Insubordinazione del lavoratore. Rassegna di giurisprudenza

Rassegna di giurisprudenza in tema di insubordinazione del lavoratore.

a cura di Giovanni Patrizi

Cass. 31395/2019

Sul diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

La Corte ribadisce che per la liceità delle critiche rivolte dal lavoratore al datore di lavoro è necessario il rispetto dei limiti della continenza sostanziale (i fatti denunciati devono essere veri) e della continenza formale (espressioni non sconvenienti o ingiuriose), dichiarando nullo perché discriminatorio il licenziamento di un sindacalista interno che aveva pubblicato su un giornale critiche sui pesanti ritmi di lavoro in azienda, per le modalità di espletamento della prestazione, per l’insufficienza di organico etc., tutti fatti corrispondenti a realtà, esposti con una critica misurata.

Cass. 22636/2019

Al lavoratore è stato contestato di avere aggredito il capo ufficio, verbalmente e anche in modo fisico, brandendo un bastone, ma poi, fermato per l’intervento di altri due dipendenti e proseguendo, in un secondo tempo, con l’aggressione verbale, fin dentro l’ufficio del predetto capo ufficio, ove aveva lanciato il cordless aziendale in dotazione contro il muro dell’ufficio distruggendolo.

Alla contestazione è seguito il licenziamento per giusta causa, anche ai sensi dell’art. 69 del CCNL Unionmeccanica applicato al rapporto di lavoro, il quale prevede tra l’altro la sanzione espulsiva (lett. e n. 9) nei casi di “alterchi con vie di fatto, ingiurie, disordini, risse o violenze, sia al di fuori che all’interno dei reparti di lavorazione o degli uffici”.

Il lavoratore ha lamentato la non corretta sussunzione della condotta addebitatagli in quella prevista dalla contrattazione collettiva, ritenendo che la stessa avrebbe dovuto, in pratica, qualificarsi come “alterco senza vie di fatto con contegno minaccioso”, punibile con sanzione conservativa.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che per “alterco”, invero, deve intendersi qualsiasi discussione, o litigio, animata e scomposta tra due persone; se connotato dalle cd. “vie di fatto“, invece, occorre che tale diverbio sia stato caratterizzato da un ricorso alla violenza, intesa come estrinsecazione di energia fisica trasmodante in un pregiudizio fisico, anche tentato, verso una persona o una cosa, ad opera di un uomo. Nella fattispecie, l’avere il dipendente brandito un bastone, fermato poi dall’intervento di altri dipendenti, e l’avere distrutto un telefono aziendale lanciandolo contro il muro, rappresenta senza dubbio un comportamento violento concretante le cd. “vie di fatto” secondo l’accezione sopra delineata, e non un contegno meramente minaccioso, mancando a quest’ultimo, che agisce attraverso la via mediata dell’intelletto, l’estremo del pregiudizio fisico, invece presente nella condotta del C.”. Le cd. “vie di fatto” rappresentano, pertanto, al pari della minaccia, una modalità attraverso cui può realizzarsi l’alterco ma sono tra di loro alternative. […]. La Corte di merito, poi, conformemente all’orientamento di legittimità (Cass. n. 2830/2016; Cass. n. 16260/20041), secondo cui alla ricorrenza di una delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva non può conseguire automaticamente il giudizio di legittimità del licenziamento, ma occorre sempre che la fattispecie tipizzata contrattualmente sia riconducibile alla nozione di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, ha verificato tale requisito precisando che la condotta addebitata integrasse senz’altro una manchevolezza che per la sua gravità risultava punibile con il licenziamento, da considerarsi, quindi, sanzione proporzionata al fatto”.

Cass. S.L. 30695/2018

A seguito di un appunto dello chef sulla preparazione di una lavorazione, il lavoratore aveva pronunciato la seguente frase: “va andò vuoi tu tanto io sono coperto, non tengo paura è te, e statte attiente perché io vengo appriesse a te” e, dopo essersi recato in infermeria ed essere stato dimesso alle ore 11.05, non aveva ripreso servizio fino alle 12,40.

I giudici di merito hanno considerato la condotta come negligenza, con un ridotto danno aziendale per il conseguito disservizio riconducibile al “taglio della provola a pezzetti ed il ritardato rientro in cucina”. Hanno ritenuto la mancanza, pur sussistente, non tale da giustificare il licenziamento. Pertanto, hanno condannato il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto ed al risarcimento ex art. 18, IV comma, L.300/1970.

