(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo., G. Dobici)
Corte costituzionale (sentenza n. 7/2024, del 22 gennaio 2024): non è illegittima la disciplina dei licenziamenti collettivi posta dal cosiddetto Jobs Act.
jLa Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il quale, in attuazione della legge di delega n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio.
Norme impugnate: Art. 10, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, c. 1°, del decreto legislativo 04/03/2015, n. 23, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 3, c. 1°, del decreto-legge 12/07/2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella legge 09/08/2018, n. 96.
1.La Corte d’appello di Napoli aveva censurato, in particolare, la disciplina dei licenziamenti collettivi quanto alle conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero. Si è prevista una tutela indennitaria, compensativa del danno subito dal lavoratore, ma non più la tutela reintegratoria nel posto di lavoro, in simmetria con l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La legge di delega aveva, infatti, escluso, per i “licenziamenti economici” di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, e aveva previsto un indennizzo economico, limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
2.La Corte, considerando anche i lavori parlamentari e la finalità complessiva perseguita dal Jobs Act, ha ritenuto che il riferimento contenuto nella legge di delega ai “licenziamenti economici” riguardasse sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi. Ha quindi escluso che, sotto questo profilo, ci sia stata – come assumeva la Corte d’appello – la violazione dei criteri direttivi della legge di delega.
Inoltre la Corte ha ritenuto non fondata anche la censura di violazione del principio di eguaglianza, comparando i lavoratori “anziani” (quelli assunti fino al 7 marzo 2015), che conservano la più favorevole disciplina precedente e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori “giovani” (quelli assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova disciplina del Jobs Act. Il riferimento temporale alla data di assunzione consente di differenziare le situazioni: la nuova disciplina dei licenziamenti è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i “giovani” lavoratori. Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio.
Infine la Corte ha ritenuto non inadeguata la tutela indennitaria. Attualmente al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri indicati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
La Corte ha anche ulteriormente segnalato al legislatore che «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie».
3. Di seguito pubblichiamo passi della sentenza n. 7/2024.
“LA CORTE COSTITUZIONALE
[…]
ha pronunciato la seguente SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, promosso dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro
[…]
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del 2023), la Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), in riferimento agli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in relazione all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 (d’ora in poi: CSE).
1.1.– Le questioni sono sollevate nel corso del giudizio di impugnazione di un licenziamento, intimato in data 1° luglio 2016, ad una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per «riduzione del personale» avviata ai sensi degli artt. 4 e 24, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), censurato per violazione della procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta.
1.2.– La Corte rimettente premette di aver già proposto, in riferimento alle medesime questioni, un rinvio pregiudiziale su cui la Corte di giustizia dell’Unione europea, con ordinanza del 4 giugno 2020, in causa C-32/20, TJ contro B. srl, si è dichiarata manifestamente incompetente per l’estraneità della controversia del procedimento principale, relativa alle conseguenze dell’atto di recesso, agli obblighi imposti dalla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi; nonché, nel medesimo giudizio, questioni di legittimità costituzionale, per profili in parte uguali e in parte connessi, dichiarate da questa Corte inammissibili (sentenza n. 254 del 2020) per una insufficiente individuazione dei vizi del licenziamento collettivo e per l’incertezza sul tipo di intervento richiesto.
1.3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo evidenzia di aver dichiarato con sentenza parziale l’illegittimità dell’impugnato licenziamento per violazione dei criteri di scelta, e di aver disposto la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’individuazione delle conseguenze sanzionatorie; osserva, quindi, che ad un licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato nel 2016 nei confronti di una lavoratrice assunta dopo il 7 marzo 2015, trova applicazione il regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, richiamato dall’art. 10 del medesimo decreto, nella versione antecedente la novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, ai sensi del quale il giudice dichiara l’estinzione del rapporto e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale «in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».
1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente formula tre articolate censure.
1.4.1.– In primo luogo, la Corte dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, con riferimento agli artt. 3, 10, 35, 76 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui avrebbe modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, pur in assenza di una specifica delega e, comunque, in contrasto con l’art. 24 CSE, in violazione dei principi e dei criteri direttivi della legge delega.
Con riferimento al profilo interno, la modifica del regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi sarebbe un intervento eccedente l’ambito della delega testuale di cui all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, che, demandando al Governo di adottare una disciplina che preveda tutele crescenti con l’anzianità che escluda «per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore», non consentirebbe di ritenere ricompresa nella devoluzione della potestà normativa anche la rimodulazione della disciplina sanzionatoria del licenziamento collettivo, in quanto corpo normativo unitario e completo, autonomamente disciplinato.
Nello stesso senso deporrebbero sia l’analisi dei lavori parlamentari (Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati, XI, seduta del 17 febbraio 2015; Commissione Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato della Repubblica, 11ª, seduta dell’11 febbraio 2015), sia la considerazione che una tale significativa modifica avrebbe imposto una scelta lessicale inequivoca ed esplicita.
Quanto al profilo sovranazionale, la potestà normativa delegata non sarebbe stata esercitata in coerenza con le convenzioni internazionali, come richiesto dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, ed in particolare in relazione all’art. 24 CSE, la cui violazione ad opera del d.lgs. n. 23 del 2015 – nella parte in cui, prevedendo come sanzione per un licenziamento illegittimo un indennizzo forfettizzato ex ante in un plafond rigido, non consentirebbe una personalizzazione del danno subito a causa della perdita del posto di lavoro – risulterebbe già accertata dal Comitato europeo dei diritti sociali nella decisione dell’11 settembre 2019, pubblicata l’11 febbraio 2020, di accoglimento del reclamo collettivo proposto dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) n. 158 del 2017, seguita dalla risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dell’11 marzo 2020, che ha invitato l’Italia a riferire sulle eventuali misure adottate per rendere la misura in esame conforme alla Carta.
