(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
Corte di Cassazione, Sez. Quinta penale, sentenza n. 4557, del 1 febbraio 2024.
“Il diritto al non-respingimento in un “luogo non sicuro” – enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra – costituisce principio internazionale consuetudinario di carattere assoluto, cui deve riconoscersi valenza di ius cogens in quanto proiezione del divieto di tortura, e come tale invocabile -secondo l’interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 3 della Convenzione EDU- non dai soli “rifugiati” ma da qualsiasi essere umano che possa essere respinto verso una nazione in cui sussista un ragionevole rischio di subire un pregiudizio alla propria vita, alla libertà, ovvero all’integrità psicofisica. Nel caso di specie, la Libia nel luglio del 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento, dunque, non poteva essere disposto ed eseguito. Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti”.
1.La S.C. , con la sentenza n. 4557/2024, ha confermato quanto deciso dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Napoli, a carico del comandante della imbarcazione “Asso28”, un rimorchiatore battente bandiera italiana e di proprietà della società armatrice “Augusta off shore”. Nel 2018 il comandante del suddetto rimorchiatore, a seguito di un soccorso di naufraghi in acque internazionali, aveva consegnato i migranti ad una motovedetta libica, dopo averli ricondotti nelle acque antistanti il porto di Tripoli.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 10 novembre 2022, aveva confermato quella emessa dal G.u.p. del Tribunale di Napoli, il quale aveva accertato la responsabilità penale del suddetto comandante, in relazione al delitto di abbandono in stato di pericolo di persone minori e incapaci (‘art. 591 cod. pen.), oltre che di sbarco e abbandono arbitrario di persone (art. 1155 del Regio Decreto del 30 marzo 1942, n. 327-Codice della navigazione), aggravato dall’assenza dei mezzi di sussistenza dei passeggeri. Il natante si trovava in acque internazionali, con compiti di “supply vessel”, in quanto nave di appoggio e supporto, alla piattaforma petrolifera Sabratha, di proprietà della società Mellitah Oil & Gas, a sua volta società partecipata da Eni Nord Africa e dalla libica NOC.
All’imputato veniva contestato che, dopo aver rilevato, in prossimità della piattaforma predetta, a circa cinquantasette miglia marine dalla costa libica, in acque internazionali ed in zona SAR libica, la presenza di un gommone con centouno migranti a bordo, agendo in accordo con il personale della predetta piattaforma, consentiva il trasbordo sull’Asso28 di un “ufficiale di dogana libico”, presente sulla menzionata piattaforma, senza procedere alla sua compiuta identificazione. Ciò avveniva in violazione del Regolamento Tecnico, International Ship and Port Security Code (ISPS Code), introdotto dal Cap. XI della c.d. Convenzione Solas, che prevede standard di sicurezza delle strutture portuali e delle navi, prescrivendo il controllo e l’identificazione di tutte le persone che accedono alla nave (art. 7 parte A e art. 8 e 9 parte B).
Il comandante soccorreva, facendoli salire a bordo, i centouno migranti, tra i quali erano presenti donne in stato di gravidanza e minori, che si trovavano sul gommone, omettendo però di comunicare subito, prima di iniziare le attività di soccorso, e dopo averle effettuate, ai centri di coordinamento e soccorso competenti, l’avvistamento e l’avvenuta presa in carico dei migranti, agendo in violazione delle procedure previste per le operazioni di soccorso, così come disciplinate dalla convenzione Solas e dalle direttive dell’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale).
Il comandante ometteva inoltre di attivare il prescritto coordinamento delle autorità SAR competenti e di dare corso agli obblighi informativi di cui all’art. 5 della risoluzione MSC. 167/168 (inerenti la nave che presta il soccorso, i sopravvissuti, le azioni intraprese e da intraprendere e le determinazioni in ordine ai richiedenti asilo). Ometteva altresì di identificare i migranti, di assumere informazioni sulla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero soli o accompagnati, in violazione dei citati articoli del ISPS Code, in tema di sicurezza della navigazione.
Infine il comandante, in violazione di quanto stabilito dalle convenzioni internazionali, facendo rotta verso le coste libiche e facendo trasbordare i centouno naufraghi imbarcati, innanzi al porto tripolino, su una motovedetta libica, procurava agli stessi un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali e dal Testo Unico sull’immigrazione, nello sbarco in un paese terzo considerato porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e atteso l’elevato rischio di essere i migranti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti nei centri di detenzione per stranieri presenti sul territorio libico, con l’impossibilità di vedere tutelati i propri diritti fondamentali (es. l’asilo, la salute, l’integrità fisica e la libertà individuale e sessuale).
Tale condotta rifluiva in quella prevista dall’art. 591 cod. pen., relativa all’abbandono (di cinque minori stranieri e cinque donne in stato di gravidanza) in una situazione di pericolo. In particolare, il comandante, dopo averli imbarcati unitamente agli altri migranti in acque internazionali nei pressi della piattaforma petrolifera della società Mellitah Oil & Gas, riconducendoli in violazione della normativa richiamata, e in particolare dell’art. 19 D.Lgs. n. 286 del 1998, nel porto di Tripoli, li faceva trasbordare su una motovedetta libica, e pertanto sbarcare in un porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e attesa l’ineffettività del sistema di accoglienza libico e le condizioni inumane e degradanti presenti nei centri di detenzione per i migranti, trattandosi di luoghi ove non sono assicurati la protezione fisica e il rispetto dei diritti fondamentali, come sopra indicato. La medesima condotta veniva anche richiamata dal capo 3), prevista dall’art. 1155 cod. nav., consistente nell’aver proceduto arbitrariamente allo sbarco di centouno migranti nelle acque antistanti il porto di Tripoli. Con l’aggravante del fatto che si trattava di passeggeri privi dei mezzi di sussistenza.
Il comandante avrebbe deciso su indicazione di un agente “doganale” di servizio sulla piattaforma e poi imbarcato a bordo, di fare rotta verso un porto libico. Secondo la S.C., il comandante, riconducendo a Tripoli centouno naufraghi, facendoli trasbordare, dinanzi al porto tripolino, su una motovedetta libica, “procurava agli stessi migranti un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali”.
Secondo la Cassazione, in quel periodo non esisteva uno Stato unitario “libico” e le autorità di Tripoli, pur se riconosciute dalle Nazioni unite, non risultavano in grado di controllare l’intero territorio nazionale. Difatti, nonostante la notifica (unilaterale) della istituzione della zona Sar libica all’Imo, la stessa non era operativa, non esisteva uno stato libico unitario e le autorità di Tripoli, pur riconosciute dalle Nazioni unite, avevano perso il controllo di parti molto vaste del territorio nazionale. Ancora oggi la Libia nelle sue diverse articolazioni politiche non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951.
2. Cassazione penale sez. V, sentenza 1° Febbraio 2024, n. 4557.
“[…] FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Napoli, con la sentenza emessa il 10 novembre 2022, confermava quella emessa dal G.u.p. del Tribunale di Napoli, che aveva accertato la responsabilità penale di Gi.St., in relazione al delitto di abbandono in stato di pericolo di persone minori e incapaci, previsto dall’art. 591 cod. pen. e contestato al capo 2) dell’imputazione, oltre che di sbarco e abbandono arbitrario di persone, previsto dall’art. 1155 del Regio Decreto del 30 marzo 1942, n. 327 – Codice della navigazione, aggravato dalla assenza dei mezzi di sussistenza dei passeggeri, contestato al capo 3).
Fra le condotte attribuite all’imputato vi era anche il delitto di abuso di ufficio, indicato al capo 1), in ordine al quale il G.u.p. aveva mandato assolto Gi.St., con sentenza sul punto irrevocabile, ritenendo non sussistente la prova dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o dell’altrui danno.
Riteneva, invece, il primo Giudice, la sussistenza della violazione di leggi e di specifiche regole di condotta, in ordine alle quali non residuavano margini di discrezionalità, in particolare non avendo l’imputato avvisato le autorità competenti per il coordinamento e il soccorso nella zona SAR interessata. Proprio tale parte della condotta materiale, contestata con il delitto di abuso di ufficio, veniva richiamata dalle imputazioni dei delitti ora in esame, in ordine ai quali viene proposto l’attuale ricorso.
2. A Gi.St., veniva contestata la condotta materiale — il che rileva ai fini dell’esame dei motivi di ricorso — nella qualità di comandante della imbarcazione Asso28, natante battente bandiera italiana e di proprietà della società armatrice “Augusta off shore” di N.
Tale natante si trovava in acque internazionali, con compiti di “supply vessel”, in quanto nave di appoggio e supporto, alla piattaforma petrolifera Sabratha, di proprietà della società Mellitah Oil & Gas, a sua volta società partecipata da Eni Nord Africa e dalla libica NOC.
All’imputato veniva contestato che, a bordo del natante, dopo aver rilevato, in prossimità della piattaforma predetta, a circa cinquantasette miglia marine dalla costa libica, in acque internazionali ed in zona SAR libica, la presenza di un gommone con centouno migranti a bordo, agendo in accordo con il personale della predetta piattaforma, consentiva il trasbordo sull’Asso28 di un “ufficiale di dogana libico”, presente sulla menzionata piattaforma, senza procedere alla sua compiuta identificazione.
Ciò avveniva in violazione del Regolamento Tecnico, International Ship and Port Security Code, (a seguire ISPS Code), introdotto dal Cap. XI della c.d. Convenzione Solas, che prevede standard di sicurezza delle strutture portuali e delle navi, prescrivendo il controllo e l’identificazione di tutte le persone che accedono alla nave (art. 7 parte A e art. 8 e 9 parte B).
Il comandante soccorreva, facendoli salire a bordo, i centouno migranti, tra i quali erano presenti donne in stato di gravidanza e minori, che si trovavano sul menzionato gommone, omettendo però di comunicare nella immediatezza, prima di iniziare le attività di soccorso, e dopo avere effettuato le stesse, ai centri di coordinamento e soccorso competenti, ossia al Centro di coordinamento e soccorso di T o, in assenza o mancata risposta di quest’ultimo, all’IMRCC di R, l’avvistamento e l’avvenuta presa in carico dei migranti, agendo in violazione delle procedure previste per le operazioni di soccorso, così come disciplinate dalla convenzione ed. Solas e dalle direttive dell’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale).
Ometteva, altresì, di attivare il prescritto coordinamento delle autorità SAR competenti e di dare corso agli obblighi informativi di cui all’art. 5 della risoluzione MSC. 167/168 (inerenti la nave che presta il soccorso, i sopravvissuti, le azioni intraprese e da intraprendere e le determinazioni in ordine ai richiedenti asilo); ometteva, inoltre, anche di identificare i migranti, di assumere informazioni sulla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero soli o accompagnati, in violazione dei citati articoli del ISPS Code, in tema di sicurezza della navigazione.
Infine, in violazione di quanto stabilito dalle convenzioni internazionali, facendo rotta verso le coste libiche e riconducendo a T i centouno naufraghi imbarcati, facendoli trasbordare, solo una volta innanzi al porto tripolino, su una motovedetta libica, procurava agli stessi migranti un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali e dal Testo Unico sull’immigrazione, nello sbarco in un paese terzo considerato porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e atteso l’elevato rischio di essere i migranti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti nei centri di detenzione per stranieri presenti sul territorio libico, con l’impossibilità di vedere tutelati i propri diritti fondamentali (es. l’asilo, la salute, l’integrità fisica e la libertà individuale e sessuale).
Tale condotta, richiamata in ciascuna delle tre genetiche contestazioni, rifluiva, quanto al capo 2), nella condotta prevista dall’art. 591 cod. pen., relativa all’abbandono — di cinque minori stranieri e cinque donne in stato di gravidanza — in una situazione di pericolo: in particolare, dopo averli imbarcati unitamente agli altri migranti in acque internazionali nei pressi della piattaforma petrolifera della società Mellitah Oil & Gas, riconducendoli in violazione della normativa richiamata, e in particolare dell’art. 19 D.Lgs. n. 286 del 1998, nel porto di Tripoli, facendoli trasbordare su una motovedetta libica, e pertanto sbarcare in un porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e attesa l’ineffettività del sistema di accoglienza libico e le condizioni inumane e degradanti presenti nei centri di detenzione per i migranti, trattandosi di luoghi ove non sono assicurati la protezione fisica e il rispetto dei diritti fondamentali, come sopra indicato.