Il datore di lavoro ha presentato, dopo i gradi di merito, ricorso per la cassazione, fra l’altro lamentando che è stato qualificato come negligenza un comportamento che in realtà integrava una grave insubordinazione con comportamento oltraggioso; perciò, in mancanza di tale qualificazione, il giudice di merito ha qualificato la condotta del dipendente come “comportamento negligente passibile di sanzione conservativa”, richiamando la disposizione di cui all’art. 138 e 7 CCNL applicabile (Turismo) e, in particolare, alle ipotesi ivi previste dell’abbandono del posto di lavoro, del ritardo senza giustificato motivo dell’inizio della prestazione, dell’esecuzione del lavoro con negligenza e della disattenzione o negligenza a causa delle quali il lavoratore provochi un guasto non grave a cose o impianti aziendali, punibili con sanzioni conservative.

La Corte di Cassazione adita dal datore di lavoro ha ritenuto che “correttamente la gravata sentenza ha qualificato la vicenda in questione come erronea esecuzione della prestazione, solo in parte conforme agli ordini impartiti, ovvero di una disattenzione che ha provocato un guasto non grave ad un materiale di produzione e non già in un rifiuto volontario e cosciente della prestazione mancando, in sostanza, il presupposto della negazione del rispetto delle direttive aziendali mediante una consapevole ostruzione agli ordini dei propri superiori”.

Esclusa l’insubordinazione – così prosegue la motivazione della Suprema Corte – in modo condivisibile le varie scansioni comportamentali, non più da considerarsi avvinte da un intento di consapevole mancato rispetto delle direttive aziendali, sono state valutate nella loro autonoma entità (erronea parziale esecuzione della prestazione, diverbio litigioso non seguito da vie di fatto e occasionale abbandono del posto di lavoro ovvero ritardo dell’inizio della prestazione lavorativa senza giustificato motivo) e, come tali, disciplinate e punite con sanzioni conservative dalla contrattazione collettiva.

Con riguardo all’aspetto economico, i giudici di secondo grado in modo puntuale hanno evidenziato che la non corretta esecuzione della prestazione non ha impedito l’erogazione del servizio mensa in modo puntuale e corrispondente alla richiesta dell’utenza e, pertanto, in sostanza non ha determinato alcun danno.

La sentenza conclude che la Corte di merito si è attenuta al principio secondo cui l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr. Cass. 12.2.2016 n. 2830; Cass. 18.2.2011 n. 4046) ed ha escluso, con argomentazioni giuridicamente corrette e congruamente motivate – insindacabili in punto di fatto e non censurate, sotto il profilo della violazione degli standard, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale – la sussistenza di una compromissione degli interessi del datore di lavoro e di una violazione degli obblighi del dipendente, tale da assurgere a quel livello di particolare rilevanza desumibile anche dalla contrattazione collettiva quale parametro della lesione del vincolo fiduciario tra le parti.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.

 

Cass. S.L. 19092/2018

Il lavoratore, di fronte alla negazione di un permesso, proferisce, alla presenza del Direttore Generale e di un dipendente, frasi ingiuriose all’indirizzo del primo, percepite da altri colleghi e da due ospiti esterni, violando i doveri di diligenza buona fede e correttezza e perseverando deliberatamente nella reiterazione di comportamenti scorretti ed inadempienti delle obbligazioni del prestatore di lavoro. Viene licenziato per giusta causa.

Il primo giudice, Tribunale di Sassari, dichiara illegittimo il licenziamento. La Corte d’Appello di Cagliari riforma la prima sentenza e dichiara legittimo il licenziamento.

Nella sentenza di secondo grado – riferisce la Corte di Cassazione – “era stata raggiunta la prova in ordine alla sussistenza materiale del fatto, peraltro pacificamente sostenuta dall’elemento intenzionale, apparendo inconcepibile la pronunzia delle espressioni attribuite al C. (“non me ne frega un c….” e “testa di c….”) ivi comprese quelle in ordine alla responsabilità per la rovina dell’azienda, in assenza di volontà offensiva, intrinseca nelle espressioni utilizzate. Ancora la Corte d’Appello ha ritenuto che “la condotta del lavoratore costituiva un comportamento non solo di gravissima insubordinazione, ma contrario alle norme di comune etica e del comune vivere civile, posto in essere in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede ed idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso per giusta causa.

Perciò, secondo i giudici di legittimità, “la Corte territoriale, con adeguata argomentazione, ha operato la valutazione di gravità alla luce degli standards specifici, desunti dalla realtà aziendale e dalle sue regole, nonché dalle nozioni e dai valori generalmente condivisi. Ha, infatti, esaminato la condotta alla luce del parametro dei doveri del lavoratore come delineati dalla contrattazione collettiva ed ha argomentato che i comportamenti apparivano coerenti e pienamente rientranti nella fattispecie di riferimento sia quanto alla loro portata oggettiva che sotto il profilo della gravità che connota le condotte che legittimano il licenziamento secondo le previsioni della contrattazione collettiva applicabile; ha aggiunto che tali comportamenti erano comunque contrari alle norme dell’etica e del comune vivere civile, posti in essere con violazione dei doveri di correttezza e diligenza e buona fede ed idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario ed a giustificare il recesso per giusta causa”.