1.4.2.– In secondo luogo, il giudice a quo ritiene non manifestamente infondato il contrasto dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in combinato disposto con l’art. 10 dello stesso decreto, con gli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., nella parte in cui, per la stessa violazione dei criteri di scelta, nella medesima procedura di licenziamento collettivo e per rapporti di lavoro omogenei, disporrebbe, irragionevolmente, una sanzione priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015.
La Corte rimettente osserva che nella procedura di licenziamento collettivo su cui è chiamata a giudicare coesistono rapporti di lavoro che, pur assoggettati alla medesima e simultanea analisi comparativa da estendersi all’intero complesso aziendale, sono caratterizzati da regimi sanzionatori disomogenei, in quanto una identica violazione dei criteri di scelta viene riparata con la reintegra del rapporto di lavoro e previdenziale per i lavoratori assunti a tempo indeterminato fino al 7 marzo 2015, ed esclusivamente con un indennizzo forfettario, basato su una nozione di retribuzione, non onnicomprensiva ed inadeguata ad assicurare il ristoro effettivo del danno subito anche sotto il profilo previdenziale, per i lavoratori assunti successivamente.
In presenza di una identica violazione che determina l’illegittima perdita del posto di lavoro, un trattamento differenziato, che in una prospettiva individuale può ritenersi giustificato in ragione del “fluire del tempo”, darebbe luogo invece ad una irragionevole disparità di tutela all’interno di una procedura collettiva, divenendo un fattore disarmonico e penalizzante nella comparazione, e persino di condizionamento, rispetto all’esigenza di imparzialità che connota la scelta; la ragione giustificatrice dello «scopo» perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014), perderebbe significato in una procedura di esubero, nella quale l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve basarsi esclusivamente su una puntuale applicazione di omogenei ed oggettivi criteri di scelta, poiché l’affievolimento radicale della sanzione amplificherebbe per tali lavoratori il “rischio” di perdere il lavoro, con un sacrificio irragionevole che si estende anche alla posizione previdenziale.
Nella procedura comparativa di cui agli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991 – conclude sul punto il giudice a quo – il combinato disposto delle norme censurate penalizzerebbe in modo ingiustificato i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, con la previsione di un regime di garanzia del posto di lavoro che si porrebbe in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
1.4.3. – Con la terza questione il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale delle norme censurate in combinato disposto, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117 Cost. laddove, in forma irragionevole, in presenza di una violazione di parametri selettivi oggettivi e solidaristici, derogherebbero ad un sistema sanzionatorio efficace e adeguato determinando, con il sistema forfettizzato di danno, un affievolimento del ristoro del pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione efficace ed effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta.
La deroga introdotta dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 con il richiamo all’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, rispetto all’oggettiva efficacia dissuasiva della sanzione in precedenza vigente per la identica violazione, imporrebbe l’applicazione di un sistema indennitario inadeguato a ristorare il danno che deriva dalla perdita del rapporto di lavoro, dando luogo ad una deresponsabilizzazione dell’iniziativa privata rispetto agli effetti di un atto illegittimo e all’impossibilità di personalizzare il pregiudizio subito dal lavoratore illegittimamente licenziato e quindi la sua tutela.
1.5.– Il giudice a quo si sofferma, infine, sul tipo di intervento richiesto ed invoca in primis una pronuncia caducatoria dell’intero art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 o, quantomeno, dell’inciso «o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991», che determinerebbe una riespansione del regime previgente uniforme per tutti i lavoratori coinvolti.
In alternativa, laddove le censure dell’art. 10 citato fossero ritenute non fondate, propone l’adozione di un provvedimento interpretativo di accoglimento di tipo caducatorio dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, quanto all’inciso «e non superiore a ventiquattro» (oggi trentasei), volto ad eliminare il “tetto” della misura indennitaria forfettaria, che renderebbe la sanzione priva di efficacia deterrente, limitatamente al caso di illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991.
2.– Con atto depositato il 15 giugno 2023 si è costituita in giudizio C. R., ricorrente nel giudizio a quo, e ha sostenuto la rilevanza e la fondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale riportandosi alle considerazioni formulate dal giudice rimettente, ed in particolare alle censure di mancato rispetto dei limiti alla delega normativa posti dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, di violazione dei parametri ad opera dei diversificati regimi di tutela nonché di irragionevolezza del sistema sanzionatorio in concreto applicabile; a giudizio della parte, l’intervento di tipo caducatorio richiesto sarebbe coerente con le indicazioni e i moniti ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte, espressi in particolare con le sentenze n. 183 del 2022 e n. 194 del 2018, nonché con il dettato dell’art. 24 CSE.
2.1.– In prossimità dell’udienza la parte ha depositato una memoria in cui, dopo aver insistito sulle censure di mancato rispetto della potestà normativa devoluta, si è soffermata sulla violazione del diritto di eguaglianza e del principio di ragionevolezza, evidenziando che nell’ambito dei licenziamenti collettivi l’esigenza di evitare trattamenti discriminatori tra i lavoratori, che conseguirebbero a differenze di disciplina, emergerebbe come dato prioritario in grado di attenuare, sino ad annullare, l’esigenza di far prevalere la neutralità dello scorrere del tempo rispetto all’applicazione della legge.