La medesima condotta veniva anche richiamata dal capo 3), prevista dall’art. 1155 cod. nav., consistente nell’aver proceduto arbitrariamente allo sbarco di centouno migranti nelle acque antistanti il porto di T. Con l’aggravante del fatto che si trattava di passeggeri privi dei mezzi di sussistenza.
2. Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di Gi.St. consta di cinque motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Il primo motivo deduce vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo richiesto dalle fattispecie incriminatrici dell’art. 591 cod. pen. e 1155 cod. nav..
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe operato una valutazione ex post in ordine agli indicatori della sussistenza del dolo e non, come richiesto, ex ante, in quanto essendo la condotta in esame datata 30 luglio 2018, fin dal 28 giugno 2018 era stata istituita la zona SAR libica, zona ove avvenne il salvataggio, con la conseguente competenza della autorità libiche di individuare il porto sicuro. Le sentenze di merito avrebbero valorizzato informazioni successive ai fatti, che quindi l’imputato non poteva conoscere, quale il rapporto degli osservatori Onu del 18 dicembre 2018 che rilevava le violazioni dei diritti umani, senza considerare che Gi.St. aveva avuto notizia dell’istituzione della SAR libica con comunicato della ADN Kronos del 23 giugno 2018, seguito dalla formale notifica da parte del governo di riconciliazione nazionale di T all’IMO della comunicazione in ordine alla costituzione della SAR e del Centro di coordinamento in territorio libico.
Pertanto, la Corte territoriale avrebbe reso una motivazione contraddittoria rispetto alle emergenze di fatto, contestando a Gi.St. l’omissione quanto all’accertarsi delle condizioni dei naufraghi, della destinazione degli stessi, nonché quanto al coordinarsi con il Centro di T, non avendo per altro delegato un membro dell’equipaggio a verificare le condizioni nelle quali si sarebbero trovati i migranti: risultava invece sufficiente che il comandante provvedesse a portare i naufraghi nel porto sicuro. Né l’omessa identificazione di migranti e ufficiale libico, l’omesso coordinamento con i Centri libico o italiano, integrerebbe la prova del dolo, bensì solo di colpa.
4. Il secondo motivo deduce violazione degli artt. 51 e 59, comma 4, cod. pen. e vizio di motivazione.
La Corte di appello avrebbe omesso di valutare — erroneamente escludendo il valore di superiore gerarchico dell’autorità libica — che il Centro di coordinamento italiano aveva indicato alle ore 11.27 quello libico come Centro di riferimento, come risulta dalle comunicazioni indicate nel diario di bordo allegate al ricorso, in coerenza con il citato comunicato ADN Kronos, il che renderebbe legittimo l’ordine ricevuto da Gi.St., come comprovato anche dai documenti delle autorità diplomatiche italiane in Malta, del Comando generale del Corpo della Capitaneria di Porto, dalle dichiarazioni diTa.@, capo del Centro di coordinamento italiano, atti tutti allegati al ricorso.
La sentenza impugnata avrebbe errato anche nel negare che l’insieme delle risultanze conducevano il comandante di Asso28 a ritenere legittimo il predetto ordine e, quindi, configurabile l’ipotesi dell’errore putativo, anche se conseguente alla mancata identificazione dell’ufficiale libico, il che escluderebbe la responsabilità penale, non essendo previste ipotesi punite a titolo di colpa, come richiesto dall’art. 59, comma 4, cod. pen.
5. Il terzo motivo deduce vizio di motivazione in ordine all’interesse prefigurato con la sentenza impugnata, connessi al vantaggio economico che la sentenza di primo grado aveva già ritenuto non provato, con palese vizio di contraddizione.
6. Il quarto motivo deduce violazione dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. in quanto la Corte di appello non ha disposto la rinnovazione dibattimentale in ordine alla identità del funzionario libico che salì a bordo della Asso28, pur avendo attribuito peculiare decisività a tale dato, a fronte di un compendio probatorio che già lasciava emergere l’identificazione del funzionario libico, come richiamato con l’atto di appello.
7. Il quinto motivo lamenta violazione dell’art. 62-bis cod. pen., limitandosi a escludere l’attenuazione della pena per l’insufficienza della sola incensuratezza e valorizzando l’omessa ammissione di addebiti, senza considerare la corretta condotta processuale con l’esibizione di documentazione, oltre che le dichiarazioni rese, nonché la natura politica delle scelte di affidamento verso l’autorità libica, che sono poi ricadute sull’imputato, “ultimo della intera catena di presunte responsabilità”.
8. Il ricorso è stato trattato con l’intervento delle parti, su richiesta tempestiva del difensore del ricorrente, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’articolo 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199.
9. Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. L’analisi del primo motivo di ricorso, come di quelli seguenti, richiede la preliminare disamina della ricostruzione operata dalla Corte di appello, conformemente alla sentenza del G.u.p. del Tribunale di Napoli, come anche la verifica del quadro normativo di riferimento.
2.1 Va premesso che la Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto comprovata la decisiva circostanza che il comandante della Asso28 non avesse preso contatti previi, prima di operare il trasferimento dei migranti rinvenuti sul gommone, né con il competente Centro di coordinamento libico in T, a seguito della istituzione della zona SAR (Safety and Rescue – Ricerca e Soccorso) libica, né con l’IMRCC di Roma (Italian Maritime Rescue Coordination Centre – Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo), funzionalmente individuato nella struttura della Centrale Operativa del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, ai quali era deputato il coordinamento, appunto, delle operazioni di salvataggio in mare e l’individuazione del “porto sicuro”, secondo quanto previsto dalle convenzioni internazionali.
In particolare la Corte di appello, esaminando il motivo di impugnazione relativo alla insussistenza dei reati contestati, rilevava una serie di condotte omissive dell’imputato, non rispondenti alle previsioni delle convenzioni internazionali: non si era accertato delle “condizioni di salute dei migranti soccorsi sulla propria nave e in particolare dei bambini minori e delle donne in stato di gravidanza, alla luce della loro vulnerabilità, e delle loro eventuali richieste di asilo (…); inoltre il comandante avrebbe dovuto portarli in un porto sicuro secondo il diritto internazionale e secondo i principi nazionali, considerato che questi assumeva una posizione di garanzia nei confronti delle persone soccorse, per cui non poteva recepire passivamente gli ordini di un presunto ufficiale libico solo in quanto coincidenti con gli interessi e i vantaggi della propria nave e della società ENI. (…) (N)on ha proceduto neanche alla identificazione del presunto ufficiale libico (ovvero di colui che ha coordinato le operazioni di sbarco)(…); non rispettava le direttive della suddetta convenzione (di Amburgo) che impongono un contatto diretto con i centri di coordinamento, con identificazione delle persone soccorse in mare, oltre che un continuo invio di rapporti periodici con il Centro di coordinamento di salvataggio”.
In sostanza, la Corte di appello rilevava come il comandante non avesse contattato il Centro di coordinamento libico, che avrebbe dovuto coordinare il salvataggio e accogliere i 101 migranti in un porto sicuro, solo perché a bordo era salito un presunto ufficiale libico, mai identificato, che era presente sulla piattaforma petrolifera alla cui tutela la Asso28 era funzionale. Il Centro di coordinamento di R e l’ambasciata italiana a T vennero avvisate solo “a cose fatte”, costituendo tale modalità di avviso a posteriori, rispetto all’avvenuto salvataggio e alla intrapresa direzione verso T, un caso unico nelle dinamiche dei salvataggi in mare da parte dei natanti battenti bandiera italiana in zona SAR libica (l’espressione virgolettata è riferita dalla deposizione del comandante Ta.@ del IMRCC di R, riportata al fol. 16 della sentenza di primo grado).
La sentenza di primo grado, confermata da quella di appello, individua plurime fonti che comprovano che Gi.St. non contattò previamente alcuno dei due centri di coordinamento: a) i documenti di bordo della Asso28 (in particolare estratto del giornale nautico); b) la copia delle e-mail redatte dal comandante in data 30 luglio 2018; c) la denuncia di evento straordinario presentata presso il consolato italiano a Malta il 14 agosto 2018 dal comandante; d) la registrazione audio delle conversazioni intervenute via radio del 30 luglio 2018 tra Asso28 e Open Arms e tra Asso28 e Libian Coast Guard, registrazione acquisita dal server della imbarcazione Open Arms; e) l’annotazione della Capitaneria di Porto – Guardia Costiera di Napoli del 23 agosto 2018 (dalla quale si desume l’assenza di contatti tra l’Asso28 e il Centro di coordinamento e soccorso di T e R in relazione all’episodio del 30 luglio 2018); f) il verbale di sommarie informazioni rese da Gi.Mu. (marinaio presente a bordo della Asso28), Fr.Si. (direttore di macchina dell’Asso28) e Se.Ra. (nostromo); g) i verbali di sommarie informazioni rese da Ri.Ga. e Ni.Fr. (foli. 20 e 21 della sentenza di primo grado).
Alla sentenza di primo grado questa Corte deve anche fare riferimento, stante la doppia conformità, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, in quanto la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 – 01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615 – 01). Ebbene, la prima pronuncia evidenziava come dalle comunicazioni di posta elettronica inviate dal comandante di Asso28, sia presso l’IMRCC di R che presso la società Augusta offshore, nonché dall’esame del giornale nautico non risultava che il comandante avesse avuto contatti (telefonici attraverso i numeri SAR o di altra natura) con il Centro di coordinamento e soccorso di T, se non attraverso un messaggio di posta elettronica quando Asso28 era già da tempo in navigazione verso il porto libico, circostanza confortata anche dall’esame dei tabulati telefonici e degli altri documenti di bordo.
2.2 A tale ricostruzione degli eventi, condivisa da entrambi i Giudici di merito anche in ordine alle omissioni dell’imputato, le relative sentenze affiancavano il richiamo alle fonti normative che sostenevano la necessità di condotte doverose richieste al comandante della nave, diverse da quelle attuate in concreto da parte del comandante di Asso28: gli artt. 3 e 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ratificata in Italia con la legge 4 agosto 1955 n. 848, art. 4 del Protocollo addizionale, che sanciscono il divieto di respingimento degli stranieri verso Paesi in cui possano essere sottoposti a trattamento inumano o degradante o dove sia comunque impedito l’esercizio dei diritti fondamentali; l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, ratificata in Italia con L. 24 luglio 1954, n. 722, che prevede il divieto di espellere o respingere, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche; l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il divieto dei respingimenti collettivi di cittadini stranieri; la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, sottoscritta a Londra il 17/6/1970, c.d Convenzione SOLAS, e la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (c.d. convenzione SAR) sottoscritta ad Amburgo il 27/4/1979, ratificata dall’Italia con Legge del 3/4/1979 n. 147, laddove, nella specificazione fornita dalle direttive dell’IMO (International Maritime Organization), impongono al comandante di una imbarcazione che soccorra dei naufraghi in mare di avvisare le autorità competenti per il coordinamento e soccorso nella zona SAR interessata e di attivare il predetto coordinamento; l’art. 19, commi 1, 1 -bis, 2 del D.lgs 286/98 (Testo unico immigrazione), che vieta, in ogni caso, il respingimento e l’espulsione di minori degli anni diciotto e di donne in stato di gravidanza, nonché il respingimento di cittadini stranieri verso un Paese ove siano a rischio di subire torture o comunque trattamenti disumani e degradanti; la risoluzione del Comitato per la sicurezza marittima (articolazione dell’IMO) n. 167(78) del maggio 2004, Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare.
2.3. Tale ricostruzione fattuale e normativa si è resa indispensabile, come anticipato, a fronte dei motivi di ricorso primo e secondo che, per quanto si concentrino sull’elemento soggettivo dei reati, lamentando vizio di motivazione in ordine al dolo delle condotte contestate, nonché rilevando la legittimità dell’ordine dell’autorità o l’errore in relazione allo stesso, propongono denunce per travisamento o manifesta illogicità alla ricostruzione dei fatti come operata dal G.u.p. e confermata dalla Corte di appello.