Infine la Corte di Cassazione ha motivato che  il permesso fosse relativo ad un impegno (visita medica) programmato da tempo sicché bene avrebbe potuto il C., non trattandosi di urgenza, richiedere il permesso assicurando al datore il modo ed il tempo opportuni ad organizzare la propria attività; inoltre, dalla lettura della sentenza si evince che il lavoratore nel proferire le frasi all’indirizzo del Direttore Generale “tenne un tono di voce molto elevato tanto da potere essere chiaramente sentito da lavoratori che si trovavano in altri uffici” e che di fatto tali espressioni vennero sicuramente percepite dalla teste F. e dal T.

Tanto basta per ritenere che, se “anche la condotta fosse da inscrivere nell’ambito di una legittima manifestazione del diritto di critica, le espressioni utilizzate sono state ritenute non rispondenti al principio di continenza sostanziale e formale che deve comunque essere rispettato dal lavoratore che avanzi un giudizio sull’operato del datore di lavoro, alla stregua di quanto affermato da questa Corte, secondo cui l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell’esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. 18.9.2013 n. 21362)”. Ancora: “l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa (cfr. Cass. 26.10.2016 n. 21649), rilevando i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio (cfr. Cass. 26.9.2017 n. 22375).

 

Cass. S.L. 10280/2018

La condotta contestata e posta a base del licenziamento consisteva in affermazioni pubblicate dalla dipendente sulla propria bacheca virtuale di Facebook, in cui si esprimeva disprezzo per l’azienda (“mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà”) con irrilevanza della specificazione del nominativo del rappresentante della stessa, essendo facilmente identificabile il destinatario. Inoltre, la dipendente ha mostrato mancanza di ogni segno di pentimento, dopo la fase reattiva, andando oltre il contegno diffamatorio, laddove era stato anche prospettato il ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi, e ciò da parte di soggetto caratterizzantesi per documentata e frequente morbilità.

La valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.

Ciò comporta che la condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto correttamente motivato il giudizio della Corte d’Appello circa la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

 

Cass. S.L. 20099/2017

Costituisce giusta causa di licenziamento l’aver rivolto frasi ingiuriose e minacciose al superiore gerarchico, il quale aveva ripreso il dipendente che, in violazione di norma disciplinare, era uscito senza autorizzazione dall’officina.

 

Cass. S.L. 19977/2017

Costituisce giusta causa di licenziamento la condotta insubordinata consistente nell’avere una lavoratrice non accettato una contestazione disciplinare, rifiutando di sottoscriverla e, inviata dall’amministratrice a lasciare la stanza di questa, essersi rifiutata di farlo, tanto da dover essere messa alla porta e, infine, essersi allontanata continuando ad inveire contro il datore di lavoro con frasi ingiuriose.

 

Cass. 13383/2017

Diritto di difesa (anche nei procedimenti disciplinari), diritto di critica e diritto di cronaca.

Ai fini della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare nel regime della “legge Fornero”, il fatto contestato deve ritenersi non sussistente se non è giuridicamente illecito.

La sentenza analizza anzitutto la diversa portata dei limiti al diritto di difesa rispetto a quelli riferibili al diritto di critica e al diritto di cronaca nel caso di un dipendente licenziato perché nelle giustificazioni da una contestazione disciplinare aveva accusato il superiore di condurre una guerra personale contro di lui.

Come noto, la cd. “legge Fornero£ distingue(va), ai fini della tutela dai licenziamenti disciplinari ingiustificati, il caso in cui il fatto contestato non sussista, a cui consegue la reintegrazione del lavoratore, dagli altri casi di ingiustificatezza, che danno luogo unicamente a una tutela indennitaria. Dopo aver giustificato come esercizio del diritto di difesa il comportamento tenuto da un lavoratore in sede di giustificazioni disciplinari (che aveva dato luogo al suo licenziamento), la Corte riconduce l’ipotesi alla fattispecie “insussistenza del fatto contestato”, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, così aderendo all’ampio orientamento che interpreta il “fatto” come quello giuridicamente illecito.

 

Cass. S.L. 11027/2017

Alterco, all’esito del quale il dipendente rivolge un’espressione ingiuriosa al superiore gerarchico.

L’art. 38 del CCNL Industria della Carta, applicato al rapporto, assoggetta l’alterco nello stabilimento, non seguito da vie di fatto (ossia non seguito da violenze fisiche), alla mera sanzione conservativa della multa o della sospensione.