Alla luce di tali rilievi la parte auspica la caducazione dell’inciso contenuto nell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 («o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991») ed il ripristino del meccanismo sanzionatorio introdotto con la cosiddetta “legge Fornero” per tutti i lavoratori destinatari di un licenziamento collettivo.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio.
4.– All’udienza del 5 dicembre 2023, la parte ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
1.– Con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del 2023), la Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi due in relazione all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e all’art. 24 CSE.
1.1.– Le questioni sono sorte nell’ambito di un giudizio di appello avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento collettivo intimato ad una lavoratrice assunta e licenziata dopo il 7 marzo 2015, data dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991.
A giudizio della Corte rimettente, la sanzione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, richiamato dall’art. 10 del medesimo decreto, nella versione antecedente le modifiche di cui al d.l. n. 87 del 2018, come convertito, risulterebbe manifestamente disomogenea sia rispetto a quella ripristinatoria applicabile per il medesimo tipo di invalidità del recesso ai rapporti di lavoro costituiti ante 7 marzo 2015, sia rispetto a quella applicabile ai rapporti costituiti dopo il 7 marzo 2015, ma risolti dopo la novella del 2018, che ha aumentato l’indennizzo, nel minimo da quattro a sei e nel massimo da ventiquattro a trentasei mensilità.
1.2.– Con riferimento agli artt. 3, 10, 35, 76 e 117, primo comma, Cost., la rimettente deduce che l’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, nella parte in cui ha modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, violerebbe la legge delega sotto due profili, uno interno e uno sovranazionale.
Quanto al primo profilo, perché l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, demandando al Governo l’adozione di una disciplina che escludesse la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro solo «per i licenziamenti economici», termine riferibile alle sole forme di recesso individuale per motivo oggettivo, non consentiva di ricomprendere nella potestà normativa delegata anche la rimodulazione della disciplina sanzionatoria del licenziamento collettivo.
Quanto al secondo profilo, perché, in difformità dai principi e dai criteri direttivi che all’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 richiedevano un esercizio della delega coerente con le convenzioni internazionali, la disciplina censurata si è posta in contrasto con l’art. 24 CSE prevedendo come sanzione un indennizzo, forfettizzato ex ante in un plafond rigido, che non consente una personalizzazione del danno subito a causa della perdita del posto di lavoro (contrasto già ritenuto dal Comitato europeo dei diritti sociali nella decisione dell’11 settembre 2019, pubblicata l’11 febbraio 2020).
1.3.– Con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., il giudice a quo censura l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in combinato disposto con l’art. 10 dello stesso decreto, nella parte in cui, per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, introduce una disciplina sanzionatoria diversa per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, perché disporrebbe, irragionevolmente, per una identica violazione, avvenuta contestualmente nella medesima procedura e per rapporti di lavoro omogenei, una sanzione priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno subito a seguito della illegittima perdita del posto di lavoro.
1.4.– Con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE, la Corte rimettente prospetta l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, nella parte in cui, in riferimento alla violazione dei criteri di scelta del lavoratore in esubero in una procedura di licenziamento collettivo, deroga ad una sanzione efficace e adeguata introducendo, in forma irragionevole, in presenza di una violazione di parametri selettivi oggettivi e solidaristici, un sistema forfettizzato di danno inefficace. Ciò determina un affievolimento del ristoro del pregiudizio causato e non consente una idonea responsabilizzazione del soggetto inadempiente attraverso una personalizzazione del danno cagionato.
2.– In via preliminare, va rilevata d’ufficio l’inammissibilità delle censure di illegittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 10, 24 e 111 Cost., in quanto del tutto prive di motivazione.
La Corte rimettente si è limitata ad evocare i suddetti parametri senza alcuna specifica ed adeguata illustrazione dei motivi di censura in punto di non manifesta infondatezza, né l’ordinanza fornisce elementi che consentano di valutare il dedotto contrasto delle disposizioni censurate con tali parametri genericamente evocati (sull’inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, ex plurimis, sentenze n. 194 del 2023, n. 118 del 2022, n. 213 e n. 178 del 2021, n. 126 del 2018).
3.– L’ordinanza di rimessione non presenta ulteriori profili di inammissibilità.
3.1.– Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e alla situazione personale della ricorrente risultano sufficienti a dimostrare l’applicabilità ratione temporis delle disposizioni censurate (ex plurimis, sentenze n. 152 del 2021, n. 59 del 2021 e n. 218 del 2020). La Corte rimettente ha dato atto di aver accertato con sentenza parziale la violazione dei criteri di scelta nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo e, con questo, giustificato l’applicazione del regime sanzionatorio indennitario introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, stante il richiamo dell’art. 10 da parte dell’art. 3 dello stesso decreto, così superando le ragioni di inammissibilità di analoghe questioni poste con una precedente ordinanza di rimessione dalla stessa Corte d’appello (sentenza n. 254 del 2020). Infatti, in generale, il giudice a quo è abilitato a sollevare una seconda volta la medesima questione nello stesso giudizio quando questa Corte abbia emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi rimovibili dal rimettente (ex plurimis,sentenza n. 247 del 2022).
3.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, l’ordinanza di rimessione ha sufficientemente motivato i dubbi di legittimità costituzionale con argomentazioni che hanno una complessiva coerenza e unitarietà.
Tutte le censure di illegittimità costituzionale sono, in realtà, focalizzate sul regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato a lavoratori assunti dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015), che ha soppresso la reintegrazione come conseguenza dell’illegittimità di tale fattispecie di licenziamento.