3. Anche è necessario, preliminarmente, chiarire la natura dei delitti in contestazione, la condotta nella rispettiva materialità, pur essendo i motivi di ricorso centrati sul difetto del dolo richiesto, che consiste però nella coscienza e volontà proprio della condotta in sé, di abbandono in sé di soggetti minori di anni quattordici ovvero di persone incapaci — nel caso di specie di cinque donne in stato di gravidanza (art. 591 cod. pen.) — e di sbarco arbitrario di passeggeri (art. 1055 cod. nav.), e dunque implica la definizione del coefficiente oggettivo dei delitti.
3.1 II delitto previsti dagli artt, 591 cod. pen. e 1155 cod. nav. sono entrambi delitti di pericolo.
Quanto al primo, testualmente, l’art. 591 cod. pen. prevede:
“(I) Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
(II) (…)
(III) La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte”.
La natura di delitto di pericolo e non di danno deriva dalla circostanza che l’evento dannoso, lesivo della incolumità personale, è indicato solo come circostanza aggravante dal terzo comma, per altro come conseguenza non voluta, altrimenti si verterebbe nelle rispettive ipotesi di lesioni personali o di omicidio.
Pertanto, si tratta di una fattispecie a tutela anticipata a garanzia di soggetti particolarmente vulnerabili, appunto minori infra-quattordicenni o soggetti incapaci.
L’orientamento costante di questa Corte è nel senso che l’elemento oggettivo sia integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo (Sez. 5, n. 1780 del 26/10/2021, dep. 17/01/2022, P., Rv. 282471 – 01; Sez. 5, n. 27705 del 29/05/2018, P., Rv. 273479 – 01; Sez. 1, n. 35814 del 30/04/2015, Andreini, Rv. 264566 – 01; Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012, dep. 2013, T., Rv. 255172 – 01; mass. conf. N. 5945 del 2009 Rv. 243372 – 01).
In ordine al dovere giuridico di cura e custodia, le richiamate disposizioni nazionali e sovranazionali, che non sono oggetto di censura da parte del ricorrente, risultano richiedere comportamenti obbligatori per il comandante della nave, nel caso di specie dallo stesso non tenuti: pertanto correttamente l’imputato è stato ritenuto inadempiente rispetto alla condotta doverosa richiestagli. Nel caso in esame, in sostanza, non è necessario ricorrere alla relazione di fatto che pure questa Corte ha ritenuto poter integrare il dovere di custodia, sussistendo invece gli obblighi giuridici, di fonte normativa, in precedenza enumerati, che oneravano il soggetto attivo del reato della cura e della custodia (sul punto della distinzione fra le fonti fattuali o giuridiche dell’obbligo, Sez. 5, n. 19448 del 12/01/2016, Corbascio, Rv. 267126 – 01).
D’altro canto, va evidenziato come questa Corte abbia ritenuto, che ai fini della sussistenza del reato di cui all’art.591 cod. pen. è necessario accertare in concreto, salvo che si tratti di minore di anni quattordici, l’incapacità del soggetto passivo di provvedere a se stesso.
E così, si è esclusa la presunzione assoluta di incapacità per il caso della vecchiaia, affermando che tale stato non è una condizione patologica ma fisiologica, che deve essere accertata concretamente quale possibile causa di inettitudine fisica o mentale all’adeguato controllo di ordinarie situazioni di pericolo per l’incolumità propria. Ne consegue, altresì, che il dovere di cura e di custodia deve essere raccordato con la capacità, ove sussista, di autodeterminazione del soggetto anziano (Sez. 5, n. 6885 del 09/04/1999, Santarelli, Rv. 213801 – 01).
Deve ritenersi che entrambe le fattispecie incriminatrici contestate all’imputato, siano di pericolo astratto, e implichino previamente di accertare il presupposto dell’età minore di quattordici anni o dell’incapacità per vecchiaia o altra causa.
A ciò deve aggiungersi che la natura astratta del pericolo non esime, comunque, il giudice dall’onere di verificare la sussistenza di uno stato di pericolo, seppur solo e meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo, il che risponde a quanto anche di recente ribadito dalla Corte costituzionale in ordine ai delitti di pericolo.
3.2 Difatti, la Corte delle leggi con sentenza n. 139 del 2023, in ordine all’art. 4, secondo comma, prima parte, della legge 18 aprile 1975, n. 110 — relativamente alla disparità di trattamento fra il divieto di porto di armi improprie “nominate” e di quelle “innominate”, in riferimento agli artt. 3,25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione — dichiarando non fondate le questioni sollevate, ha riaffermato che nella determinazione delle fattispecie tipiche di reato il legislatore tiene conto non soltanto della struttura e della pericolosità astratta dei fatti che va ad incriminare, ma anche della concreta esperienza, nella quale quei fatti si sono verificati e dei particolari inconvenienti provocati, in precedenza, dai fatti stessi, in relazione ai beni che intende tutelare (conformi, Corte cost. 333/1991, 132/1986).
Secondo la Corte costituzionale la declinazione concreta del principio di necessaria offensività del reato – la cui matrice costituzionale è ricavabile dall’art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo l’insieme dei valori connessi alla dignità umana – opera su due piani distinti: da un lato, cioè, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività “in astratto”); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto”) (nello stesso senso Corte cost. 211/2022; 278/2019; 141/2019; 109/2016; 225/2008; 265/2005; 263/2000; 360/1995).
Il principio di offensività in astratto non implica — secondo la Corte costituzionale — che l’unico modello, costituzionalmente legittimo, sia quello del reato di danno, rientrando nella discrezionalità del legislatore optare per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, individuare la soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva: prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (così, fra le altre, Corte cost. 211/2022; 278/2019; 141/2019; 109/2016). Compete alla Corte costituzionale verificare se le soluzioni adottate dal legislatore siano rispettose del principio di offensività “in astratto”, acclarando se la fattispecie da quest’ultimo delineata esprima un reale contenuto offensivo: esigenza che, nell’ipotesi del reato di pericolo – e, segnatamente, di pericolo presunto – presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit. Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico, al giudice ordinario.
Quest’ultimo – rimanendo impegnato ad una lettura teleologicamente orientata degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva (così Corte cost. 211/2022; 278/2019; 141/2019; 109/2016; 225/2008; 247/1997).
In particolare, osserva la Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 139 del 2023: “(…) come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte sul principio di offensività che si è avuto modo di richiamare – nei reati di pericolo presunto, il giudice deve escludere la punibilità di fatti pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole) possibilità di produzione del danno”.
Proprio tale ultimo principio trova rispondenza nella necessità di accertare, in relazione ai delitti contestati al Gi.St., che vi sia un pericolo, seppur solo potenziale, dovendo verificarsi se, nel caso concreto, manchi del tutto ogni ragionevole possibilità di produzione del danno.
3.3 Tornando alla fattispecie incriminatrice, questa Corte non condivide la proposta della Procura generale di annullare senza rinvio la sentenza impugnata, quanto al delitto di abbandono di persone minori o incapaci, con riferimento alle cinque donne in stato di gravidanza.
Si tratta di un tema che non è stato posto alla Corte di appello dall’impugnazione, e sul quale, quindi, la sentenza ora impugnata non si diffonde, pur se al fol. 7 e al fol. 8, insieme ai minori di anni quattordici, le donne in stato di gravidanza vengono considerate soggetti particolarmente vulnerabili, nei cui confronti doveva essere assicurata una particolare solerzia nell’adempimento degli obblighi di cura e custodia, non dovendo essere abbandonate in un porto non sicuro.
Ad ogni buon conto, a fronte di tale motivazione, la sollecitazione della Procura generale non può essere accolta perché la norma incriminatrice sanziona anche la condotta di abbandono nei confronti della persona offesa che sia incapace, oltre che per vecchiaia e malattia, “per altra causa”.
Oltre alla circostanza che tale profilo non era oggetto di doglianza da parte del ricorrente, deve anche rilevarsi che la valutazione della Procura generale non si confronta con la ratio legis, che non richiede una incapacità in senso assoluto da parte della persona offesa, ben potendo essere integrata anche solo da una relativa incapacità di provvedere a se stessi, correlata alla situazione di fatto in cui il soggetto passivo viene a trovarsi, che determini la impossibilità, del tutto contingente, di prendersi cura di sé in modo adeguato. D’altro canto, la stessa “lettura” dei delitti di pericolo presunto offerta dalla Corte costituzionale evidenzia come occorra che il giudice si confronti con le “circostanze concrete” per verificare se manchi o sussista una ragionevole possibilità di produzione del danno.
Soccorre sul punto anche la Relazione al Re sul codice penale, n. 196, che chiariva come la norma dovesse ricomprendere anche “il caso dell’abbandono di persona incapace di provvedere a se stessa per cause diverse dall’età o dalla malattia, come nell’ipotesi della guida che abbandona l’alpinista che si era a lei affidato. (…) Una persona, invero, anche se sana e di età valida, può venire a trovarsi, per semplici circostanze, nelle stesse condizioni del minore di quattordici anni, del malato o del vecchio”.
E così l’espressione “altra causa” viene a comprendere tutti gli stati, come lo svenimento, l’ubriachezza e le alterazioni fisiche o psichiche della persona, che la pongano in stato di inferiorità e che le rendano impossibile, o anche solo estremamente difficile, uscire da una situazione pericolosa.
In tal senso, non vi è dubbio che lo stato di gravidanza, che evidentemente non è una condizione patologica ma fisiologica, determini in sé però una ridotta mobilità della persona offesa, oltre che una maggiore complessiva vulnerabilità, che implica cure e controlli sanitari per la donna e per il nascituro: dunque, in un contesto come quello libico dei centri di detenzione per i migranti, come ricostruito nelle sentenze di merito, certamente le cinque donne in stato di gravidanza rischiavano in modo concreto di trovarsi in una situazione di più che potenziale pericolo, come ritenuto dai Giudici del merito.
3.4 Può pertanto affermarsi che in relazione al delitto di pericolo astratto di abbandono di minori e incapaci, previsto dall’art 591, comma 1, cod. pen. l’elemento oggettivo è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo: in ossequio al principio di offensività ex art. 25 Cost., spetta al giudice escludere la punibilità di fatti, pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni ragionevole possibilità di produzione del danno, tenendo però in conto che l’incapacità di provvedere a se stesso “per altra causa” ben possa essere relativa.
4. Quanto al secondo delitto in contestazione, contenuto nel Capo VII del Titolo secondo del Codice della navigazione, intitolato “Delitti contro la persona”,
in dottrina si evidenzia in modo condivisibile come si verta in tema di delitto di pericolo avente come interesse tutelato quello della integrità personale, oltre che la libertà dagli arbìtri del comandante, l’ordinario procedere della spedizione, il rispetto delle regole normative e contrattuali relative al rapporto di lavoro a bordo, essendo la norma incriminatrice anche rivolta a tutelare il personale di bordo, oltre che i passeggeri.
4.1 Per quel che qui rileva, l’art. 1155, comma 1, cod. nav. – a tutela dei primi due beni indicati (integrità personale e libertà dagli arbìtri) riguardanti i naufraghi recuperati, divenuti passeggeri – recita: “Il comandante della nave o dell’aeromobile, che, fuori del territorio nazionale, arbitrariamente sbarca un componente dell’equipaggio o un passeggero, ovvero li abbandona impedendone il ritorno a bordo o anticipando la partenza della nave o dell’aeromobile, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni (…)”.
Che si tratti di un reato di pericolo e non di evento lo si evince dalla condotta descritta, che consiste nello sbarco arbitrario in sé, tanto che qualora si verifichi l’evento lesivo della integrità personale, costituito dalle lesioni personali o della morte, viene ad essere integrata la circostanza aggravante prevista al terzo comma dello stesso art. 1155 cod. nav., analogamente a quanto già osservato in ordine all’art. 591 cod. pen.
Le medesime considerazioni svolte in ordine ai delitti di pericolo astratto vanno replicate anche per il delitto previsto dal codice della navigazione, come pure l’arbitrarietà dello sbarco si sostanzia nella contrarietà a disposizioni normative e regolamentari, con il che deve rinviarsi alle indicate disposizioni nazionali e sovranazionali, violate nel caso in esame: il comandante della nave, in base al codice della navigazione, è titolare di un’ampia posizione di garanzia, in base alla quale egli ha l’obbligo di sovraintendere a tutte le funzioni che attengono alla salvaguardia della incolumità collettiva delle persone imbarcate e della nave, ivi comprese le operazioni di salvataggio dei passeggeri e di evacuazione (Sez. 4, n. 35585 del 12/05/2017, Schettino, Rv. 270781 – 01).
