25 Agosto 2020

di Giovanni Patrizi

JOBS ACT: SECONDA CENSURA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

1.Con la sentenza n. 150, depositata il 16 luglio 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità delle norme sull’indennizzo per i licenziamenti affetti da vizi formali o procedurali dettate dall’art. 4 del D. lgs. n. 23/2015 (cd. “Jobs Act”). Pronunciandosi sulle questioni di costituzionalità sollevate dai tribunali di Bari e Roma, la Corte ha dichiarato incostituzionale il criterio di commisurazione dell’indennità da corrispondere per i licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale, ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio.

2.Il criterio di commisurazione dell’indennità da corrispondere per i licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale, ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio, “non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore”. Soprattutto nei casi di anzianità modesta, “si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della tutela indennitaria: la soglia minima di due mensilità non è sempre in grado di porre rimedio all’inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge”. È quanto si legge nella motivazione della sentenza n. 150, depositata il 16 luglio 2020, con cui la Corte costituzionale ha accolto le questioni sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma sul carattere rigido e uniforme dell’indennità, ancorato alla mera anzianità di servizio.

La Corte, in particolare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del D. lgs. n. 23/2015 (cd. “Jobs Act”, emanato sotto il Governo Renzi) laddove fissava l’ammontare dell’indennità in un importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

In linea di continuità con la sentenza n. 194/2018, che aveva dichiarato l’incostituzionalità del meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta per i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 3 del D.lgs. n. 23/2015), la Corte ha ritenuto contrastante con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza e con la tutela del lavoro in tutte le sue forme l’analogo criterio di commisurazione dell’indennità previsto per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali.

Dice la Corte che le prescrizioni formali, relative all’obbligo di motivazione del licenziamento e al principio del contraddittorio “rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica” e “sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost.”, in quanto si prefiggono di tutelare la dignità del lavoratore.

Il legislatore -sottolinea la Corte- pur potendo modulare diversamente le tutele per il licenziamento illegittimo, non può trascurare “la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore”. Con riferimento all’art. 3 della Costituzione, la Corte ha osservato che la disciplina in esame, nell’appiattire “la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio”, determina “un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse” e si pone dunque in contrasto con il principio di eguaglianza. La Corte ha ravvisato, inoltre, la violazione del principio di ragionevolezza, che si esprime come esigenza di una tutela adeguata: occorre attribuire “il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore”, attraverso il riconoscimento del giusto ristoro e la salvaguardia di una efficace funzione dissuasiva della tutela indennitaria.

La rigida predeterminazione dell’indennità, sulla base della sola anzianità di servizio, vìola anche gli artt. 4, co. 1°,  e 35, co.1° della Costituzione, che tutelano “la giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore”. Il giudice, nel rispetto delle soglie oggi fissate dal legislatore, determinerà l’indennità tenendo conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, “che rappresenta la base di partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto”. Potranno venire in rilievo, in tale valutazione, anche la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.

La Corte ha infine invitato il legislatore a “ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.

3.Il D.lgs. 23/2015, sul cd. contratto “a tutele crescenti” (…), in materia di licenziamenti limitava, per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015, la possibilità di riconoscere la tutela reintegratoria alla sola ipotesi della nullità del licenziamento, nonché in caso di “manifesta insussistenza del fatto materiale contestato” (art. 2 e art. 3, co. 2, del D.lgs. 23/2015). Per le restanti ipotesi, invece, la tutela spettante al licenziato sarebbe stata solo di tipo economico e da calcolarsi sulla base dell’anzianità di servizio aziendale (art. 3, co. 1 e art. 4, D.lgs. 23/2015). In tal modo le aziende, già al momento del recesso e con scabra formula aritmetica, sapevano quale sarebbe stata l’entità del risarcimento da pagare qualora il licenziamento fosse stato ritenuto illegittimo da un Giudice. Regole senza dubbio innovative (in peius) , specie se confrontate con quelle dell’art. 18 della L. n. 300/1970 (nota come Statuto dei lavoratori), che continua ad applicarsi al licenziamento di chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015, dove sono molte le ipotesi in cui può essere riconosciuta la tutela reintegratoria e non è possibile conoscere “a priori” l’entità del risarcimento perché determinabile solo in sede giudiziale.