Non si tratta di insubordinazione, anche se l’alterco e l’ingiuria sono intervenute tra subordinato e superiore gerarchico. In proposito “Né la qualità personale del destinatario dell’espressione ingiuriosa di per sè trasforma in insubordinazione quel che è un mero alterco o diverbio, vale a dire quello che i vocabolari della lingua italiana definiscono come “scambio aspro e scomposto di parole e/o di insulti”, o come “lite verbale” o come “discussione molto animata”. Ciò valga a maggior ragione ove si consideri che l’episodio per cui è causa è avvenuto davanti alla macchinetta del caffè pochi minuti prima dell’inizio del turno (come si legge nella sentenza impugnata), vale a dire nello stabilimento, ma non durante l’orario di lavoro. E’ dunque inconferente il rinvio invocato da parte ricorrente a Cass. n. 9635/16 che, in motivazione, ammette che l’insubordinazione possa altresì ravvisarsi nella critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti: deve infatti escludersi che i vincoli gerarchici tra le persone si estendano anche al di fuori dell’orario di lavoro e che ad essi debbano essere improntati tutti i rapporti fra loro. […] se la volontà delle parti collettive, recepita nel contratto individuale di lavoro, ha esplicitamente negato l’applicabilità della sanzione espulsiva ove l’alterco nello stabilimento non sia seguito da vie di fatto (come nel caso in oggetto), all’interprete resta precluso un diverso apprezzamento. Cosa diversa – ovviamente – è che un dato c.c.n.l. elenchi in modo meramente esemplificativo le infrazioni passibili di licenziamento: ciò può consentire, se del caso, di estenderne il novero ad ipotesi non previste da alcuna clausola contrattuale (sempre nel rispetto degli artt. 2119 e 2016 c.c.), non già di trasformare in giusta causa di recesso una condotta che le parti collettive hanno espressamente considerato come suscettibile di mera sanzione conservativa”.

Quindi il licenziamento per giusta causa è illegittimo.

Non è irrilevante l’avere il subordinato rivolto insulti al superiore fuori dall’orario di lavoro per pochi minuti (magari un minuto). Forse il giudice avrebbe dovuto – se le parti del processo glielo avessero consentito – dare peso al motivo del diverbio invece che al fatto che è avvenuto poco (molto poco) prima di cominciare il lavoro. Ove il diverbio fosse scaturito da motivi di servizio, avrebbe potuto essere ritenuto attinente alla prestazione di lavoro, con la conseguenza di qualificarlo insubordinazione grave. Ove fosse scaturito da altri motivi, avrebbe potuto essere ritenuto rientrante nella sfera privata degli interessati, estranea al rapporto di lavoro.  

 

Cass. S.L. 9156/2017

Costituisce giusta causa di licenziamento la condotta consistita nel rifiuto di ricevere le istruzioni del capo turno e del supervisore del controllo qualità della divisione motori, a seguito della riattivazione del sistema informatico, sulle modalità operative del controllo dei motori, nonché nell’offesa, con espressioni volgari e provocatorie, nei confronti dei superiori e nella irrisione del supervisore in presenza di altri dipendenti.

Il rifiuto si era protratto per i successivi due giorni ed i motori erano stati classificati come in regola in assenza del controllo, costringendo il datore di lavoro a distogliere altri dipendenti dalle mansioni per la corretta individuazione delle anomalie. Per la valutazione della lesione del vincolo fiduciario rileva l’intensità del dolo (protrazione per due giorni dell’insubordinazione), che elide qualunque considerazione sulla tenuità del danno.

 

Cass. S.L. 9635/2016

1.Il dipendente rivolge espressioni ingiuriose (insulti) al superiore gerarchico e indirettamente a tutta la dirigenza.

La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere le disposizioni impartite dai superiori ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale.

La critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza risente pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.

Né contrari argomenti possono ritrarsi dalla circostanza (pure valorizzata dalla Corte di merito) secondo cui il CCNL tipizzerebbe come ipotesi di giusta causa di recesso soltanto condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive: la “giusta causa” di licenziamento è nozione legale e il giudice non può ritenersi vincolato dalle previsioni dettate al riguardo dal contratto collettivo, potendo e dovendo ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

2.Ancora: Insubordinazione del dipendente: rispondere male al superiore o al datore di lavoro dell’azienda presso cui si lavora comporta il licenziamento anche senza bisogno di gesti violenti.
Il dipendente non può screditare e insultare il superiore gerarchico dell’azienda in cui lavora agli occhi degli altri lavoratori o rispondergli in modo offensivo: si tratta di insubordinazione che consente il licenziamento in tronco (cosiddetto “per giusta causa”), che non richiede quindi neanche il preavviso.