Si verte in tema di reato proprio, nel caso dell’art. 1155 cod. nav., a differenza di quello previsto dall’art. 591 cod. pen..
4.2 Anche in questo caso, quanto al coefficiente oggettivo del delitto in esame, le sentenze di merito hanno adeguatamente e senza aporie logiche motivato in ordine alle ragioni per le quali fosse sussistente un pericolo potenziale per tutti i centouno migranti, a seguito del ritorno in Libia, così prospettandosi la sussistenza di un pericolo ben ulteriore rispetto a quello potenziale, per altro non superabile neanche a posteriori, in quanto la omessa identificazione dei migranti medesimi ha impedito di verificarne la sorte.
4.3 Pertanto, il delitto di sbarco e abbandono arbitrario previsto dall’art. 1155, comma 1, cod. nav., reato proprio in quanto ne può essere autore solo il comandante della nave, è reato di pericolo astratto e l’elemento oggettivo è integrato dalla sbarco dei passeggeri avvenuto arbitrariamente — perché disposto in contrasto con le previsioni normative e regolamentari, cui è tenuto il comandante della nave, investito di una ampia posizione di garanzia funzionale alla incolumità collettiva dei passeggeri — nel caso in cui dallo sbarco medesimo derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità dei soggetti passivi, dovendo escludere la punibilità il giudice, in ossequio al principio di offensività, solo se manchi del tutto ogni ragionevole possibilità di produzione del danno.
5. Ad integrazione di quanto fin qui evidenziato, quanto al profilo oggettivo, deve anche richiamarsi, in ragione dello statuto protettivo dei naufraghi, ancor più se potenziali richiedenti asilo, alcuni interventi operati dalle Corti sovranazionali, che seppur riferiti alle condotte degli Stati membri dell’Unione Europea o contraenti della Convenzione EDU, rappresentano comunque indicatori rilevanti ai fini della nozione di pericolo nel caso in esame, fondato su informazioni assunte da organismi internazionali, istituzionali, governativi e non governativi.
5.1 La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha evidenziato i criteri di deroga alla normativa unionale, relativamente all’individuazione dello Stato membro competente a decidere sulle richieste di protezione internazionale, quando vi sia il pericolo di trattamenti inumani o degradanti.
Difatti, la Gran Camera della CGUE fin dal 2011, in relazione alla disciplina all’epoca vigente, ha affermato che il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una presunzione assoluta secondo la quale lo Stato membro che l’art. 3, n. 1, del regolamento n. 343/2003 designa come competente rispetta i diritti fondamentali dell’Unione europea: in sostanza, in ragione dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo “Stato membro competente” ai sensi del regolamento n. 343/2003 quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione (Grande Sezione CGUE, 21 dicembre 2011, cause C 411/10 e C 493/10,aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Court of Appeal England & Wales – Civil Division – Regno Unito e dalla High Court – Irlanda).
Le domande di pronunce pregiudiziali scaturivano dalla circostanza che i migranti, approdati in Grecia, si erano poi diretti nel Regno Unito e in Irlanda, ove le rispettive Corti sollecitavano la CGUE a chiarire se la Grecia dovesse ritenersi competente secondo il regolamento, perché Stato di primo ingresso nella Unione.
La CGUE ha ritenuto che l’enorme afflusso di migranti in Grecia, pari al 90% di quelli facenti ingresso in UE, avesse determinato un sovraffollamento tale da non garantire quanto prescritto dalla normativa unionale e richiamava — par. 88 — una pronuncia della Corte EDU che aveva dichiarato che il Regno del Belgio aveva violato l’art. 3 della CEDU esponendo il richiedente asilo, da un lato, ai rischi risultanti dalle carenze della procedura di asilo in Grecia, atteso che le autorità belghe sapevano o dovevano sapere che non vi era alcuna garanzia che la domanda di asilo sarebbe stata esaminata seriamente dalle autorità greche, e che il richiedente non sarebbe stato sottoposto a condizioni detentive ed esistenziali costitutive di trattamenti degradanti (Corte eur. D. U., sentenza M.S.S.c. Belgio e Grecia del 21 gennaio 2011, §§ 358, 360 e 367).
La Corte EDU — continuava la CGUE al par. 90 — per giudicare che i rischi corsi dal richiedente erano sufficientemente fondati, aveva preso in considerazione i rapporti regolari e concordanti di organizzazioni non governative internazionali che davano atto delle difficoltà pratiche poste dall’applicazione del sistema europeo comune di asilo in Grecia, la corrispondenza inviata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) al ministro belga competente, ma anche le relazioni della Commissione sulla valutazione del sistema di Dublino e le proposte di rivisitazione del regolamento n. 343/2003 volte a rafforzare l’efficacia di tale sistema e la tutela effettiva dei diritti fondamentali (sentenza M.S.S.c. Belgio e Grecia, cit., paragrafi 347 350).
Tali fonti di informazioni, osservava la CGUE, quanto ai rischi realmente corsi da un richiedente asilo nel caso in cui fosse stato trasferito verso lo Stato membro competente, potevano ritenersi comprovati da informazioni come quelle citate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Aggiungeva, infine, la CGUE, quanto alla definizione di “Stati sicuri”, che non erano ammissibili presunzioni assolute di garanzia quanto ai diritti umani anche nell’ambito UE: “102. Al riguardo si deve rilevare che l’art. 36 della direttiva 2005/85, relativo al concetto di paese terzo europeo sicuro, dispone, al n. 2, lett. a) e c), che un paese terzo può essere considerato “paese terzo sicuro” solo se, oltre ad aver ratificato la Convenzione di Ginevra e la CEDU, ne rispetta le disposizioni. 103. Una tale formulazione indica che la mera ratifica delle convenzioni da parte di uno Stato non può comportare l’applicazione di una presunzione assoluta che esso rispetti tali convenzioni. Il medesimo principio è applicabile tanto agli Stati membri quanto agli Stati terzi. 104. Pertanto, la presunzione, di cui al punto 80 della presente sentenza, sottesa alla normativa in materia, che i richiedenti asilo saranno trattati in maniera conforme ai diritti dell’uomo deve essere considerata relativa”.
In sostanza, la stessa CGUE evidenzia sia precondizione della “sicurezza” dello Stato, in relazione ai diritti della persona rifugiata, la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra e della Convenzione EDU, mentre la condizione di “sicurezza” è l’effettivo rispetto di tali normative.
Come si è già evidenziato, come anche risulta nel caso in esame dalle sentenze di merito, la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra, e neanche la Convenzione EDU.
Anche più recentemente la CGUE è intervenuta nuovamente, a fronte di un sistema normativo unionale evolutosi nel frattempo, sul punto delle relazioni fra i medesimi stati dell’Unione e del pericolo di refoulement diretto e indiretto (Seconda Sezione – 30 novembre 2023, nelle cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21, conseguente a cinque domande di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, proposte da questa Corte di cassazione, dai Tribunali di Roma, Firenze, Milano e Trieste).
Dopo aver premesso che il diritto dell’Unione poggia sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, e ciò giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri, ha affermato che il principio della fiducia reciproca impone a ciascuno di tali Stati di ritenere che, tranne in circostanze eccezionali, tutti gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a., C-297/17, C-318/17, C-319/17 e C-438/17, EU:C:2019:219, punto 84 nonché giurisprudenza ivi citata).
È tornata, la CGUE, ad affermare al par. 132 della menzionata pronuncia che “nell’ambito di un sistema europeo comune di asilo si deve presumere che il trattamento riservato ai richiedenti protezione internazionale in ciascuno Stato membro sia conforme a quanto prescritto dalla Carta, dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, nonché della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (v., in tal senso, sentenza del 19 marzo 2019, Jawo, C-163/17, EU:C:2019:218, punto 82 nonché giurisprudenza ivi citata), e che il divieto di refoulement, diretto e indiretto, quale espressamente previsto dall’articolo 9 della direttiva “procedure”, sia rispettato in ciascuno Stato membro”.
Ha aggiunto, però: “Tuttavia, non si può escludere che tale sistema incontri, nella pratica, gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, cosicché sussisterebbe un grave rischio che taluni richiedenti protezione internazionale siano, in caso di trasferimento verso detto Stato membro, trattati in modo incompatibile con i loro diritti fondamentali (sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a., C-297/17, C-318/17, C-319/17 e C-438/17, EU:C:2019:219, punto 86 nonché giurisprudenza ivi citata). Pertanto, la Corte ha statuito che, ai sensi dell’articolo 4 della Carta, gli Stati membri, ivi compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro competente, determinato conformemente al regolamento Dublino III, quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione (v., in tal senso, sentenza del 19 marzo 2019, Jawo, C-163/17, EU:C:2019:218, punto 85 e giurisprudenza ivi citata)” (parr. 139-140).
In sostanza, anche in un contesto di fiducia reciproca e uniformità dei principi fondanti, deve comunque verificarsi se sussistano elementi che, in via eccezionale, mettano a rischio la persona del richiedente asilo: ciò dimostra il grado di tutela che va assicurato a tali soggetti, anche nell’ambito dell’area unionale, come anche il rilievo attribuito a fonti informative plurime, istituzionali e non, governative e non, in ordine alla capacità di uno Stato di garantire adeguati standard di trattamento dei diritti umani dei potenziali richiedenti asilo.
5.2 D’altro canto, ben nota è la pronuncia della Corte Edu (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia – 23 febbraio 2012), richiamata anche dalla sentenza del G.u.p. del Tribunale di Napoli.
Il caso sottoposto alla Corte Edu riguardava l’intercettazione in mare di oltre duecento naufraghi in acque non italiane, avvenuta nel 2009, da parte di natanti militari italiani che, dopo averli salvati portandoli a bordo, li riportavano a T.
La Corte Edu affermava che i ricorrenti erano sottoposti alla giurisdizione dell’Italia ai sensi dell’art. 1 CEDU e dichiarava che vi era stata violazione dell’art. 3 CEDU in quanto i ricorrenti erano stati esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia, dell’art. 4 del Protocollo n. 4, dell’art. 13 combinato con l’art. 3 CEDU e con l’art. 4 del Protocollo n.4.
La Corte di Strasburgo ai parr. 35 e ss., come già evidenziato dalla CGUE, ha fatto riferimento a plurime fonti informative, che in questa sede di riportano in modo sintetico, in quanto rilevanti al fine accertare le condizioni esistenti in Libia se non altro fino al 2012.
Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa — relativamente alla visita svolta in Italia dal 27 al 31 luglio 2009 — reso pubblico il 28 aprile 2010, evidenziava come la politica “consistente nell’intercettare i migranti in mare e nel costringerli a ritornare in Libia o in altri paesi non europei costituiva una violazione del principio di non respingimento. Secondo il CPT, l’Italia era vincolata dal principio di non respingimento indipendentemente dal luogo di esercizio della sua giurisdizione, incluso l’esercizio della giurisdizione tramite il suo personale e le sue navi impegnati nella protezione delle frontiere o nel salvataggio in mare, persino in operazioni fuori del suo territorio (…) Al riguardo, a dire del CPT, i sopravvissuti ad un viaggio in mare sono particolarmente vulnerabili e spesso in uno stato tale da impedire loro di poter esprimere immediatamente il desiderio di chiedere asilo. Stando al rapporto del CPT, la Libia non può essere considerata un paese sicuro in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati; la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti – che corrono anche il rischio di essere espulsi – starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia rischiavano di essere vittime di maltrattamenti”.