Il D.lgs. 23/2015 è stato oggetto di esame da parte della la Corte costituzionale in due occasioni in soli due anni.

3.1. Nel novembre del 2018 la Corte costituzionale stabiliva che il parametro risarcitorio previsto dall’art. 3, co. 1 per le ipotesi di accertamento della non sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento era in contrasto con i principi di ragionevolezza e uguaglianza in quanto “fisso e uniforme” (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio). Venuto meno il criterio aritmetico previsto per quelle ipotesi di invalidità, ogni giudice ha potuto quantificare, secondo la sua discrezione, l’indennità spettante al dipendente licenziato entro il limite minimo di 6 mensilità e il limite massimo di 36 mensilità, indicati dal D.lgs. 23/2015.

La sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co.1, con riferimento al (solo) parametro dell’anzianità di servizio (e pur considerando legittima la scelta del legislatore di applicare una sanzione solo risarcitoria), ha valorizzato l’esercizio dell’attività giurisdizionale, che la Costituzione e la legge affidano al giudice, nella personalizzazione del danno garantendo la più efficace tutela contro l’ingiustizia subita e realizzando una funzione dissuasiva e deterrente nei confronti del datore di lavoro. Le esigenze di certezza e prevedibilità delle decisioni non vengono certamente disattese, ma cedono di fronte all’adeguata tutela dei diritti fondamentali della persona, come il diritto al lavoro. Ben note agli operatori del diritto (del lavoro) sono le questioni relative all’impatto della sentenza della Corte Costituzionale sulle norme che, all’art. 3, co. 1, fanno riferimento agli artt. 6 Art. 6. Offerta di conciliazione, 9 Art. 9. Piccole imprese e organizzazioni di tendenza e 10 Art. 10. Licenziamento collettivo. Altrettanto noto è il richiamo alla sentenza della Consulta da parte della Corte di Cassazione (sent. n. 12174/2019) relativamente  alla valutazione della sussistenza del fatto materiale nel cd. Jobs Act e nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sebbene di ciò non si occupi la sentenza n. 194/2018. Invero, il sostegno offerto dalla decisione del Giudice costituzionale alla valutazione del Giudice di legittimità sembra fornire la prova più evidente di come la sentenza n. 194/2018 non abbia solo dichiarato l’illegittimità parziale di una disposizione ma abbia riaffermato un quadro di valori, principi e diritti di cui, forse, si era offuscata la persistente vigenza, e che invece risultano necessari per dare coerenza alla normativa alluvionale e spesso scoordinata accumulatasi in questi ultimi anni in materia di lavoro.

3.3. Nel luglio 2020, la nuova decisione della Corte costituzionale interessa la regola che stabilisce la sanzione applicabile quando il licenziamento è affetto da un vizio di natura formale e procedurale, vale a dire il difetto di motivazione o la violazione del procedimento disciplinare ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (cfr. l’art. 4 del D.lgs. 23/2015). Anche in questo caso, al lavoratore licenziato, secondo la raffazzonata riforma del 2015, spetta un’indennità economica pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, compresa tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità.

Dalle motivazioni della nuova sentenza si evince che i motivi di incostituzionalità della norma sono essenzialmente i seguenti: a) la previsione di un parametro risarcitorio uniforme impedisce di correlare l’indennità liquidabile al danno sofferto, privando l’indennità della funzione anche dissuasiva; b) l’adozione di un parametro fisso sanziona in modo uguale violazioni capaci di produrre danni differenti, così violando i principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione,  che ostano all’omologazione di situazioni diverse.

Ora, il Giudice, in caso di vizio formale, può liquidare l’indennità spettante entro le due e le dodici mensilità senza doverla correlare all’anzianità di servizio del lavoratore licenziato, ma valutando ogni singolo caso concreto.

[1] Fonte: Presidenza della Repubblica