivisibile alla luce «della peculiarità e della controvertibilità della questione trattata, interessata anche da pronunce chiarificatrici della Suprema Corte intervenute in corso di causa». Per le medesime ragioni, oltre che per la soccombenza reciproca, ha compensato anche le spese del giudizio di reclamo.
  5. Per la cassazione della sentenza il Comune di Pagani ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha replicato M. N., che ha notificato controricorso, con ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

Ragioni della decisione

  1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia, ex art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. « omesso esame e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia; violazione dell’art. 55 quater, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 165/2001; violazione dei principi di cui al codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con d.P.R. n. 60/2013» e sostiene, in sintesi, che integra giusta causa di licenziamento ogni ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio se compiuta con modalità fraudolente, a prescindere dalla durata temporale dell’assenza. Rileva che il N. aveva utilizzato il badge allontanandosi dal luogo di lavoro e, pertanto, non poteva la Corte territoriale ritenere illegittima la sanzione, tanto più che la condotta era stata pacificamente provata attraverso la produzione documentale. Richiama gli obblighi di correttezza e buona fede ed aggiunge che la Corte territoriale ha anche errato nell’escludere la contestata la recidiva. Infine addebita al giudice del reclamo di avere posto a fondamento della decisione argomenti non fondati sulle risultanze di causa.
  2. La seconda censura denuncia «violazione dell’art. 112 c.p.c. e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia » in relazione al rigetto della richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale, inserito solo nel dispositivo e non motivato.
  3. Il ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. nel compensare erroneamente le spese di entrambi gradi del giudizio di merito in difetto delle «gravi ed eccezionali ragioni» richieste dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva n. 77/2018.
  4. Il ricorso principale è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

Da tempo questa Corte, nell’interpretare l’art. 55 quater, lett. a) del d.lgs. n. 165/2001, ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).

La disposizione normativa è stata, inoltre, interpretata alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 cod. civ. per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).

Ai richiamati principi di diritto, condivisi dal Collegio e qui ribaditi, si è correttamente attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi perché ha innanzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

4.1. Il primo motivo del ricorso principale, che insiste sulla tassatività delle ipotesi di licenziamento previste dal richiamato art. 55 quater, non si confronta con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte, non coglie pienamente il decisum della sentenza impugnata ed inoltre, per dimostrare l’erroneità della pronuncia, fa leva su argomenti di fatto, non di diritto, che finiscono per sollecitare un giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ( cfr. fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass. n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie perché, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di interpretazione dell’art. 55 quater lett. a) del d.lgs. n. 165/2001, di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso principale finiscono tutti per prospettare una diversa lettura delle risultanze di causa.

Le censure mosse alla ricostruzione dei fatti esulano dai limiti del riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 che rinvia a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018) che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo, al quale non può essere ricondotta la mancata o l’errata valutazione di una risultanza istruttoria quando il fatto storico sia stato comunque apprezzato dal giudice del merito.

  1. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del ricorso principale perché il vizio di omessa pronuncia è ravvisabile solo qualora il giudice ometta di statuire sulla domanda o su eccezioni di merito, mentre non può essere denunciato nel caso in cui la questione non esaminata rilevi unicamente sul piano processuale (Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 6174/2018).

Va aggiunto che il potere di sospensione dell’efficacia della sentenza reclamata, da esercitare in presenza di «gravi motivi», è finalizzato ad impedire che la decisione gravata, che appare ingiusta ad una delibazione sommaria, produca effetti nelle more del giudizio di appello, esponendo ad un pregiudizio patrimoniale la parte soccombente (Cass. n. 4060/20005). Il provvedimento di sospensione è per definizione temporaneo ed è destinato ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio d’impugnazione sicché il giudice d’appello, nei casi in cui all’udienza di discussione definisca la causa, non è tenuto a provvedere sulla richiesta di sospensione con un’autonoma statuizione della sentenza che definisce il giudizio di impugnazione, perché quest’ultima, per il suo carattere sostitutivo, assorbe interamente l’efficacia di quella di primo grado (Cass. n. 19708/2015).

  1. Merita, invece, accoglimento il ricorso incidentale.

Occorre premettere che la Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 13 del d.l. n. 132/2014, «nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni». Nella motivazione della pronuncia la Corte ha precisato che le ipotesi illegittimamente non considerate dal legislatore devono rivestire il carattere di gravità ed eccezionalità al pari di quelle tipizzate, ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, che «hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale» ( punto 16 della pronuncia). Questa Corte ha già affermato che, poiché gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, la valutazione sulla fondatezza o meno del ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 92 cod. proc. civ., deve tener conto della «situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi» (Cass. n. 4360/2019).

I medesimi principi valgono per il giudizio di appello, qualora nello stesso venga impugnato il regolamento delle spese disposto dalla sentenza gravata, e, quindi, nella fattispecie la Corte territoriale, nel decidere il reclamo incidentale, era tenuta  ad applicare l’art. 92 cod. proc. civ., nel testo risultante dalla pronuncia additiva resa dalla Corte Costituzionale, non rilevando la data di pubblicazione della sentenza del Tribunale ( 4 aprile 2018).

6.1. Ciò premesso, deve essere ribadito l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le gravi ed eccezionali ragioni, al pari di ogni altra clausola generale, devono essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio, in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 9977/2019; Cass. n. n. 23059/2018) e la Corte di Cassazione ha il potere di rilevare l’erroneità o l’illogicità del parametro utilizzato.

Nel caso di specie la sentenza additiva della Corte Costituzionale ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale, alle quali, all’evidenza, non possono essere equiparate «la peculiarità e la controvertibilità della questione». Va aggiunto che «le pronunce chiarificatrici» rese da questa Corte sull’interpretazione dell’art. 55 quater, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001, hanno richiamato principi già affermati, quanto al divieto di automatismi espulsivi, da Cass. n. 1351 del 26 gennaio 2016, la cui motivazione è riferibile a tutte le ipotesi previste dalla norma di legge, sicché già al momento dell’instaurazione del giudizio di primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può giustificare la pronuncia di compensazione.

6.2. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata limitatamente al regolamento delle spese e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con la condanna del Comune di Pagani al pagamento, in favore di M. N., delle spese processuali di tutti i gradi e le fasi del giudizio, liquidate come da dispositivo, che vanno distratte in favore dell’Avv. M.A., dichiaratosi antistatario.

Al riguardo ritiene il Collegio che l’art. 384 cod. proc. civ. debba essere interpretato alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice, quando il giudice rinviante potrebbe da sé solo svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata.

Va anche osservato che in tema di spese processuali l’art. 385, secondo comma, cod. proc. civ. accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito, quando la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio, sicché sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità (Cass. n. 1761/2014 e Cass. n. 211/2016).

  1. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente principale.

P.Q.M.

accoglie il ricorso incidentale e dichiara inammissibile il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Comune di Pagani a rifondere a M. N. le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, con distrazione in favore del procuratore antistatario Avv. M.A., liquidate quanto al primo grado (fase sommaria e giudizio di opposizione) in complessivi € 200,00 per esborsi ed € 7.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge; quanto al reclamo in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Condanna il Comune di Pagani al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 200,00 per esborsi ed C 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario Avv. M.A..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021