Il rapporto di Human Rights Watch, pubblicato il 21 settembre 2009, lamentava la medesima violazione dei diritti umani, fondandosi sulla situazione in Libia e “anche sui risultati di ricerche pubblicate in un rapporto del 2006, intitolato “Libya, stemming the Flow. Abuses against migrants, asylum seekers and refugees”. Aggiungeva poi la Corte EDU: “38. Secondo Human Rights Watch le motovedette italiane rimorchiano le imbarcazioni dei migranti nelle acque internazionali senza verificare se tra questi vi siano rifugiati, malati o feriti, donne in stato di gravidanza, bambini non accompagnati o vittime di tratta o di altre forme di violenza. Le autorità italiane costringerebbero i migranti intercettati a salire a bordo di navi libiche o li riaccompagnerebbero direttamente in Libia, dove essi sarebbero immediatamente arrestati dalle autorità locali. Alcune di queste operazioni sarebbero coordinate dall’agenzia Frontex (…). Le autorità (libiche) non avrebbero nemmeno concesso a Human Rights Watch l’autorizzazione a visitare uno dei numerosi centri di detenzione per i migranti in Libia, nonostante le ripetute richieste dell’organizzazione umanitaria. L’HCR avrebbe adesso accesso alla prigione di Misurata, dove generalmente sarebbero detenuti i migranti clandestini, e alcune organizzazioni libiche vi fornirebbero servizi umanitari. Tuttavia, in assenza di un accordo ufficiale, l’accesso non sarebbe garantito. Inoltre, la Libia non conoscerebbe il diritto di asilo. Le autorità non farebbero alcuna distinzione tra i rifugiati, i richiedenti asilo ed altri migranti clandestini”.
La visita di Amnesty International in Libia dal 15 al 23 maggio 2009: “Durante la visita, Amnesty International si è recata in particolare a circa 200 km da T, dove ha interrogato brevemente alcuni delle centinaia di migranti clandestini provenienti da altri paesi dell’Africa che affollano il Centro detentivo di M. Molti di quei migranti sarebbero stati intercettati mentre cercavano di recarsi in Italia o in un altro paese del sud dell’Europa che ha chiesto alla Libia e ad altri paesi del Nord Africa di trattenere i migranti illegali provenienti dall’Africa sub sahariana per impedire loro di recarsi in Europa. 41. Secondo Amnesty International, tra le persone detenute a M possono esservi dei rifugiati che fuggono la persecuzione, inoltre la Libia non dispone di una procedura di asilo e non è parte alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati né al Protocollo di questa datato 1967; gli stranieri, compresi quelli bisognosi di tutela internazionale, rischierebbero di non beneficiare della tutela legale. I detenuti non avrebbero praticamente alcuna possibilità di denunciare eventuali violazioni dinanzi ad un’autorità giudiziaria competente per atti di tortura od altre forme di maltrattamenti”.
Infine la Corte Edu citava i numerosi “rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all’epoca dei fatti”: Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007; Amnesty International, Libia -Rapporto 2008 di Amnesty International, 28 maggio 2008; Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008; Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in Libia, 4 aprile 2010.
Inoltre, per quanto qui interessa, la Corte Edu quanto al respingimento collettivo in mare osservava: “177. La Corte ha già osservato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Commissione e della Corte, lo scopo dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 è evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le loro argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente. Se dunque l’articolo 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione, sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in alto mare. L’articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli che sono partiti via terra. 178.
Pertanto è chiaro che, così come la nozione di “giurisdizione” è principalmente territoriale e si esercita presumibilmente nel territorio nazionale degli Stati (paragrafo 71 supra), la nozione di espulsione è, anch’essa, principalmente territoriale, nel senso che le espulsioni avvengono nella maggior parte dei casi a partire dal territorio nazionale. Tuttavia, laddove, come nel caso di specie, ha riconosciuto che uno Stato contraente aveva esercitato, a titolo eccezionale, la propria giurisdizione fuori dal suo territorio nazionale, la Corte non vede ostacoli nell’accettare che l’esercizio della giurisdizione extraterritoriale di tale Stato ha preso la forma di una espulsione collettiva. Concludere diversamente, e accordare a quest’ultima nozione una portata strettamente territoriale, provocherebbe una distorsione tra il campo di applicazione della Convenzione in quanto tale e quello dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, il che sarebbe contrario al principio secondo cui la Convenzione deve interpretarsi nella sua globalità. Del resto, per quanto riguarda l’esercizio da parte di uno Stato della propria giurisdizione in alto mare, la Corte ha già affermato che la specificità del contesto marittimo non può portare a sancire uno spazio di non diritto all’interno del quale gli individui non sarebbero soggetti ad alcun regime giuridico che possa accordare loro il godimento dei diritti e delle garanzie previsti dalla Convenzione e che gli Stati si sono impegnati a riconoscere alle persone poste sotto la loro giurisdizione (Medvedyev (ed altri c. Francia ((GC), n. 3394/03, 29 marzo 2010) par. 81)».
La Corte Edu aggiungeva: “185. Nella fattispecie, la Corte non può che constatare che il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia è stato eseguito in assenza di qualsiasi forma di esame della situazione individuale di ciascun ricorrente. È indubbio che i ricorrenti non sono stati oggetto di alcuna procedura di identificazione da parte delle autorità italiane, che si sono limitate a far salire tutti i migranti intercettati sulle navi militari e a sbarcarli sulle coste libiche. Inoltre, la Corte osserva che il personale a bordo delle navi militari non aveva la formazione necessaria per condurre colloqui individuali e non era assistito da interpreti e consulenti giuridici. Questo basta alla Corte per escludere l’esistenza di garanzie sufficienti che attestino che la situazione individuale di ciascuna delle persone interessate è stata presa in considerazione in maniera reale e differenziata. 186. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che l’allontanamento dei ricorrenti ha avuto un carattere collettivo contrario all’articolo 4 del Protocollo n. 4. Pertanto, vi è stata violazione di tale disposizione”.
5.3 Tale nota pronuncia della Corte EDU ha rilievo anche in relazione al caso in esame, sia in merito all’omessa analisi individuale, previa identificazione, dei naufraghi e delle loro eventuali richieste di protezione, sia anche per quanto la Corte Edu ha chiarito al par.74: “sin dal momento in cui uno Stato esercita, tramite i propri agenti operanti fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo, quindi giurisdizione, esso è tenuto, in virtù dell’articolo 1, a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione pertinenti al caso di quell’individuo. In questo senso, quindi, la Corte ammette ora che i diritti derivanti dalla Convenzione possano essere “frazionati e adattati” ((Al-Skeini ed altri c. Regno Unito (GC), n. 55721/07) parr. 136 e 137; a titolo di confronto, si veda (Bankovic ed altri c. Belgio ed altri 16 Stati contraenti (dee.) (GC), n. 52207/99) par. 75)2. Aggiunge altresì la Corte dei diritti (par. 75) come si verta in tema di casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti “azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (Bankovic, sopra citata, par. 73, e Medvedyev ed altri, sopra citata, par. 65)”.
5.4 A tal proposito va qui richiamata anche una sentenza di questa Corte di cassazione sia in relazione alle condizioni in Libia, sia anche in relazione alla definizione della qualità di incaricato di pubblico servizio del comandante di nave.
Sez. 6, n. 15869 del 16/12/2021, dep. 2022, Ib.Ti., Rv. 283189 – 01 si pronunciava in merito alla imputazione di resistenza pubblico ufficiale attribuita ad alcuni naufraghi che, con violenza e minaccia, si opposero all’ufficiale della nave privata Vos Thalassa che li aveva salvati, per evitare il ritorno, disposto dai centri di coordinamento, in Libia. Ciò avvenne appena 22 giorni prima del caso che qui occupa, in data 8 luglio 2018, da parte degli ufficiali di bordo della nave privata Vos Thalassa.
Il Tribunale aveva assolto gli imputati stranieri, ritenendo sussistente la scriminante della legittima difesa, in quanto costoro avrebbero reagito per non essere ricondotti in Libia, dove sarebbero stati esposti al pericolo di violenze e di trattamenti inumani e degradanti.
Sez. 6, Ib.Ti. afferma il principio che il diritto al non-respingimento (“non refoulement”) in un “luogo non sicuro” – enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra – costituisce principio internazionale consuetudinario di carattere assoluto, cui deve riconoscersi valenza di “ius cogens” in quanto proiezione del divieto di tortura, e come tale invocabile – secondo l’interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 3 della Convenzione EDU – non dai soli “rifugiati”, ma da qualsiasi essere umano che possa essere respinto verso una nazione in cui sussista un ragionevole rischio di subire un pregiudizio alla propria vita, alla libertà, ovvero all’integrità psicofisica.
Nel caso di specie — affermava anche la richiamata sentenza — “la Libia nel luglio del 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento, dunque, non poteva essere disposto ed eseguito. Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati di fatto concreti”.
5.5 Tale caso, per molti profili analogo a quello in esame, consente di avere conferma che il comandante della nave italiana civile sia da ritenersi per il nostro ordinamento, per alcune funzioni di polizia di sicurezza, come quelle afferenti il salvataggio in mare, quale incaricato di pubblico servizio; per altre, come quelle certificative di tipo notarile e quelle surrogatorie dell’ufficiale di stato civile a bordo, o anche per quelle doganali, è da ritenersi pubblico ufficiale.
Opera, quindi, il comandante della nave privata, quale agente dello Stato anche in acque internazionali in ordine a tali funzioni: attraverso il comandante della nave lo Stato, infatti, esercita controllo e autorità su un individuo, e quindi giurisdizione, ed è tenuto, in virtù dell’articolo 1 della CEDU, a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione (quanto alla qualifica di pubblico ufficiale del comandante del natante civile, Sez. 5, n. 12293 del 26/06/1975 , Cimmino, Rv. 131552 – 01, rileva in modo condivisibile come in base al codice della navigazione, il comandante della nave è portatore e garante di interessi pubblici e privati, gli sono attribuiti compiti dell’una e dell’altra natura, esplica funzioni talora proprie del pubblico ufficiale e talora invece di natura esclusivamente privata; anche Sez. 6, n. 27599 del 05/06/2006, Carluccio, Rv. 235228 – 01, in motivazione, osserva come il comandante della nave cumuli in sé funzioni di diritto privato e di diritto pubblico, fra le quali ultime rientrano senza dubbio le attività ricognitivo-certificative relative al manifesto di partenza, le quale esulano dal rapporto privatistico tra comandante e armatore ai sensi dell’art. 44 L. n. 1424 del 1940, ripreso dal T.U. leggi doganali, D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43; Sez. 2, n. 2881 del 19/12/1966, dep. 15/02/1967, Coluccia, Rv. 103484 – 01, afferma che deve riconoscersi la qualità di pubblico ufficiale al comandante di una nave dell’armamento privato, quando egli, quale capo della spedizione, faccia uso dei poteri autoritari direttamente conferitigli dalla legge in vista del regolare e felice esito della navigazione – fattispecie in tema di ammutinamento articoli 1105,1106,1110 cod. nav.; Sez. 3, n. 179 del 21/01/1963, Ferrigno, Rv. 098967 – 01 ha confermato che il comandante della nave assume la qualità di pubblico ufficiale, come privato esercente pubbliche funzioni, soltanto in relazione alle potestà pubblicistiche attribuitegli dalla legge — come quelle di polizia giudiziaria previste dall’art 1235 cod. nav., quelle inerenti alla qualità di capo della comunità viaggiante, e previste dagli artt. 296 e 888 cod. nav., e quelle di carattere disciplinare contemplate dall’art 1249 dello stesso codice).
E così, la complessa figura del comandante della nave, delineata dal codice della navigazione e connotata da profili privatistici e da altri pubblicistici (quali adempiere a tutte le prescrizioni di polizia, relative alla partenza ed all’arrivo delle navi, alla regolare tenuta dei documenti di bordo, al relazionare quanto a eventi straordinari, verificatisi nel corso del viaggio, all’autorità giudiziaria competente), è titolare anche degli obblighi di prestare soccorso a navi o ad aeromobili in pericolo (artt. 489 e 590 cod. nav.).
L’art. 489 prescrive l’obbligatoria assistenza a nave in mare o in acque interne, quando vi sia pericolo per quest’ultima di perdersi, oltre che nel caso previsto nell’articolo 485 di pericolo conseguente a urto, quando a bordo della nave o dell’aeromobile siano in pericolo persone. Inoltre, la norma impone al comandante di nave, in corso di viaggio o pronta a partire, che abbia notizia del pericolo corso da una nave o da un aeromobile, di accorrere per prestare assistenza, quando possa ragionevolmente prevedere un utile risultato, a meno che sia a conoscenza che l’assistenza è portata da altri in condizioni più idonee o simili a quelle in cui egli stesso potrebbe portarla.