Secondo la Corte, l’insubordinazione non si limita al semplice rifiuto di svolgere le proprie mansioni, ma si estende a tutte le condotte che pregiudicano l’autorevolezza di cui godono dirigenti e quadri intermedi.

È legittimo quindi il licenziamento per la critica rivolta al superiore gerarchico con espressioni ingiuriose. Per la Cassazione l’efficienza dell’organizzazione aziendale dipende anche dall’autorevolezza dei suoi dirigenti ai quali non possono essere attribuite qualità disonorevoli. Né si può giustificare l’ingiuria proferita dal dipendente con l’abitudine lessicale di quest’ultimo ad usare determinate espressioni volgari o violente: insomma nessun criterio relativo nel giudizio sui dipendenti, ma tutti vanno valutati con gli stessi metri e giudizi.

Nel caso di specie, un lavoratore si era reso protagonista di alcuni episodi di dura contestazione, attraverso frasi ingiuriose, verso un suo superiore. Secondo la Cassazione, però, scatta l’insubordinazione anche nei casi di critica rivolta ai superiori con “modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti”. Il che è suscettibile di provocare un danno all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima si basa soprattutto sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi; tale autorevolezza non può non essere messa in discussione dal lavoratore che, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.

Secondo la Corte, inoltre, affinché l’insulto rivolto al superiore gerarchico possa giustificare il licenziamento in tronco non è necessario che si concretizzi in gesti violenti. Anche se il contratto collettivo nazionale non prevede la condotta ingiuriosa come causa di licenziamento, il giudice non è vincolato all’elencazione contenuta nel Ccnl: detta condotta, infatti, è di per sé grave in quanto mina l’autorità del datore e compromette il regolare funzionamento dell’organizzazione aziendale.
La sentenza segna una netta presa di posizione, da parte della Cassazione, su un tema che, in passato, è stato oggetto di numerosi contrasti da parte della giurisprudenza.

L’insubordinazione. A questo punto risulta necessario chiarire quale condotta possa considerarsi un’offesa al datore e quale, invece, esercizio della normale critica. In realtà questo punto non viene chiarito in modo preciso dalla Corte (né potrebbe essere altrimenti, sconfinandosi altrimenti in un eccesso di casismo): i giudici si limitano a parlare di “modalità che esorbitano dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti”. L’insubordinazione, osserva la sentenza, si concretizza ogni volta che il dipendente adotta una condotta capace di pregiudicare lo svolgimento del lavoro nel quadro dell’organizzazione aziendale.
Tra queste condotte, prosegue la pronuncia, può rientrare la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di mantenere dei toni che siano corretti nella forma e nella sostanza, in quanto questo comportamento può minare l’autorevolezza dei dirigenti o dei quadri che subiscono la critica illecita e, quindi, mette a repentaglio l’efficienza dell’organizzazione aziendale.

 

Cass. S.L. 8236/2016

Al ricorrente è stato contestato di avere, durante l’orario di lavoro, eseguito attività per conto proprio, fuori della postazione di lavoro senza alcun permesso e utilizzando attrezzature sulle quali non era stato preventivamente addestrato.

[…] il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso, rimesso al giudice di merito, si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore In relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi in considerazione la circostanza che, a tutela del lavoratore, il suo inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

Tale valutazione di notevole inadempimento, che deve necessariamente tenere conto delle peculiarità della singola fattispecie e, pertanto, del complesso di circostanze che concretamente la definiscono […].

La Corte, infatti, in primo luogo fonda il proprio giudizio di gravità sul rilievo secondo il quale la condotta ascritta al lavoratore costituirebbe una forma di insubordinazione; osserva, quindi, che destinare il tempo retribuito dal datore di lavoro e i beni aziendali a scopi personali rappresenta una sorta di appropriazione indebita e che l’utilizzo di una macchina, riguardo alla quale non si è ricevuta adeguata formazione, costituisce fonte (potenziale) di gravi pericoli e di ingenti danni.

E’, tuttavia, evidente che, nella specie, non si è verificata, né risulta contestata, alcuna condotta che possa considerarsi come insubordinazione, la cui nozione è ristretta, in ogni ambito, alla condotta di chi rifiuti di ottemperare ad una direttiva o ad un ordine, giustificato e legittimo, di svolgere una diversa attività o un diverso compito.

Ed è ancora evidente che la Corte territoriale ha posto a fondamento della valutazione di gravità rilievi di portata generale, disgiunti da una pur necessaria analisi del caso concreto e, in particolare, trascurando di fare oggetto di esame la durata del contestato abbandono del posto di lavoro, i tempi e le modalità dell’operazione in corso, la natura della macchina e di ogni altra attrezzatura impiegata per scopi personali, la conseguente ed effettiva necessità di uno specifico addestramento su di essa come l’entità del rischio collegato ad un uso non appropriato.

