Interposizione nelle prestazioni di lavoro e configurabilità dell’appalto fraudolento.
Cassazione, sent. 11 Maggio 2021, n. 12413Interposizione nelle prestazioni di lavoro e configurabilità dell’appalto fraudolento.
Corte di Cassazione. Sentenza 11 Maggio 2021, n. 12413.
di Luigi Verde
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 12413 depositata l’11 maggio 2021,.è intervenuta sulla tematica afferente l’interposizione nelle prestazioni di lavoro, affermando che non è sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se esse siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto.
Al riguardo, si ricorda che il “decreto dignità” ha reintrodotto la cd. somministrazione fraudolenta. Come noto, nel corpo del D.L. 12 luglio 2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, cosiddetto “Decreto Dignità”, nel testo modificato dalla L. 9 Agosto 2018 n. 96, di conversione, è stata disposta la reintroduzione del reato contravvenzionale di “somministrazione fraudolenta”: tre anni dopo l’abrogazione dell’articolo 28 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 che lo disciplinava, l’art. 2, comma 1-bis, del cit. D.L. n. 87/2018, convertito dalla L. n. 96/2018, ha reintrodotto nell’ordinamento giuridico, a far data dal 12 agosto 2018, il reato di somministrazione fraudolenta, che viene collocato nel nuovo art. 38-bis del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ferme restando le sanzioni di cui all’art. 18 del decreto legislativo n. 276/2003.
L’art. 38 bis del D.lgs. n. 81/15, come introdotto dalla L. n. 96 cit., recita “ferme restando le sanzioni di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, il somministratore e l’utilizzatore sono puniti con la pena dell’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione”.
Senza scendere in dettaglio, basti qui ricordare che l’appalto in un’accezione fisiologica è un tipico strumento di esternalizzazione spesso utilizzato per una gestione più efficace ed efficiente delle risorse funzionali all’opera commissionata. La genuinità di tale schema tuttavia entra in crisi qualora quest’ultimo funga solo da mero espediente per ridurre la soglia delle tutele normative del lavoratore e decretare un ribassamento del costo del lavoro. Ciò si verifica nel caso in cui l’appaltatore abbia un’organizzazione e un rischio di impresa fittizi, giacché nei fatti il ruolo imprenditoriale e datoriale viene assunto dal committente. In tale evenienza viene realizzato, in assenza dei presupposti normativi, l’archetipo del lavoro somministrato, il quale costituisce una fattispecie negoziale complessa, in cui vi è un soggetto (utilizzatore) che si avvale della prestazione dei dipendenti, mentre l’altra parte contrattuale (somministrante) si limita a fornire manodopera, senza tuttavia essere munita di apposita autorizzazione per la somministrazione di personale. Qualora lo pseudo appaltatore risulti in nuce carente di ogni professionalità, ovvero di organizzazione o financo risorse materiali, mentre abbia solo la disponibilità di risorse umane da inviare all’appaltante, il fenomeno sembra integrare, non tanto la fattispecie dell’appalto illecito, bensì quella di somministrazione fraudolenta e abusiva.
DAL TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 maggio 2021, n. 12413.
“[…]
Fatti di causa.
1.Con sentenza n. 613/2015, pubblicata il 23 novembre 2015, la Corte di appello di Torino, accolto il gravame principale di RAI – Radiotelevisione Italiana S.p.A., ritenuto assorbito l’appello incidentale del lavoratore, ha respinto integralmente le domande, con le quali G. C. – premesso di avere prestato attività di programmatore ed analista informatico presso la sede RAI di Torino alle formali dipendenze di varie
società dall’1/1/1996 al 29/3/2013 – aveva chiesto che venisse accertata la sussistenza di una fattispecie di interposizione illecita di manodopera ai sensi della I. n. 1369/1960 e degli artt. 20 ss. d.lgs. n. 276/2003, con
inquadramento nel 3° (o in subordine nel 4°) livello del contratto collettivo aziendale RAI e il pagamento delle relative differenze retributive.
2.La Corte ha essenzialmente osservato a sostegno della propria decisione:
– che si trattava, nella specie, di un caso di appalto a terzi di un servizio estraneo al core business della società, richiedente un apporto di conoscenze specifiche e professionalità non presenti in azienda;
–che il fatto che le prestazioni lavorative fossero rese all’interno dei locali della committente e in stretta relazione con i responsabili di essa per i vari settori era determinato dalla necessità di rapportare l’attività dell’appaltatore al sistema informatico della RAI e di corrispondere alle esigenze operative di volta in volta rappresentate;
– che doveva ritenersi dimostrato che era l’appaltatore, e non la committente, a fornire le disposizioni di carattere organizzativo ai propri dipendenti.
3.Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore con due motivi, cui ha resistito la RAI – Radiotelevisione Italiana S.p.A. con controricorso.
4.Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo viene dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 29 d.lgs. n. 276/2003 per avere la sentenza escluso, in contrasto con le risultanze probatorie, che il ricorrente, nel corso dell’intero periodo dedotto in giudizio, fosse stato inserito nel contesto produttivo di RAI e che fosse stata la committente a organizzarne e dirigerne le prestazioni lavorative, senza la presenza di alcun referente per l’appaltatore.
2.Con il secondo viene dedotto il vizio di motivazione per avere la sentenza impugnata omesso l’esame di una testimonianza sotto il profilo della sua contraddittorietà e per non avere dato ingresso ad altro teste.
3.Il primo motivo è inammissibile.
3.1. Con esso, infatti, pur deducendosi il vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., non è offerta indicazione specifica delle affermazioni in diritto, contenute nella sentenza, che risulterebbero in contrasto con la norma violata o falsamente applicata dal giudice di merito (Cass. n. 16038/2013, fra le molte conformi).
3.1.1. In particolare, non risultano tali né l’affermazione riportata a p. 9 del ricorso per cassazione, che rappresenta la conclusione (di merito) del processo ricostruttivo svolto dalla Corte di appello; né le altre affermazioni riportate in sede di esposizione del motivo, in quanto momenti del discorso probatorio che ha condotto la Corte a ritenere presente, nella fattispecie concreta, un appalto genuino e lecito.
3.2. In realtà, dietro lo schermo della violazione o falsa applicazione dell’art. 29 d.lgs. n. 276/2003, il ricorrente richiede sostanzialmente una rilettura del materiale probatorio e un diverso apprezzamento di fatto non consentiti a questa Corte di legittimità, perché –come costantemente dalla stessa precisato e ribadito (Cass. n. 25608/2013, fra le molte conformi) – spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità
e l’efficacia concludente delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti.
3.3. Resta che la Corte di appello si è comunque attenuta, nel compimento della propria indagine, al consolidato principio, per il quale “In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è sufficiente, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli
ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se esse siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto” (Cass. n. 9139/2018; conformi: Cass. n. 15615/2011; Cass. n. 12201/2011): potere direttivo che, come ripetutamente affermato da questa Corte, “deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative”, sia pure nella necessaria considerazione della specificità dell’incarico conferito e del modo della sua attuazione (Cass. n. 12348/2003, fra le molte conformi).
4. Il secondo motivo è parimenti inammissibile, non conformandosi al modello del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134.
4.1. Al riguardo le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (e con le numerose successive che ad esse si sono conformate) hanno precisato che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato nel 2012, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
5. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto […]”.
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