L’eliminazione della tutela reintegratoria nel posto di lavoro – la quale, invece, permane ancora per i lavoratori assunti prima di tale data, ove destinatari dello stesso licenziamento collettivo illegittimo – e la limitazione delle conseguenze del recesso datoriale alla sola compensazione monetaria costituiscono il tratto comune delle censure mosse dalla Corte d’appello, dirette tutte a reintrodurre la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato anche nella fattispecie oggetto del giudizio principale.
Avendo di mira questo obiettivo unitario, la Corte d’appello – come già ricordato – censura, con riferimento agli indicati parametri,l’eliminazione della reintegrazione: a) perché prevista dal legislatore delegato senza che essa sia riconducibile alla legge di delega e quindi con eccesso di delega sotto un profilo interno (infra, punti da 6 a 11) ed uno sovranazionale (infra, punti da 12 a 14); b)perché determina una disciplina ingiustificatamente e irragionevolmente differenziata, in riferimento allo stesso licenziamento collettivo, tra lavoratori “giovani” (con anzianità a partire dal 7 marzo 2015) e quelli “anziani” (assunti prima della data suddetta), i quali ultimi conservano, invece, la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta (infra, punti da 15 a 17); c) infine perché, comunque, il solo indennizzo (con importo non superiore a un tetto massimo), senza la reintegrazione, non costituisce in sé una sanzione adeguata e sufficientemente dissuasiva dei licenziamenti illegittimi (infra, punti da 18 a 19).
4.– Con riferimento a questo specifico nucleo unitario delle censure (id est:tutelareintegratoria versus tutelaindennitaria) va richiamato – prima di passare all’esame del merito delle questioni – il quadro normativo di riferimento, in termini comunque essenziali.
4.1.– Può ricordarsi, innanzi tutto, che la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, misura di tutela fortemente innovativa, fu introdotta – condizionatamente alla ricorrenza di un livello occupazionale minimo del datore di lavoro – dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»). Tale misura costituiva, all’epoca, un completamento della disciplina (legge 15 luglio 1966, n. 604, recante «Norme sui licenziamenti individuali»), introdotta pochi anni prima, dei licenziamenti individuali illegittimi perché ingiustificati (senza giusta causa o giustificato motivo: artt. 1 e 3) o perché discriminatori (art. 4); legge che, per espressa previsione, non trovava applicazione alla «materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale» (art. 11, secondo comma).
L’ambito applicativo della reintegrazione (la cosiddetta tutela reale del lavoratore) è risultato, in seguito, ampliato sia ad opera della giurisprudenza, che ne ha predicato la “forza espansiva”, sia da una prima riforma legislativa dell’art. 18 statuto lavoratori (art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, recante «Disciplina dei licenziamenti individuali»), approvata sotto la spinta di una richiesta di referendum abrogativo, ammessa da questa Corte (sentenza n. 65 del 1990).
La reintegrazione ha, poi, avuto un’ulteriore espansione, quanto alla sua area di applicazione, perché è stata prevista anche nel caso di licenziamento collettivo illegittimo dall’art 24 della legge n. 223 del 1991, in attuazione della direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
Progressivamente, però, in epoca più recente, l’ampiezza applicativa della reintegrazione, che pareva una conquista irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi, è stata messa in discussione e sull’art. 18 statuto lavoratori, divenuto argomento divisivo e controverso anche nel dibattito tra le forze politiche e sociali, si sono appuntate per un verso pressioni riformatrici in favore di una maggiore flessibilità in uscita dal posto di lavoro, coniugate a politiche attive di sostegno, per l’altro resistenze, soprattutto nel mondo sindacale, per conservare la tutela reintegratoria.
4.2.– Si perviene così al punto di svolta rappresentato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), adottata nel contesto di un complessivo disegno riformatore della materia del lavoro.
L’art. 18 statuto lavoratori viene ulteriormente novellato e, soprattutto, “frantumato” in plurimi regimi di tutela nei confronti del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che fino ad allora era stata l’unicità della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi.
Al di là delle specificità dei singoli regimi reintegratori e indennitari, va rilevato che la logica di fondo di questa importante riforma è che non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali. Fermo restando il tradizionale limite occupazionale, il legislatore del 2012 ha ritenuto di riservare la tutela della reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimità è conseguenza di una violazione, in senso lato, “più grave”, prevedendo per gli altri una compensazione indennitaria.
Si introduce, quindi, un inedito criterio di graduazione e di differenziazione che modifica radicalmente la logica precedente della reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento illegittimo nelle realtà occupazionali non piccole.
Vi sono licenziamenti illegittimi che si è ritenuto di continuare a sanzionare con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in termini sostanzialmente analoghi a quelli della (unica) reintegrazione del regime precedente. Ve ne sono altri che pure danno luogo alla reintegrazione, ma con una tutela complessivamente attenuata. Vi sono poi, in altri casi ancora, i regimi indennitari, ossia ipotesi di tutele solo compensative senza reintegrazione nel posto di lavoro.
La matrice compromissoria della legge, tra le istanze di nuove flessibilità e le resistenze al ridimensionamento della tutela reale, si rinviene nella demarcazione del perimetro dei differenti regimi di tutela (reintegratoria ed indennitaria) secondo una linea tracciata in termini non del tutto precisi, forieri di contenzioso ordinario, oltre che di censure di illegittimità costituzionale.