In definitiva, risulta omesso nella sentenza impugnata ogni specifico riferimento ai profili oggettivi e fattuali dell’episodio oggetto di addebito disciplinare, essendosi dalla Corte territoriale specificamente indagato solo l’aspetto soggettivo rappresentato dal fatto che il lavoratore aveva già ricevuto nei due anni precedenti quattro contestazioni, tre delle quali seguite da sanzione.

In questo caso la Corte di Cassazione, in antitesi con la giurisprudenza quasi costante, propone una nozione di insubordinazione ristretta al rifiuto di obbedire alla direttiva datoriale.

Segue invece l’opinione giurisprudenziale per la quale, nel valutare la gravità della mancanza disciplinare, si deve tener conto di ogni aspetto del caso concreto, valutazione non effettuata dal giudice inferiore.

Segue infine l’opinione dominante anche per quanto riguarda la valutazione dell’inadempimento del lavoratore che giustifichi il licenziamento. L’importanza dell’inadempimento del lavoratore – statuisce la Corte – deve essere maggiore rispetto a quella dell’inadempimento negli altri contratti. 

 

Cass. S.L. 2692/2015

Costituisce insubordinazione lieve l’uso, contro il diretto superiore, di parole offensive e volgari da parte di un lavoratore che si ritenga vittima di una maliziosa delazione, e perciò in stato di transitorio turbamento psichico, senza contestare i poteri dello stesso superiore e senza rifiutare la prestazione lavorativa. Considerato che il contratto collettivo parifica all’insubordinazione grave, giustificativa del licenziamento, gravi reati accertati in sede penale, quali il furto e il danneggiamento, deve ritenere rispettosa del principio di proporzione la decisione della Corte di merito, che non ha riportato il comportamento in questione, certamente illecito, alla più grave delle sanzioni disciplinari.

Licenziamento in tronco (per giusta causa e con effetto immediato) intimato al dipendente per atti di grave insubordinazione (art. 10, lett. a, c.c.n.l. di categoria), consistiti nell’essersi rivolto ad un diretto superiore, che l’aveva invitato a collaborare per una serenità lavorativa nel reparto, con voce alterata e con parole offensive e volgari.

La Corte d’appello ha rilevato che il lavoratore a) aveva parlato nella convinzione di essere vittima di un’ingiusta delazione e perciò in stato di turbamento psichico transitorio, b) non aveva rifiutato nemmeno in parte la prestazione lavorativa c) né aveva inadempiuto alcun obbligo contrattuale e d) tanto meno aveva contestato i poteri dei superiori. I suoi precedenti disciplinari, nel corso di un rapporto iniziato nel 1981, erano stati trascurati dalla stessa datrice di lavoro nella lettera di contestazione dell’addebito.

Infine, la grave insubordinazione, che comportava la sanzione espulsiva, era nel contratto collettivo accostata a gravi reati accertati con sentenza definitiva, quali il furto o il danneggiamento. Ciò considerato, l’illecito disciplinare, certamente sussistente, doveva essere qualificato come insubordinazione lieve, degna di sola sanzione conservativa (art. 9 c.c.n.l.).

La Corte di Cassazione ha ritenuto che non è affetto da alcun errore di diritto il giudizio che riconduce all’insubordinazione lieve l’uso, contro il diretto superiore, di parole offensive e volgari da parte di un lavoratore che si ritenga vittima di una maliziosa delazione, senza contestare i poteri dello stesso superiore e senza rifiutare la prestazione lavorativa. Considerato che il contratto collettivo parifica all’insubordinazione grave, giustificativa del licenziamento, gravi reati accertati in sede penale, quali il furto e il danneggiamento, deve ritenersi rispettosa del principio di proporzione la decisione della Corte di merito, che non ha riportato il comportamento in questione, certamente illecito, alla più grave delle sanzioni disciplinari, tale da privare dei mezzi di sostentamento il lavoratore e la sua famiglia (cfr. art. 36 Cost., comma 1).

In questo caso la Corte di Cassazione ha valutato la gravità (o levità) dell’insubordinazione adottando le previsioni del CCNL come criterio per individuare una scala di valori, quindi non tanto verificando se la condotta è direttamente e specificamente prevista nel CCNL come motivo di licenziamento o di sanzione conservativa.

 

Cass. S.L. 25380/2014

Tecnico informatico arrestato per fatti di pedopornografia, compiuti presso la propria abitazione tramite computer aziendale e linea pagata dal datore di lavoro.