L’art. 490 obbliga il comandante, quando la nave in pericolo sia del tutto incapace di manovrare a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo. È del pari obbligatorio, negli stessi limiti, il tentativo di salvare persone che siano in mare o in acque interne in pericolo di perdersi.
Di tali obblighi, come di tutti quelli imposti dalla legge al comandante della nave ex art. 274, comma 2, cod. nav., non risponde l’armatore, proprio per la natura pubblicistica della specifica funzione assegnata dall’ordinamento, che svincola il comandante dal rapporto privatistico con l’armatore.
Difatti, a tal proposito, è stato osservato in dottrina come la legge ponga a carico del comandante un complesso di obblighi funzionali alla sicurezza della navigazione, delle persone e delle cose, nel peculiare ambiente nel quale la navigazione opera.
Peraltro sul punto il diritto interno risulta conforme, oltre che alle consuetudini internazionali, anche all’art.98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), c.d. Convezione di Montego Bay – ratificata con legge 2 dicembre 1994, n.689 – secondo cui: “2Ogni Stato impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza”; e all’art. 10 della Convenzione di Londra del 28 aprile 1989 sul soccorso in mare: «Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo”.
Tale ricognizione della normativa interna e sovranazionale evidenzia come il comandante della nave sia un incaricato di un pubblico servizio ex art. 358 cod. pen., relativamente al salvataggio in mare di persone e cose, nelle stesse forme richieste per gli analoghi doveri di salvataggio per le navi militari o comunque statali e in assenza dei poteri tipici della funzione pubblica.
Il dovuto intervento di salvataggio, al quale è tenuto il comandante della nave, deve essere adempiuto sulla scorta delle indicazioni dei centri di coordinamento competenti per la Convenzione SAR e, una volta operato il salvataggio, il comandante deve procedere alla consegna in porto sicuro, oltre a dover adempiere durante il viaggio a una serie di obblighi di custodia e cura quanto ai naufraghi a bordo, in relazione ai profili sanitari, di identificazione, di conoscenza della volontà degli stessi di voler chiedere la protezione internazionale, dovendo infine anche denunciare l’evento del salvataggio quale evento straordinario al primo porto ai sensi dell’art. 304 cod. nav. L’insieme di tali compiti conseguenti al salvataggio connota, anche sotto questo profilo, l’attività del comandante della nave come di pubblico servizio.
D’altro canto, trova applicazione l’art. 358 cod. pen. al comandante della nave civile, tenuto alle condotte di salvataggio, in quanto allo stesso non è richiesta una attività di semplice mansione d’ordine o di prestazione materiale, che escluderebbe la menzionata qualità: difatti, oltre alle competente tecniche complesse e agli obblighi conseguenti al salvataggio sopra indicati, è richiesta, sia dalle richiamate disposizioni del codice della navigazione che dalle norme sovranazionali, la valutazione tecnica della sussistenza del pericolo per il natante e per le persone da soccorrere, la verifica in ordine alla utilità dell’intervento di salvataggio medesimo, nonché in ordine ai rischi sostenibili per il proprio natante, e per l’equipaggio e i passeggeri relativi. In sostanza si tratta di una valutazione complessa che certamente non può ritenersi riconducibile a mansioni d’ordine o materiali.
La conseguenza del riconoscimento della qualità di incaricato di pubblico servizio è che con il comandante della nave viene impegnato anche lo Stato, in quanto si verte in tema di estensione della giurisdizione ai fini dell’applicazione della CEDU, ai sensi dell’art. 1, come in precedenza richiamato. E ciò vale anche per l’attuazione della disciplina unionale in tema di migrazioni e diritti fondamentali: infatti, a proposito delle direttive dell’Unione, si è affermato che l’obbligo per gli Stati membri, di conseguire il risultato previsto dalle stesse, così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, si impongono, oltre che alle autorità giurisdizionali anche a tutte le autorità degli Stati membri (così CGUE, sentenza del 14 ottobre 2020, C-681/18, KG, par. 49; sentenza del 19 aprile 2016, DI, C-441/14, EU:C:2016:278, par. 30; sentenze von Colson e Kamann, 14/83, EU:C:1984:153, punto 26, nonché Kucukdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 47).
5.6 Deve, pertanto, affermarsi che il comandante della nave privata, battente bandiera italiana, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 cod. pen. quanto al salvataggio in mare di persone, in ragione degli obblighi di prestare soccorso a navi in pericolo previsti dalla normativa nazionale (artt. 489 e 590 cod. nav.) e sovranazionale (art.98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare -UNCLOS- c.d. Convenzione di Montego Bay – ratificata con legge 2 dicembre 1994, n.689; art. 10 della Convenzione di Londra del 28 aprile 1989 sul soccorso in mare): pertanto, opera quale agente dello Stato in acque internazionali, allorché esercita controllo e autorità sul naufrago, e quindi estende la giurisdizione dello Stato di appartenenza, ai sensi dell’articolo 1 della CEDU, ed è tenuto pertanto a riconoscere alla persona del naufrago i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione.
5.7 Questa Corte di cassazione rileva come i principi sovranazionale, enunciati dalle Corti, palesino sempre la necessità di verificare in concreto la “sicurezza” dello Stato di destinazione, a fronte di situazioni emergenziali che lascino presumere che non vengano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi, anche solo potenzialmente richiedenti asilo, sia in ambito unionale che internazionale, tanto più nel caso in cui la designazione del “porto sicuro” non avvenga da parte delle autorità di coordinamento competenti per la zona SAR o da quelle che lo siano in via sussidiaria.
Per altro, la sentenza della Corte Edu, relativa al caso Hirsi e altri, richiamata dalla pronuncia di primo grado (foli. 7 e 17), fondava e dava conto di una situazione in Libia fino al 2012 che metteva in pericolo i migranti ivi transitanti, tanto più che non trovava applicazione da parte della Libia la Convenzione di Ginevra.
La stessa sentenza del G.u.p. del Tribunale di Napoli, emessa il 13 ottobre 2021, rilevava come se il 28 giugno 2018 era stata notificata unilateralmente l’istituzione di una SAR libica all’IMO, tale SAR non risultasse ancora operativa, neanche alla data della sentenza medesima oltre che nel momento in cui ebbero a verificarsi i fatti attribuiti a Gi.St., allorquando lo stato unitario libico non esisteva e le autorità di Tripoli, pur se riconosciute dalle Nazioni Unite, risultavano però aver perso il controllo di parti molto vaste del territorio nazionale (fol. 18 e 23).
Il G.u.p., inoltre, osservava anche come la Libia non avesse la disponibilità di mezzi adeguati al soccorso e non offrisse porti sicuri di sbarco, per quanto emergeva da atti e documenti ufficiali OIM e UE, oltre che per quanto risultava dalla intervista ad un cittadino camerunense No.Ba. che descriveva le condizioni nei centri di detenzione in Libia (fol. 28).
Tali emergenze, riportate nella sentenza di primo grado, non sono oggetto di doglianza e non risultano, quindi, contestati.
5.8 Quanto all’elemento soggettivo, per il delitto previsto dall’art. 591 cod. pen. pacificamente la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il dolo del delitto di abbandono di persone minori o incapaci sia generico e possa assumere la forma del dolo eventuale quando si accerti che l’agente, pur essendosi rappresentato, come conseguenza del proprio comportamento inerte, la concreta possibilità del verificarsi di uno stato di abbandono del soggetto passivo, in grado di determinare un pericolo anche solo potenziale per la vita e l’incolumità fisica di quest’ultimo, persiste nella sua condotta omissiva, accettando il rischio che l’evento si verifichi (Sez. 5, n. 44657 del 21/10/2021, L., Rv. 282173 – 01; Sez. 5, n. 44013 del 11/05/2017, Hmaidan, Rv. 271431 – 01), ovvero, in caso di condotta attiva, è richiesta la consapevolezza di abbandonare a se stesso il soggetto passivo che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica (Sez. 5, n. 15147 del 14/03/2007, Simone, Rv. 236157 – 01), anche in assenza di un particolare malanimo da parte del reo (Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012, dep. 08/03/2013, T., Rv. 255173 – 01).
Per il dolo del delitto di sbarco arbitrario, occorre quello generico, avente ad oggetto la consapevolezza e volontà del trovarsi al di fuori del territorio nazionale, allorché si sbarca il passeggero, oltre che della arbitrarietà dello sbarco medesimo, nei termini in precedenza indicati.
6. Venendo al primo motivo di ricorso, la difesa lamenta che le sentenze di merito abbiano valorizzato il rapporto degli osservatori dell’Onu del 18 dicembre 2018, che indicavano come il porto di Tripoli non potesse considerarsi “sicuro” attese le condizioni inumane e degradanti dei centri di detenzione per migranti ivi ubicati, come anche sottovalutando il comunicato ADN Kronos del 23 giugno 2018, che riferiva della competenza libica per la relativa neoistituita zona SAR.
6.1 E bene, l’esame della sentenza impugnata (cfr. fol. 8) consente di evidenziare come il dolo venga tratto non tanto dalla richiamata relazione degli osservatori dell’Onu, bensì dalla condotta complessiva posta in essere dal Gi.St. che non contattava i centri di coordinamento, rimettendosi alle indicazioni provenienti dalla piattaforma petrolifera (sentenza di primo grado fol. 22) e dall’ufficiale libico presente sulla stessa, prendendolo a bordo. Quest’ultimo veniva ritenuto essere, in modo non manifestamente illogico, dalle sentenze di merito non un ufficiale della Guardia Costiera, bensì un ufficiale della dogana libica in servizio presso la piattaforma petrolifera, per altro mai identificato a bordo di Asso28: ciò anche perché, si legge nella sentenza di primo grado (foli. 12-13), la stessa email, inviata “a cose fatte2 al IMRCC di R da parte di Asso28, riferiva che ad intervenire era stato un ufficiale della dogana libica, non della Guardia Costiera.
In vero, lo stesso motivo di ricorso è in sé contraddittorio, perché se per un verso richiama il comunicato dell’Agenzia ADN Kronos che dava atto della necessità che i comandanti delle navi si rivolgessero per la zona SAR libica al Centro di coordinamento di T, per altro verso non teneva in conto che quel Centro di coordinamento non fu contattato da Gi.St. per conoscere come orientare il proprio comportamento e dove condurre i 101 naufraghi. In sostanza, la fonte di conoscenza che dovrebbe giustificare Gi.St., di fatto ne evidenzia la natura arbitraria della condotta, in quanto contra ius, poiché mai intervenne, secondo i Giudici del merito, alcun tempestivo contatto con il Centro coordinamento libico che era in Tripoli.
Per altro, per quanto fosse autorevole il dispaccio di ADN Kronos, che certamente comunicava l’istituzione della zona SAR, lo stesso non costituiva una fonte ufficiale e comunque avrebbe richiesto, evidentemente, un contatto tempestivo con il Centro di coordinamento libico prima di intraprendere la rotta verso T, ovvero con quello italiano, ai sensi del punto 3.1.9 della Convenzione di A, come evidenziato dalla sentenza di primo grado e dal comandante della Guardia Costiera Italiana, Ta.@ (rispettivamente foli. 18 e 15-16 della sentenza di primo grado).
Di fatto il ricorrente non si confronta con un dato oggettivamente comprovato per le sentenze di merito: l’asserito ufficiale libico, e ciò a prescindere dal tema della sua identificazione, che salì a bordo di Asso28 provenendo direttamente dalla piattaforma petrolifera, indossava una uniforme in uso sulla piattaforma petrolifera e non la divisa della Guardia Costiera (cfr. fol. 14 sentenza di primo grado), e soprattutto non era in collegamento con il Centro di coordinamento di T, che invece direttamente Gi.St. avrebbe dovuto contattare.
A tale conclusione, non manifestamente illogica, giungono i Giudici del merito grazie a due conversazioni: quella tra nave Asso28 e la Guardia Costiera libica alle ore 18.30 del 30 luglio 2018, nel corso della quale l’ufficiale della stessa, Mu.Za., chiede informazioni sull’evento SAR in questione, del quale evidentemente non aveva alcuna contezza; come anche quella fra Asso28 e Open Arms delle ore 20.33 dello stesso giorno, nel corso della quale la nave italiana comunicava che le indicazioni era provenute “dai libici, in particolare dalla Sabratha dalla quale noi dipendiamo e per la quale lavoriamo” (fol. 22 della sentenza di primo grado).
In tal senso la doglianza — relativa alla posteriorità del Rapporto Onu, che lamenta la valutazione solo ex post, e non con prognosi postuma, per valutare la potenziale messa in pericolo dei passeggeri conseguente al trasferimento sulla motovedetta libica in T, e il correlato dolo — non risulta decisiva né vince le considerazioni del G.u.p. (fol. 23), fondate sulle plurime fonti di informazione quanto alla situazione di pericolo in Libia nell’estate del 2018, richiamate al punto 5.6 che precede.
Nonostante la notifica (unilaterale) della istituzione della zona SAR libica all’IMO, la stessa non era operativa, non esisteva uno stato libico unitario e le autorità di Tripoli — riconosciute dalle Nazioni Unite — avevano perso il controllo di parti molto vaste del territorio che prima controllavano; inoltre, osservava il G.u.p., la Libia non aderiva alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, cosicché probabile sarebbe stata la violazione dei diritti umani (fol. 26).
Quanto a tale ultimo profilo, di prognosi postuma, deve richiamarsi come analoghe e sovrapponibili valutazioni siano state svolte dalla Corte Edu, come in precedenza evidenziato.
In tale prospettiva anche la Corte di appello, a conferma, rilevava come decisiva fosse, anche ai fini della prova del dolo, la accertata condotta, non conforme alle regole, seguita dall’imputato: sia non operando gli accertamenti necessari sui migranti, verificando se volessero o meno chiedere asilo, come anche quelli necessari relativi ai minori, tesi ad acclarare se fossero “accompagnati o meno”; sia affidandosi al presunto funzionario libico presente sulla piattaforma, senza alcune direttiva dei centri di coordinamento.
È in questa prospettiva di violazione delle norme internazionali e nazionali, sopra elencate, che non manifestamente illogica risulta l’argomentazione della Corte di appello a riprova della condotta dolosa: Gi.St., per un verso non operò personalmente il coordinamento dei soccorsi, per altro verso non sapeva quale era il luogo in cui i 101 migranti sarebbero stati trasferiti, cosicché solo una condotta tesa ad accertarsi, recandosi fisicamente in loco, quale fosse la struttura nella quale i migranti vennero alloggiati e le reali condizioni di accoglienza, con le verificate garanzie per i diritti umani, gli avrebbe consentito, a quel punto, di escludere il pericolo per la vita e l’incolumità dei naufraghi tutti e, in particolare, delle donne in stata di gravidanza e dei minori di anni quattordici.
In sostanza, correttamente la Corte di appello evidenzia come, a fronte di una condotta errata nella gestione del salvataggio, per l’omesso coinvolgimento dei centri di coordinamento libico e, in subordine, italiano, sarebbe spettato al Gi.St. escludere ogni pericolo recandosi a verificare concretamente le condizioni menzionate.
D’altro canto, il richiamato punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo prevede che lo Stato responsabile per la zona SAR si assume la responsabilità di vigilare e coordinare, affinché i “sopravvissuti .. vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in un luogo sicuro.. “.
In mancanza di tale assunzione di responsabilità da parte dello Stato libico, che mai era stato compulsato dal Gi.St. per ottenere una indicazione specifica in ordine a un “porto sicuro”, spettava al comandante verificare la sicurezza del luogo di ricovero dei migranti, che invece furono trasbordati a bordo di una motovedetta, senza che Gi.St. ne seguisse le sorti, con il rischio che la destinazione degli stessi potesse non essere quella garantita dallo Stato libico, che pure la zona SAR aveva attivato, e comunque non rispondesse alle indicazioni delle Linee guida IMO quanto al “luogo sicuro”.
Il G.u.p., a tal proposito, ne richiama la definizione: “un luogo sicuro è una località dove (…) la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale2 (par. 6.2 della Ris. MSC. 167-78 del 2004).
Ne consegue che le censure mosse con il primo motivo di ricorso sono del tutto infondate, in quanto ragionevole e puntuale è l’argomentare della Corte territoriale nel ritenere che, se non altro, Gi.St. abbia accettato il rischio del pericolo per le persone offese vulnerabili del delitto previsto dall’art. 591 cod. pen. e per tutti i 101 naufraghi sbarcati arbitrariamente sulla motovedetta nel mare antistante Tripoli. Pericolo sussistente per i naufraghi, per quanto in precedenza evidenziato, anche in modo solo potenziale, non essendo ragionevole escludere, alle luce delle emergenze richiamate nella nota sentenza Hirshi e delle fonti menzionate dalla sentenza di primo grado, la possibilità della produzione del danno, sia per le ragioni esposte quanto all’omesso rispetto del procedimento di coordinamento delle operazioni, sia anche in relazione alla situazione ambientale libica in quel momento storico, profili logicamente valutati e ritenuti sussistenti dalle sentenze di merito.
Per altro, il Centro di coordinamento di Roma fu contattato solo “a cose fatte” e, a detta del suo responsabile, fu solo questo il caso in cui un natante battente bandiera italiana omise di chiedere indicazioni al Centro nazionale di riferimento.
6.2 D’altro canto, la sentenza ora impugnata prefigurava correttamente come sufficiente il dolo eventuale (cfr. fol. 8-9) per i reati attribuiti all’imputato.
Le sentenze di merito giungono a ritenere comprovato il dolo, anche nella forma eventuale, di fatto in piena sintonia con il consolidato orientamento Sezioni Unite di questa Corte, per il quale ricorre tale coefficiente soggettivo quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e, ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261104).
In particolare, deve rilevare questa Corte che il buon governo e la valutazione corretta da parte dei Giudici del merito si riscontra grazie all’esame di alcuni degli indicatori di dolo eventuale, richiamati da Sez. U, Espenhahn, pur se non esplicitamente citati: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, consistente nell’essersi affidato il comandante alle indicazioni provenienti dalla piattaforma petrolifera e al coordinamento del “custom officer”, con evidente violazione del procedimento da seguire, non essendo stati contattati i centri di coordinamento libico, competente, né quello italiano, di solito sempre contattato anche in caso di incompetenza per interventi in zona SAR libica; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente: il comandante risultava tale dal 2013, come emerge dall’interrogatorio allegato al ricorso, dunque aveva una più che significativa esperienza di navigazione con il ruolo di comandante, risultava avere già operato altri soccorsi e, quindi, conosceva le modalità operative da seguire. Per altro non può trascurarsi la notorietà del caso Hirsi, che coinvolse il Governo Italiano con sentenza del 2012, e di altri casi, come anche quello del Vos Thalassa, altro natante italiano privato, appena venti giorni prima (caso in precedenza citato, che aveva visto i colleghi dell’attuale imputato minacciati, nel mentre provavano a condurre i naufraghi in Libia, che si opponevano al rientro stimando quello libico un porto insicuro); c) la durata e la ripetizione dell’azione: a tal proposito la durata di più ore dall’avvistamento avrebbe consentito di contattare i centri di coordinamento non “a cose fatte”, come invece avvenne; d) il comportamento successivo al fatto: a tal riguardo le sentenze di merito evidenziano come il comandante, una volta avvenuto il trasbordo dei naufraghi dinanzi a Tripoli, non provvide a verificare ove gli stessi fossero stati condotti e a sincerarsi delle loro condizioni. Correttamente i Giudici del merito rilevano come la Asso28 rimase nel Porto di T fino al giorno seguente, il che avrebbe consentito al comandante di effettuare le predette verifiche, anche chiedendo alla propria compagnia di essere autorizzato a lasciare la nave o delegando qualche suo sottoposto, qualora, come afferma l’imputato, i compiti di servizio gli impedissero di scendere a terra: ma il tentativo di chiedere l’autorizzazione non fu neanche effettuato; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali: esclusa la finalità diretta dell’ingiusto vantaggio, che ha condotto il G.u.p. a ritenere insussistente il delitto di abuso di ufficio, la rapida definizione del salvataggio consentiva anche, osserva la Corte di appello con motivazione non manifestamente illogica, che la condotta posta in essere propiziasse il contestuale disbrigo delle attività di servizio di Asso28 presso il porto di Tripoli, con un beneficio indiretto; f) la probabilità di verificazione dell’evento: premesso che i delitti contestati sono di mera condotta e non di evento, quanto a quest’ultimo basti qui richiamare quanto le sentenze di merito hanno evidenziato, in merito al pericolo non solo astratto ma concreto per l’incolumità, che i naufraghi hanno corso sbarcando in Libia, potendo essere condotti nei centri di detenzione, per quanto emergente anche da fonti informative antecedenti, riferite dal G.u.p. ; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione: a tal proposito deve evidenziare questa Corte come l’omessa identificazione dei naufraghi a bordo abbia impedito di verificare in concreto, come osserva il G.u.p., quale sorte gli stessi abbiano avuto; ciò certamente ha tenuto esente l’imputato da potenziali maggiori responsabilità, quali quelle previste dalle aggravanti per le intervenute lesioni personali o per la morte previste dall’art. 591, comma 3, cod. pen. e dall’art. 1155, comma 3, cod. nav.; non di meno l’imputato ha accettato le conseguenze negative dell’omessa richiesta di indicazioni ai centri di coordinamento competenti.
Sulla scorta di tali elementi, emersi dalle valutazioni congrue operate dai Giudici di merito, costoro correttamente hanno ritenuto comprovata la prova del dolo almeno eventuale, nell’ambito di un contesto complessivamente illecito dell’azione, caratterizzato da plurime omissioni anche a bordo del natante: alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, in modo corretto e non manifestamente illogico, la sentenza impugnata ritiene comprovato che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita, neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento, nel caso di specie la messa in pericolo dei naufraghi all’arrivo in porto, dato acclarato, come richiesto dalla ed. “prima formula di Frank”. Il primo motivo di ricorso è quindi infondato.
7. Quanto all’invocata scriminante, oggetto del secondo motivo di ricorso, proprio quanto fin qui evidenziato palesa come corretta sia stata la motivazione della Corte territoriale, che ha escluso che il presunto ufficiale libico, salito a bordo di Asso28, fosse l’autorità che potesse impartire un ordine legittimo.
D’altro canto, conferma l’assenza di una autorità legittima che impartisse gli ordini, la circostanza che l’identità del presunto ufficiale rimase ignota a bordo del natante e che l’ufficiale di dogana – che in vero indossava una tuta in uso sulla piattaforma petrolifera, come riferiscono alcuni testimoni indicati dalla sentenza di primo grado — non fosse in collegamento con il Centro di coordinamento libico, che ore dopo ancora non sapeva del salvataggio, del numero di migranti, della destinazione degli stessi.
Solo se proveniente da tale Centro di coordinamento, ovvero da quello di R in via sussidiaria, l’ordine poteva valutarsi legittimo e, quindi, con forza scriminante: e di ciò, come emerso nella prospettazione difensiva anche in questo ricorso, lo stesso Gi.St. era consapevole, perché il contenuto della nota della ADN Kronos era proprio nel senso di compulsare il Centro di coordinamento libico, unico legittimato a impartire ordini. D’altro canto, anche il distress del coordinamento italiano delle ore 11.27 inviato a Asso28, indicava come referenti competenti il Centro e la Guardia costiera libica, recando in modo puntuale i rispettivi recapiti telefonici e indirizzi di posta elettronica (cfr. ali. 3 al ricorso).
Difatti l’adempimento del dovere richiede un ordine legittimo, e la legittimità è in primo luogo formale, ciò attinente alla competenza del superiore ad emanarlo.
Per l’applicazione della scriminante dell’art. 51 cod. pen. è necessario che l’ordine sia legittimo, ossia promanante dalla autorità competente, che sia stato dato nella forma prescritta e che, infine, il suo contenuto rientri nell’esplicazione del servizio del subordinato quanto all’essenza, ai mezzi ed al fine (Sez. 1, n. 4194 del 27/01/1987, Freda, Rv. 175573 – 01; tale sentenza viene richiamata anche da Sez. 2, n. 51962 del 18/10/2017, non massimata).