E ciò è vero soprattutto per il licenziamento individuale “economico”, ossia quello per giustificato motivo oggettivo. La reintegrazione viene riservata ai licenziamenti la cui illegittimità è “più grave” e tali sono quelli in cui il giustificato motivo oggettivo, allegato dal datore di lavoro, è addirittura “insussistente”. Ma si aggiunge, poi, che l’insussistenza deve essere «manifesta» e inoltre si prevede per il giudice un ulteriore spazio di valutazione perché egli «[p]uò altresì applicare» – e non già «applica altresì» – la reintegrazione.
L’una e l’altra limitazione, però, sono state oggetto di due pronunce di illegittimità costituzionale – sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022 – con l’effetto che la linea di demarcazione tra l’area della tutela reintegratoria e quella della tutela solo compensativa risulta tracciata, ora, in termini più netti, dipendendo tout court dall’inesistenza, o no, del giustificato motivo oggettivo allegato dal datore di lavoro quale causale del recesso.
4.3.– In questo quadro di profonda riforma, anche la disciplina dei licenziamenti collettivi illegittimi è stata novellata dalla medesima legge n. 92 del 2012; la quale, in sintonia con il ridimensionamento della reintegrazione quanto ai licenziamenti individuali, ha parimenti operato una differenziazione altresì per i licenziamenti collettivi, escludendo la reintegrazione nel caso in cui la illegittimità consisteva nella violazione delle regole del procedimento (di derivazione europea), ma conservandola nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, legali o previsti da accordi sindacali: violazione ritenuta evidentemente “più grave”.
Questo è, per grandi linee, l’assetto voluto dalla legge n. 92 del 2012 quanto alla tutela reintegratoria del lavoratore illegittimamente licenziato, che quindi risulta sensibilmente ridimensionata a favore della tutela indennitaria di tipo compensativo.
4.4.– Pochi anni dopo, in un contesto riformatore finanche più ampio che ha toccato plurimi aspetti della materia del lavoro (il cosiddetto Jobs Act: legge n. 183 del 2014), a questa disciplina, novellata nel 2012, si è affiancata – senza sostituirla – la regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – cosiddetto a tutele crescenti – che si sovrappone a quello ordinario precedente.
La tecnica legislativa è però diversa: non una legge ordinaria, ma una legge di delega per affidare al Governo l’emanazione di plurimi decreti legislativi.
In uno di questi (d.lgs. n. 23 del 2015), in particolare, si stabilisce un diverso regime di tutela, nel caso di licenziamento illegittimo, per i lavoratori assunti con questo nuovo tipo di contratto, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015).
Il contratto di lavoro a tutele crescenti e la relativa disciplina dei licenziamenti miravano ad incentivare l’occupazione, soprattutto giovanile, e la fuoriuscita dal precariato a mezzo della creazione di una fattispecie di lavoro subordinato a tempo indeterminato maggiormente “attrattiva” per i datori di lavoro in ragione sia della limitazione dell’area di applicazione della tutela reintegratoria, sia della calcolabilità dell’indennizzo compensativo del licenziamento illegittimo.
In particolare, quanto alla disciplina del licenziamento individuale, il d.lgs. n. 23 del 2015 replica, nelle linee generali, la suddivisione delle tutele già operata dalla legge n. 92 del 2012, ma ridefinendo il perimetro della tutela reintegratoria e di quella indennitaria, in particolare escludendo del tutto la reintegrazione nel caso di licenziamento individuale “economico”, ossia di quello per giustificato motivo oggettivo e di quello collettivo.
4.5.– Senza entrare nel dettaglio di questa disciplina, vi è in particolare che la tutela reintegratoria, oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale, viene ulteriormente ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo ed è del tutto eliminata in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Inoltre, il d.lgs. n. 23 del 2015 interviene anche sulla disciplina del licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, e sopprime la tutela reintegratoria prevedendo solo quella indennitaria anche nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti da accordo sindacale, salvo comunque conservarla in caso di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta.
Il successivo d. l. n. 87 del 2018, come convertito, si limita, quanto alla disciplina dei licenziamenti individuali, ad incrementare la misura dell’indennizzo (art. 3), con l’effetto di confermare, per il resto, il meccanismo delle cosiddette tutele crescenti in progressione lineare (e certa) con l’anzianità di servizio in caso di licenziamento illegittimo. Nulla dispone quanto ai licenziamenti collettivi.
4.6.– Il rapporto tra la tutela reintegratoria e quella solo indennitaria nel nuovo regime del d.lgs. n. 23 del 2015 risulta infine modificato a seguito delle pronunce di questa Corte, successive a quest’ultimo intervento del legislatore.
Per un verso, quanto alla tutela reintegratoria, rilevano le già richiamate sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022.
Con la prima, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevedeva che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «[p]uò altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.
Con la seconda, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione limitatamente alla parola «manifesta».
L’effetto congiunto delle due richiamate pronunce è quello dell’ampliamento dell’area della tutela reintegratoria nel regime della legge n. 92 del 2012: l’«insussistenza del fatto» è posta a presupposto della tutela reintegratoria del licenziamento illegittimo per mancanza di giustificato motivo sia soggettivo sia oggettivo.
Per altro verso, sulla tutela indennitaria hanno inciso le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.
Con la prima, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 – sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018, come convertito – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
Con la seconda pronuncia, è stata dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
La tutela indennitaria ne è risultata, nel complesso, ampliata, nella misura in cui l’indennizzo è ora fissato in una forbice tra un minimo e un massimo e non è più quantificato in modo rigido unicamente secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio.
5.– Quindi, in sintesi, si passa dal regime ampio ed uniforme della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino al 2012), ad uno differenziato secondo la “gravità”, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore restringimento dell’area della tutela reale e ampliamento di quella indennitaria, quest’ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito (e quindi a partire dal 12 agosto 2018).