Al lavoratore è stato contestato di aver usato indebitamente il computer aziendale, fornito per motivi di servizio, di non aver comunicato tempestivamente la propria impossibilità di riprendere la prestazione lavorativa, in quanto, in ferie sino al 7.1.08 e sottoposto a misura cautelare in carcere dal 20.12.07 per fatti sopra indicati, di aver comunicato tramite la sorella la propria impossibilità di fare rientro al lavoro alla data prevista, di aver comunicato poi personalmente il suo rientro per i primi di febbraio, adducendo un motivo di assenza non vero, comunque lasciando diverse giornate di assenza non giustificate.

Il Trib. Milano ha ritenuto che il dipendente non era tenuto, neanche in base agli obblighi di correttezza, a comunicare alla datrice di lavoro la causa dell’impossibilità di riprendere il lavoro, né il tipo di reato per cui era stato sottoposto a misura cautelare in carcere; quanto alla contestazione dell’indebito uso del personal computer aziendale, rilevava che il licenziamento, in base al c.c.n.l., era giustificato solo in caso di furto o danneggiamento. Inoltre, nel suddetto personal computer non era risultato alcun materiale pornografico e nessun danno era stato prodotto all’immagine aziendale. Perciò aveva ritenuto insussistente la giusta causa e illegittimo il licenziamento.

La Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza, ha ritenuto integrata la giusta causa di licenziamento.

La motivazione del secondo giudice: “i fatti contestati rientrano sia nella fattispecie prevista dall’art. 25 lettera b) del CCNL, dovendo ritenersi compiuti comunque in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia in quelli passibili di licenziamento ai sensi del codice disciplinare IBM, trattandosi in ogni caso di un utilizzo illegale dello strumento aziendale, sicché comunque essi integravano giusta causa di recesso in quanto idonei a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”. Doveva ritenersi infatti che l’utilizzo della strumentazione informatica di proprietà IBM, assegnata al XX per lo svolgimento delle proprie mansioni, invece utilizzata per fini illeciti, era comportamento di oggettiva gravità, idoneo a giustificare il licenziamento.

Il lavoratore ha presentato ricorso per cassazione, fra l’altro eccependo che le mancanze addebitategli non sono previste dal CCNL come motivi di licenziamento per giusta causa.

La Corte Suprema ha motivato che la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni del CCNL applicato al rapporto. Sicché può ritenersi che la condotta sia contraria alle norme della comune etica e del vivere civile anche se non prevista come giusta causa di licenziamento dal CCNL. Oppure può ritenere che una condotta rientrante fra quelle costituenti giusta causa possa essere ritenuta non sufficiente a giustificare il licenziamento in considerazione delle circostanze concrete che l’hanno caratterizzata.

Considerata inoltre, come rilevato dalla Corte di merito, la rintracciabilità informatica dei collegamenti e contatti effettuati da una postazione informatica comunque riconducibile all’IBM, con possibile danno all’immagine aziendale, e risultando provate sia l’assenza ingiustificata, sia l’assenza di giustificazioni o le giustificazioni non veritiere, sia l’utilizzo indebito del p.c. aziendale, circostanza pure contenuta nella lettera di contestazione (“Le ricordiamo che l’utilizzo del computer portatile come di tutti gli strumenti aziendali è consentito esclusivamente nel rispetto delle regole e per le finalità di lavoro come indicato nelle norme di sicurezza ed utilizzo degli strumenti informatici IBM”), la decisione impugnata non risulta inficiata dalle censure svolte.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto correttamente motivato il giudizio della Corte d’Appello circa la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

 

Corte d’Appello di Roma, 20.2.2018

Un addetto al controllo e manutenzione ascensori, chiamato ad un intervento di sostituzione di componenti nell’esecuzione di un servizio di assistenza in appalto, rifiuta l’intervento.

La Corte commenta che il rifiuto di dare corso ad una direttiva costituisce “grave insubordinazione” nel momento in cui il rifiuto assume rilevanza nei confronti di terzi committenti, traducendosi quindi anche in una lesione dell’immagine aziendale.

I giudici di appello hanno ritenuta sussistente la giusta causa di licenziamento.

 

Corte d’Appello di Brescia, 24.11.2015

Una dipendente ha pronunciato frasi ingiuriose e di disprezzo verso la superiore gerarchica. Però, sotto il profilo soggettivo, non aveva mai subito sanzioni disciplinari in 25 anni di rapporto e, inoltre, la condotta risultava frutto di momentanea insofferenza per il fatto che la superiore quel giorno insisteva eccessivamente nel cercare un chiarimento che la sottoposta non era disposta a dare.

Il licenziamento è stato ritenuto ingiustificato in quanto non proporzionato e il datore di lavoro è stato condannato al pagamento di un’indennità pari a 12 mensilità ex art. 18, comma IV, L. 300/1970.