Inoltre, a fronte della doglianza che richiama il Distress SAR del Centro di Roma delle 9.31 e la comunicazione dello stesso Centro delle 11.27, con i quali si segnalava prima la presenza di un gommone con 120 persone a bordo e, poi, che la competenza sarebbe stata dell’autorità libica, non consente di ritenere che l’imputato sia incorso in errore rilevante ai sensi dell’art. 59, comma 4, cod. pen. o, più correttamente, ai sensi dell’art. 51, comma 3, cod. pen. ritenendo di eseguire un ordine legittimo per errore.
A ben vedere il secondo messaggio conferma che l’imputato alle 14.30, quando venne avvistato il gommone, avrebbe dovuto rivolgersi non alla “piattaforma petrolifera” prendendo indicazioni dalla stessa, e poi all’ufficiale di dogana libico salito a bordo, bensì al Centro di coordinamento in T.
In vero, l’errore che integra la putatività deve essere scusabile, ma l’insieme delle circostanze esaminate evidenzia come Gi.St. non fece tutto ciò che era nella sua disponibilità, compreso un tempestivo contatto telefonico con l’autorità libica o, in subordine italiana, per evitarlo.
In sostanza l’operatività della predetta esimente putativa presuppone un errore incolpevole sulla verità dei fatti, che richiede, appunto diligenza del tutto mancante nel caso in esame.
In tal senso corretta risulta la valutazione della Corte di appello, che lamenta l’assenza di errore scusabile in quanto nessun accertamento sulla identità, e quindi sulla competenza, del presunto ufficiale libico fu operato, al fine di verificare la legittimità del suo ordine.
D’altro canto, il G.u.p. evidenzia come emerga dalle comunicazioni di posta elettronica che la persona sbarcata sulla nave Asse28 dalla piattaforma e “che prese in carico il “coordinamento” delle operazioni, fu indicato dal comandante Gi.St. come “costumer officer”, ovvero letteralmente “ufficiale di dogana”. Dalla imbarcazione Asso28 alle ore 15:24 risulta inviata mail, ovvero quando il funzionario libico era già presente a bordo della imbarcazione Asso28 (come scrive lo stesso Gi.St. nella mail delle ore 17:31, il “custom officer” sarebbe salito a bordo alle 15.15), con il seguente oggetto “SAR OPS 4/7/2018”. Nel corso dell’interrogatorio veniva chiesto al Gi.St. come mai questa mail delle 15:24, contenente l’informazione circa l’avvistamento del gommone di migranti, fosse stata inviata a tutta una serie di destinatari privati (in primis alla Mellitah Oil and Gas), ma non al Centro di coordinamento e soccorso di Tripoli e/o a quello di R: l’imputato rispondeva che la comunicazione non era stata inviata perché “non era ancora chiaro che fosse un evento SAR”, ma in realtà l’oggetto della mail da lui scritta era proprio evento SAR OPS 4/7/2018» (così la sentenza di primo grado).
Né decisive appaiono le ratifiche a posteriori, richiamate in ricorso, da parte della Ambasciata Italiana a Malta, che non rilevava profili meritevoli di indagine, in quanto la valutazione era fondata sulla comunicazione del comandante Gi.St. del 13 agosto 2018, e non sulla conoscenza effettiva dei fatti; anche la richiamata nota del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto replicava la comunicazione del comandante delle 17.22 del 30 luglio 2018, che indicava come le operazioni fossero coordinate dall’ufficiale libico a bordo, cosicché ripeteva la versione resa dall’imputato, che già si è vista essere stata smentita dalle conversazioni intercettate.
Infine, le dichiarazioni di Ta.@ vengono riportate solo parzialmente in ricorso, mentre l’atto istruttorio, in ali. 6 all’impugnazione, dimostra come vi fu con elevata probabilità confusione fra due interventi di salvataggio, tanto che quello che Ta.@ attribuiva a Asso28 doveva essere stato svolto da una motovedetta libica che non intervenne, a riprova dell’assenza di coordinamento da parte del Centro libico quanto all’intervento di Asso28.
Né, infine, la dichiarazione di Barbato e l’allegazione del modello che identificava tal Ah.Ha. quale ufficiale, senza l’indicazione di un documento di identità idoneo a comprovare la prospettata qualità (ali. 7 al ricorso), consente di superare l’argomentare dei giudici di merito sul punto.
Pertanto, il secondo motivo risulta infondato.
8. Quanto al terzo motivo, anche la censura è infondata.
A ben vedere non vi è dubbio che la prima sentenza abbia escluso il dolo intenzionale e l’ingiusto vantaggio, richiesti dall’art. 323 cod. pen., in quanto l’incremento patrimoniale risultava ottenuto come obiettivo mediato, avendo comunque Asso28 caricato merce a Tripoli dopo il salvataggio.
Chiarito il senso della prima pronuncia, la Corte di appello riferisce non di un ingiusto vantaggio patrimoniale, bensì di un interesse e di vantaggi della nave e della società Eni coincidenti con gli ordini dati dal presunto ufficiale libico, quindi privi del requisito della ingiustizia in sé, in modo rispondente a quel concetto di vantaggio mediato indicato dal G.u.p., sostanziatosi nella circostanza che la nave Asso28, comunque, provvide a effettuare un carico e a trattenersi nel porto di T fino a giorno seguente. Si tratta di un indice significativo da ricondurre ai ‘sintomi’ del dolo eventuale, come già evidenziato, a riprova della corretta rilevanza attribuita dalla Corte di appello all’interesse mediato.
D’altro canto, anche a voler intendere l’argomentazione della Corte di appello come una sorta di ‘recupero’ dell’ingiusto vantaggio, come il ricorrente ritiene, la censura appare tutt’altro che decisiva e disarticolante, riflettendosi nella sostanza sul movente delle condotte del Gi.St. che, a fronte del dolo generico richiesto, in assenza della necessità di una finalità specifica, costituisce l’antecedente psichico della condotta, non decisivo a comprovare la coscienza e volontà dell’agire.
Il motivo è, pertanto, manifestamente infondato.
9. In ordine al quarto motivo di ricorso, rappresenta questa Corte come nel giudizio abbreviato d’appello, siccome l’unica attività d’integrazione probatoria consentita è quella esercitabile officiosamente, non è configurabile un vero e proprio diritto alla prova di una delle parti cui corrisponda uno speculare diritto della controparte alla prova contraria, con la conseguenza che il mancato esercizio da parte del giudice d’appello dei poteri officiosi di integrazione probatoria, non può mai integrare, il vizio di cui all’art. 606, comma primo, lett. d) c.p.p.
Nel giudizio abbreviato d’appello le parti sono titolari di una mera facoltà di sollecitazione del potere di integrazione istruttoria, esercitabile dal giudice “ex officio” nei limiti della assoluta necessità ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., atteso che in sede di appello non può riconoscersi alle parti la titolarità di un diritto alla raccolta della prova in termini diversi e più ampi rispetto a quelli che incidono su tale facoltà nel giudizio di primo grado (Sez. 2 – , Sentenza n. 5629 del 30/11/2021, dep. 2022, Granato, Rv. 282585 – 01; Sez. 1, n. 37588 del 18 giugno 2014, Amaniera, Rv. 260840). Né, in tal senso, è configurabile un obbligo per il giudice di motivare il diniego della richiesta di attivazione dei suddetti poteri, obbligo invece sussistente qualora gli stessi poteri vengano esercitati (ex multis Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011, Sermone e altri, Rv. 249161).
Tanto premesso, va evidenziato come la dichiarazione resa dal presunto ufficiale libico in ali. 7 al ricorso veniva ritenuta non adeguata dal G.u.p., con motivazione non manifestamente illogica, perché tardivamente redatta.
Ad ogni buon conto, non risulta che in appello l’imputato abbia sollecitato i poteri istruttori officiosi e, pertanto, l’omessa rinnovazione non andava motivata, in quanto alcuna richiesta a riguardo risultava pervenuta con l’atto di appello o in udienza.
Cosicché, la censura assume anche carattere inedito, in quanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, “deve ritenersi sistematicamente non consentita (non soltanto per le violazioni di legge, per le quali espressamente art. 606, comma 3, c.p.p.) la proponibilità per la prima volta in sede di legittimità, con riferimento ad un capo e ad un punto della decisione già oggetto di appello, di uno dei possibili vizi della motivazione con riferimento ad elementi fattuali richiamabili, ma non richiamati, nell’atto di appello: solo in tal modo è, infatti, possibile porre rimedio al rischio concreto che il giudice di legittimità possa disporre un annullamento del provvedimento impugnato in relazione ad un punto della decisione in ipotesi inficiato dalla mancata, contraddittoria, manifestamente illogica considerazione di elementi idonei a fondare il dedotto vizio di motivazione, ma intenzionalmente sottratti alla cognizione del giudice di appello. Ricorrendo tale situazione, invero, da un lato il giudice della legittimità sarebbe indebitamente chiamato ad operare valutazioni di natura fattuale funzionalmente devolute alla competenza del giudice d’appello, dall’altro, sarebbe facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della sentenza d’appello con riguardo al punto della decisione oggetto di appello, in riferimento ad elementi fattuali che in quella sede non avevano costituito oggetto della richiesta di verifica giurisdizionale rivolta alla Corte di appello, ma siano stati richiamati solo ex post a fondamento del ricorso per cassazione” (così Sez. 2, n. 32780 del 13/07/2021 , De Matteis, Rv. 281813; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 276062, in motivazione; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, Martorana, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 2 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, Li Vigni, Rv. 269368).
D’altro canto, comunque, il documento esibito in allegato 8 al ricorso, ove Ah.Ha. riferiva di essersi coordinato con il Centro di T, risultava smentito dalle conversazioni intercettate, delle quali si è dato atto, in quanto il Centro era all’oscuro, nel pomeriggio del giorno 30 luglio 2018, dell’intervento di Asso28 e della direzione verso il porto di Tripoli del natante: in sostanza, la versione autocertificata risultava già smentita dalle altre emergenze in atti.
Il motivo è non consentito e comunque manifestamente infondato.
10. Quanto al motivo che lamenta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il ricorso non si confronta con l’intera motivazione della Corte territoriale, che non richiama solo l’omessa confessione, ma anche l’allarme sociale delle condotte, oltre alla insufficienza dello stato di incensuratezza per concedere l’attenuazione.
A tal riguardo deve rilevarsi come corretto sia il ragionamento della Corte di appello, in sintonia con i principi per cui, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in considerazione di altrimenti non codificabili situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del suo autore. In tal senso la necessità di tale adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, avendo il giudice l’obbligo, quando ne affermi la sussistenza, di fornire apposita e specifica motivazione idonea a fare emergere gli elementi atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (ex multis e da ultime Sez. 3, n. 19639 del 27 gennaio 2012, Gallo e altri, Rv. 252900; Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013 – dep. 15/02/2013, P.G. in proc. La Selva, Rv. 254716). Ed è in questa cornice che devono essere inseriti gli ulteriori principi per cui la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, anche quindi limitandosi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio (Sez. 6 n. 41365 del 28 ottobre 2010, Straface, rv 248737; Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011, Sermone e altri, Rv. 249163).
Nel caso in esame sono stati valutati gli elementi ritenuti ostativi alla concessione del beneficio in modo congruo. Né tanto meno può, con l’argomentare del ricorrente, ritenersi che le circostanze attenuanti generiche debbano essere conseguenti alla scelta politica governativa di consentire la zona SAR in Libia: non solo perché, come rileva il G.u.p., la zona SAR libica era solo formalmente vigente e conseguiva a un atto unilaterale, ma anche perché con adeguata vigilanza e accorta esecuzione dei doveri — normativamente prescritti dalla disciplina sovranazionale, eurounitaria e nazionale — propri della posizione di garanzia, Gi.St. avrebbe potuto evitare la responsabilità penale per respingimento collettivo e l’abbandono dei profughi, anche operando un riscontro a posteriori sulle condizioni di ricovero dei naufraghi, una volta sbarcati.
11. Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente.
12. Al rigetto consegue, anche la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Associazione studi giuridici per l’immigrazione, che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
13. D’ufficio va disposto l’oscuramento dei dati personali, attesa la necessità prevista dall’art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003 di predisporre tale misura a tutela dei diritti e della dignità degli interessati, vertendosi in tema di minori.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso […]”.
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