È questa una disciplina composita, differenziata ratione temporis (rilevano le tre date suddette: 18 luglio 2012, 7 marzo 2015 e 12 agosto 2018) e declinata in diversi regimi di tutela, la cui complessa e complessiva articolazione segna la difficoltà di un processo riformatore in un ambito – quello dei licenziamenti individuali e collettivi – di elevato impatto sociale.
In proposito questa Corte ha già segnalato che «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie» (sentenza n. 183 del 2022).
6.– Tutto ciò premesso, va esaminata innanzi tutto la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate per violazione della delega, contenuta nell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, in relazione al fatto che quest’ultima aveva previsto l’eliminazione della tutela reintegratoria, con concentrazione nella sola tutela indennitaria, unicamente per i «licenziamenti economici», intendendo per tali – secondo la Corte rimettente – quelli individuali «economici» (ossia per giustificato motivo oggettivo) e non anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.
La questione – sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. – non è fondata.
7.– Questo è il criterio di delega, fissato dal citato art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014: «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
Le censure mosse dalla Corte rimettente, che convergono essenzialmente nella denuncia di eccesso di delega da parte del legislatore delegato, richiedono l’interpretazione del sintagma «licenziamenti economici» che presenta un’intrinseca ambiguità perché atecnico, nel senso che non appartiene al lessico giuridico in senso stretto.
7.1.– La, pur estesa, disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi non solo non conosce l’utilizzo del termine «licenziamenti economici», ma anche – e da epoca risalente, fin dalla richiamata prima legge sui licenziamenti individuali (n. 604 del 1966) – ha tenuto ben distinta la disciplina degli uni e degli altri, sì da far emergere la loro ontologica differenza in termini di definizione delle fattispecie e di disciplina positiva.
La legittimità del licenziamento individuale è condizionata dalla sua “giustificatezza” (ex artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966): il giudice, investito della impugnazione dell’atto di recesso, è chiamato a valutare ciò, in termini più o meno penetranti, rispettivamente quanto al giustificato motivo soggettivo (di norma, per “colpa” del lavoratore, ossia per «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro») e a quello oggettivo (per «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» con impossibilità di ricollocamento del lavoratore in altra posizione). In questa seconda ipotesi peraltro – va sottolineato – il licenziamento (per giustificato motivo oggettivo) può essere anche plurimo, ove riferito a più lavoratori con la stessa causale.
È, invece, estranea al licenziamento collettivo, che è necessariamente unico per una pluralità di lavoratori e mai individuale, la valutazione di “giustificatezza”, essendo il giudice chiamato a identificare la fattispecie sulla base di indicatori formali (ex artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991), qualila procedura di confronto sindacale e il numero minimo di lavoratori licenziati in un determinato arco di tempo. È questa una verifica esterna di autenticità della fattispecie, che non investe le ragioni d’impresa (quali possono essere la crisi economica, la ristrutturazione aziendale, la riconversione tecnologica, e finanche la cessazione dell’attività), le quali originano la riduzione di personale.
7.2.– Se si considera l’iter di formazione della legge di delega (n. 183 del 2014), che nasce su iniziativa del Governo, si nota che la strategia complessiva perseguita per riformare la disciplina del lavoro con plurime deleghe non toccava, inizialmente, anche i licenziamenti collettivi. Il testo approvato dal Senato in prima lettura non conteneva infatti alcun riferimento né ai licenziamenti collettivi, né ai «licenziamenti economici» (A.S. 1428, trasmesso il 9 ottobre 2014 alla Camera dei deputati).
Successivamente, durante la discussione alla Camera del disegno di legge (A.C. 2660), veniva presentato un emendamento al comma 7, lettera c), dell’art. 1 (1.538, Gnecchi ed altri), diretto a limitare la reintegrazione nei licenziamenti individuali; emendamento questo, che era in seguito riformulato, cosicché solo nel nuovo testo appariva, per la prima volta, il sintagma «licenziamenti economici», da riferirsi, secondo quanto preciserà lo stesso relatore per la maggioranza in Assemblea, ai soli licenziamenti individuali per motivi economici, ossia per giustificato motivo oggettivo, e non già anche ai licenziamenti collettivi (seduta n. 336 del 21 novembre 2014).
Il testo approvato veniva trasmesso in seconda lettura al Senato il 25 novembre 2014 (A.S. 1428-B), dove però il sintagma «licenziamenti economici» era recepito nella sua oggettiva portata testuale, quantunque atecnica, ed era inteso come riferito anche ai licenziamenti collettivi. In particolare, il relatore affermava – come risulta dal resoconto stenografico della seduta n. 363 del 2 dicembre 2014 – che la reintegrazione «dovrà ora essere esclusa per tutti i licenziamenti non sorretti da contestazione disciplinare (individuali per motivo economico-organizzativo o per scarso rendimento oggettivo, collettivi, temporaneamente inefficaci per mancato superamento del periodo di comporto di malattia) e per la generalità dei licenziamenti disciplinari. L’area in cui essa dovrà applicarsi è soltanto quella dei casi di nullità del licenziamento specificamente previsti dalla legge – matrimonio, maternità e discriminazione o rappresaglia – e in casi particolari di licenziamento disciplinare ingiustificato equiparabili per gravità al licenziamento discriminatorio, pur trattandosi ovviamente di una fattispecie diversa».