 

Tribunale di Milano, 7.11.2018

La lavoratrice, con ruolo di coordinatrice, omette di osservare i nuovi turni di lavoro per due giorni (due lunedì), sapendo perfettamente del nuovo orario. Inoltre, ripresa in mensa dalla superiore gerarchica, ha proferito ad alta voce, nei confronti della medesima, la frase “mi avete rotto i coglioni”.

Il comportamento valutato dal CCNL di settore (art. 229) come esempio di condotta integrante gli estremi per il licenziamento disciplinare è “l’insubordinazione verso i superiori accompagnata da comportamento oltraggioso” e il comportamento oltraggioso è già pienamente integrato dall’accertata frase (“mi avete rotto i coglioni”) pronunciata dalla ricorrente ad alta voce nei confronti della superiore”.

Il giudice ha ritenuto integrata la giusta causa di licenziamento.

La considerazione della particolare condizione delle parti, che la lavoratrice ha seguito la vecchia turnazione anche in ragione del consiglio avuto dalla sindacalista, che la lavoratrice è stata comunque spinta a violare la turnazione per esigenze legittime, che inoltre la frase ingiuriosa pronunciata è stata resa in un contesto di obiettive difficoltà familiari e lavorative, ha mosso il giudice a compensare le spese di lite tra le parti.

 

Tribunale di Milano, 8.6.2017

Al lavoratore è stato contestato di essersi immotivatamente rifiutato di prestare attività lavorativa, nella sua qualità di macchinista, sul turno, pianificata secondo gli accordi aziendali in vigore, nel caso in cui la società non gli avesse garantito un taxi dalla stazione di Modena a quella di Reggio Emilia, sua residenza di servizio; è stato inoltre contestato d essersi immotivatamente rifiutato di presentarsi, il successivo 23.p.2016, presso la sede della società di N.M., dove, a seguito di assegnazione di turno KS in sostituzione del già menzionato turno, avrebbe dovuto tenere, alle ore 3,00, un colloquio con la Head of Operations e con il Responsabile del Personnel Management; è stato altresì contestato di essersi reso, in data 23-9-16, ingiustificatamente irreperibile, durante l’orario di lavoro, non rispondendo, verso le ore 13,15,o alle chiamate dirette sia all’utenza del telefono cellulare aziendale sia all’utenza privata, effettuate tramite l’operatore in servizio a seguito della mancata presentazione al suddetto incontro; infine è stato contestato di aver oltrepassato i limiti nell’esercizio del diritto di critica, affermando un fatto non vero e utilizzando espressioni non conformi ai parametri di correttezza e civiltà desumibili dalle norme del vivere civile, oltre che inutilmente denigratorie, ledendo l’onore, la reputazione e l’immagine della societa’: cio’ nella comunicazione a mezzo posta elettronica alla centrale operativa del 22-9-16 ed in particolare mediante l’espresso riferimento ad una presunta “gestione tipo regime militaristico punitivo”.

Secondo la lettera di irrogazione della sanzione i comportamenti addebitati integrano le fattispecie di cui all’Allegato A al R.D. n. 148 del 1931, in particolare agli artt. 42 n. 3, 42 n. 7, 42 n. 9, 42 n. 10 e 42 n. 14.

Tali disposizioni prevedono l’applicazione della sanzione della sospensione, rispettivamente, per avere commesso atti irrispettosi verso i funzionari dipendenti dall’Ispettorato generale ferrovie, tranvie ed automobili, verso i superiori o l’azienda o per non avere altrimenti osservato i doveri di subordinazione, quando le mancanze non assumano una figura più grave, per simulazione di malattia o per sotterfugi diretti a sottrarsi all’obbligo del servizio, per irregolarità nei viaggi o trasporti in genere, quando non rivestano il carattere di frode, per volontario inadempimento dei doveri d’ufficio o per negligenza, la quale abbia apportato danni al servizio o all’interesse dell’azienda, per dimostrazioni di scherno o di disprezzo ai superiori od agli atti dell’azienda, sia per iscritto che in presenza di testimoni.

I comportamenti tenuti dal ricorrente integrano, in violazione dell’ordinaria diligenza, sia un inadempimento ai doveri e obblighi di servizio, sia un’insubordinazione, sia una manifestazione scritta irriguardosa nei confronti del datore di lavoro.

Il giudice ha ritenuto giustificata la sanzione della sospensione disciplinare dal servizio e dalla retribuzione.

 

Tribunale di Milano, 30.5.2017

Creazione di una chat Whatsapp intitolata “a cazzo …l’ho chiamata gruppo a cazzo perché chiamarlo Spina suca mi sembrava brutto”. La chat è stata estesa a dipendenti della società e creato in parallelo a quella creata dal superiore per comunicare turni e ordini di lavoro.

Il giudice ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento.