La questione salariale in Italia, a confronto con altri Paesi dell'UE
La questione salariale in Italia, a confronto con alcune grandi economie europee.
di Efisia Trimboli
Sul finire del 2020 la Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori (CGIL) ha pubblicato un Rapporto sulla questione salariale in Italia, mettendo a confronto le retribuzioni dei lavoratori dipendenti italiani con quelli attivi in alcuni grandi contesti economici dell’Eurozona, come la Germania, la Francia, la Spagna, il Belgio e i Paesi Bassi.
Nel 2019, secondo le statistiche OCSE, la retribuzione media italiana è stata pari a circa 30 mila euro lordi annui, in lieve crescita rispetto al 2018, ma in diminuzione rispetto al 2007. Il divario rispetto agli altri Paesi non solo è molto ampio, ma si è andato allargando tra il 2007 e il 2019, sia in cifra totale che come dinamica. Le retribuzioni annue dei lavoratori tedeschi sono infatti cresciute in modo consistente negli anni più recenti (pari a 42.421 euro nel 2019), così come in Francia (39.099 euro) e negli altri Paesi qui presi in esame. Simili a quelle italiane sono invece le retribuzioni dei lavoratori spagnoli.
Questo divario non si riduce nelle retribuzioni nette relative ad alcune tipologie familiari considerate dall’OCSE. La pressione fiscale sui salari, e il cuneo fiscale sul costo del lavoro non producono alcun riequilibrio per l’Italia. Questa differenza negativa per i salari dei lavoratori italiani non è attribuibile all’orario di lavoro (come affermano superficialmente alcuni) che risulta invece fra i più alti fra i sistemi presi qui in esame.
La differenza è invece individuabile in altri fattori, come i seguenti: a) nella composizione del mercato del lavoro italiano, con un addensamento dell’occupazione nelle qualifiche medio-basse che risulta più elevato rispetto alla media dell’Eurozona, e in progressivo peggioramento negli ultimi anni; b) nella diffusione di rapporti di lavoro precari: è aumentato il numero di contratti a tempo determinato, con discontinuità di prestazione e l’utilizzo del part time involontario che in Italia, a parità di lavoro prestato, soffre di un differenziale retributivo maggiore rispetto alla media dell’Eurozona (retribuzioni pari al 70,1% in Italia; all’83,6% nell’Eurozona):ciò spiega abbondantemente come la scelta del lavoro a tempo parziale non sia frutto di una libera scelta del lavoratore, anzi più spesso della lavoratrice; c) nella bassa retribuzione dei lavoratori precari: nel 2018, con riferimento ai rapporti di lavoro a tempo determinato, e a tempo parziale, con discontinuità, che riguardano circa 1 milione e 700mila lavoratori, la retribuzione effettiva è stata di 5.641 euro, Cinque milioni di lavoratori arrivano a percepire soltanto 10mila euro annui, o poco più. Anche i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (sulle dichiarazioni dei redditi del 2018) confermano questa tendenza, rilevando come 15,6 milioni di persone (il 79,7% del totale della forza lavoro) abbiano dichiarato meno di 29mila euro da reddito da lavoro dipendente e da altre fonti, cioè meno del salario lordo medio annuale.
Questo insieme di elementi spiega come il divario negativo italiano su sviluppo e produttività non sia riconducibile né alla (bassa) quantità di ore lavorate né al costo salariale.
Il problema risiede piuttosto in scelte politiche e aziendali che per anni hanno inteso recuperare competitività di costo attraverso la moderazione salariale, in tal modo producendo bassa crescita, ristagno della base produttiva e dell’occupazione. Queste politiche hanno disincentivato investimenti, determinato scarsa innovazione e inciso negativamente sulla domanda aggregata tramite minori consumi. Nei fatti, la scarsa crescita delle retribuzioni di questi anni è stata uno degli effetti ma anche una causa della stagnazione economica italiana.
Nel 2020 la pandemia e le conseguenti ricadute produttive ed occupazionali peggioreranno molto probabilmente il quadro qui sommariamente descritto. Molto probabilmente peggioreranno i dati relativi all’occupazione, così come quelli delle retribuzioni medie, finora in parte contenuti attraverso provvedimenti di tutela dell’occupazione e del salario, adottati nel corso dl 2020, come il blocco dei licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali.
Un riequilibrio dei salari italiani è dunque necessario, non solo come risposta concreta ai problemi delle persone ma come elemento essenziale della competitività futura dell’Italia. Esso può essere affrontato in più modi: a) con un intervento sulla quantità ma anche sulla qualità dell’occupazione, capace di arrestare la continua crescita del fenomeno del “lavoro povero”, e dei lavoratori poveri; b) una nuova fase della contrattazione che rinnovi CCNL da troppo tempo bloccati; c) una riforma fiscale che recuperi risorse a favore delle retribuzioni.
Secondo le ricerche summenzionate, se si vuole riporre fiducia nel futuro, bisognerà agire sui citati elementi essenziali dello sviluppo, collegandoli ad un migliore utilizzo degli investimenti attivati mediante i fondi europei, alla trasformazione del modello produttivo e alle risorse necessarie a far ripartire i consumi.
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