Quindi, al Senato, l’approvazione della delega è intervenuta (il giorno successivo alla presentazione della mozione di fiducia del Governo) dopo questa, pur sintetica, puntualizzazione, che assumeva che nei licenziamenti economici rientrassero anche quelli collettivi.
L’interpretazione del sintagma «licenziamenti economici» tornava all’esame del Parlamento in occasione dei prescritti pareri sullo schema di decreto legislativo, presentato dal Governo nell’esercizio della delega, e recante, all’art. 10, l’eliminazione della reintegrazione anche nell’ipotesi di licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta del personale da licenziare; ciò perché per il Governo la delega, quanto alla limitazione della tutela reintegratoria, riguardava anche i licenziamenti collettivi.
La Commissione Lavoro pubblico e privato (XI) della Camera riteneva, invece, che il criterio di delega in questione non riguardasse anche i licenziamenti collettivi e, dunque, esprimeva un parere sì favorevole sullo schema di decreto legislativo, ma alla condizione che nell’art. 10 si eliminasse la soppressione della reintegrazione e invece si prevedesse la disciplina dell’art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991 (ossia la tutela reintegratoria anche in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta).
La Commissione Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale (11ª) del Senato si limitava, dal canto suo, a invitare il Governo a valutare l’opportunità di conservare il regime della tutela reintegratoria nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
Il decreto legislativo veniva però emanato con l’art. 10 invariato, cosicché attualmente, ai licenziamenti illegittimi per violazione dei criteri di scelta si applica la tutela indennitaria (quella di cui all’art. 3, comma 1) e non già quella reintegratoria (di cui all’art. 2), la quale però continua ad essere applicabile in caso di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta. La stessa tutela indennitaria (quella di cui all’art. 3, comma 1) è poi confermata anche nel caso di violazione delle procedure di confronto sindacale, di cui all’art. 4, comma 12, della legge n. 223 del 1991.
8.– Orbene, c’è da considerare, in generale, che l’interpretazione dei criteri direttivi posti dalla legge di delega deve tener conto, innanzi tutto, della “lettera” del testo normativo.
Ad essa si affianca l’interpretazione sistematica sulla base della ratio legis, cheè quella che emerge dal contesto complessivo della legge di delega e dalle finalità che essa persegue.
Pertanto, il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega va operato partendo dal dato letterale per poi procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016), senza contrastare con gli indirizzi generali desumibili da questa (sentenze n. 229 del 2014, n. 134 del 2013 e n. 272 del 2012). È infatti costante l’affermazione secondo cui, «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello stesso senso, tra le altre, sentenze n. 175 del 2022, n. 231 e n. 174 del 2021, n. 184 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla materia penale, sentenza n. 105 del 2022).
La verifica di conformità della norma delegata a quella delegante richiede, quindi, lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge di delegazione e, dall’altra, le disposizioni emanate dal legislatore delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega stessa.
In sintesi, per definire il contenuto di questa, si deve tenere conto del complessivo contesto normativo in cui si inseriscono i principi e criteri direttivi della legge di delega e delle finalità che la ispirano; ciò che rappresenta non solo la base e il limite delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della loro portata (tra le tante, sentenze n. 166 del 2023, n. 133 del 2021, n. 84 del 2017, n. 250 del 2016, n. 194 del 2015 e n. 153 del 2014).
Quanto, poi, ai lavori parlamentari, più volte questa Corte, pur evidenziandone l’utilizzabilità come dati ermeneutici orientativi per ricostruire il dibattito che ha condotto all’approvazione della legge delega e, quindi, quali elementi che contribuiscono alla corretta esegesi di quest’ultima (sentenze n. 170 e n. 79 del 2019), ha comunque escluso che essi possano prevalere sul tenore testuale della legge, quale emerge dal dato letterale e logico (sentenza n. 223 del 2019), o esprimere interpretazioni autentiche della legge delega (sentenze n. 96 del 2020, n. 127 del 2017, n. 250 del 2016 e n. 47 del 2014).
Quindi i lavori parlamentari, sia sulla legge di delega n. 183 del 2014 sia sullo schema di decreto legislativo, di cui si è detto sopra, hanno una funzione solo complementare nel ricostruire la voluntas legis.
9.– Nella specie, si ha, per un verso, che sul piano dell’interpretazione letterale, l’espressione «licenziamenti economici» si presenta, nel linguaggio corrente, come una formula duttile, la cui ampiezza semantica è potenzialmente idonea ad essere adoperata in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria dei licenziamenti individuali «economici», perché per giustificato motivo oggettivo (id est,per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento), sia i licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa”, come tali anch’essi «economici».
Se il licenziamento collettivo mantiene da sempre una disciplina autonoma e costituisce una fattispecie di recesso distinta rispetto ai licenziamenti individuali, tale autonomia si giustifica per la preminenza di un interesse pubblico al previo confronto sindacale per ridurre e governare l’impatto sociale delle crisi occupazionali e non contraddice la qualificazione del recesso datoriale come licenziamento economico, in quanto fondato sul dato oggettivo della riduzione di personale per “ragioni di impresa”.
Si ha quindi che il sintagma «licenziamenti economici» può comunque riferirsi, nel linguaggio comune, ai licenziamenti per motivi economici, come tali sia individuali (per giustificato motivo oggettivo), sia collettivi (per riduzione di personale).
Del resto, vi è, comunque, che l’approvazione definitiva della legge di delega in seconda lettura al Senato è stata fatta – come già rilevato – proprio sull’assunto, riferito dal relatore del disegno di legge, che la dizione «licenziamenti economici» comprendesse anche i licenziamenti collettivi.
10.– Per altro verso, poi, c’è da considerare, sul piano logico-sistematico, che la norma, contenuta nella disposizione censurata, risulta essere conforme alla finalità della legge-delega di incentivare le nuove assunzioni e favorire il superamento del precariato sì da costituire un coerente sviluppo e completamento della disciplina, in simmetria, dei licenziamenti economici, sia individuali per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi per riduzione di personale. È infatti consentito al legislatore delegato l’«emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante» (sentenza n. 426 del 2008; in senso conforme sentenze n. 150 del 2022, n. 133 del 2021, n. 142 del 2020, n. 96 del 2020, n. 198 e n. 10 del 2018).
Questo parallelismo era, all’evidenza, già presente nella legge n. 92 del 2012, che ha limitato l’area di applicazione della tutela reintegratoria con riferimento sia alla fattispecie di licenziamento (individuale) per giustificato motivo oggettivo, sia a quella di licenziamento (collettivo) per riduzione di personale, escludendola, per quest’ultima, in caso di violazioni delle prescrizioni di carattere procedimentale concernenti il prescritto previo confronto sindacale.
L’ulteriore limitazione della tutela reintegratoria, voluta dalla legge n. 183 del 2014, si è tradotta nella sua esclusione in tutti i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – salva sempre l’ipotesi del licenziamento discriminatorio – in conformità al criterio di delega; ciò di cui nessuno dubita e che emerge inequivocabilmente dagli stessi lavori parlamentari.
Il legislatore delegato ha evidentemente ritenuto che sarebbe allora risultata incoerentemente asimmetrica una disciplina differenziata che avesse lasciato la tutela reintegratoria per i licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta a fronte della tutela solo indennitaria nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Se la logica di fondo delle riforme del 2012 e del 2014 è stata quella di riservare la tutela reintegratoria solo ai casi di violazioni più “gravi” in senso lato – e quindi anche più nettamente riconoscibili – di licenziamenti illegittimi, la mancanza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento individuale costituisce un’ipotesi non meno grave ed evoca, anzi, un controllo giudiziale più penetrante – in termini di giustificatezza, o no, del recesso datoriale – di quello richiesto dalla verifica dei criteri di scelta dei lavoratori destinatari di un licenziamento collettivo, di cui viene in rilievo (non la giustificatezza, ma) la identificazione della fattispecie sulla base degli indici formali del previo confronto sindacale e del numero dei lavoratori licenziati in un determinato periodo di tempo.
Anche a livello del diritto dell’Unione europea, il processo di armonizzazione parziale della disciplina dei licenziamenti collettivi (direttiva 98/59/CE), centrato sulla procedura di confronto sindacale, non ha compreso la regolamentazione delle conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori eccedenti, riservate alla competenza degli Stati membri (Corte di giustizia, ordinanza 4 giugno 2020, in causa C-32/20, TJ contro B. srl); criteri che peraltro, secondo la normativa interna, possono essere «in concorso tra loro» con conseguente loro applicazione combinata, come allorquando occorra considerare congiuntamente carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative (tali sono i criteri legali, in mancanza di quelli fissati da accordo sindacale, previsti dall’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991).
Pertanto, la simmetria con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo consente, sul piano della complessiva coerenza della disciplina risultante dall’esercizio della delega legislativa, di ritenere il sintagma «licenziamenti economici» riferito non solo ai licenziamenti individuali, ma anche a quelli collettivi.
11.– In definitiva, l’interpretazione letterale e sistematica, da una parte, e il necessario completamento di disciplina intrinseco al potere legislativo delegato per assicurare la coerenza complessiva della normativa risultante, dall’altra, consentono di affermare, conclusivamente, che l’estensione della soppressione della tutela reintegratoria anche ai licenziamenti collettivi – «economici» perché per “ragioni d’impresa” – oltre che a quelli individuali – «economici» perché per giustificato motivo oggettivo – può farsi rientrare nel più volte richiamato criterio di delega, che faceva riferimento ai «licenziamenti economici».
Mette conto notare, infine, che il legislatore, quando è nuovamente intervenuto sulla disciplina dei licenziamenti (d.l. n. 87 del 2018, come convertito), non ha modificato la disposizione che ha soppresso la reintegrazione nel caso di licenziamenti collettivi per violazione dei criteri di scelta, ma ha lasciato la concentrazione della tutela dei lavoratori in quella indennitaria, limitandosi ad incrementarla in termini quantitativi per tutti i licenziamenti, individuali e collettivi.
12.– La denunciata violazione del medesimo criterio di delega è poi dedotta, dalla Corte d’appello, anche sotto un secondo profilo.
Ad avviso della Corte rimettente, le disposizioni censurate avrebbero disatteso l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 altresì nella parte in cui, essendo prescritta, per l’esercizio del potere legislativo delegato, la «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», sarebbe stato violato l’art. 24 CSE, che riconosce «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».
La violazione conseguirebbe alla sostituzione della tutela reintegratoria con un indennizzo monetario determinato con un criterio rigido che, limitato entro una forbice di un importo minimo ed uno massimo, non ne garantirebbe l’adeguatezza, né la funzione dissuasiva del licenziamento illegittimo.
13.– Anche sotto questo ulteriore profilo la questione non è fondata.
13.1.– Va premesso che la costante giurisprudenza di questa Corte, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha ritenuto che – in ragione della prescrizione dell’art. 117, primo comma, Cost., che richiede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni sia esercitata anche nel rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» – siano deducibili, come parametri interposti, in particolare, le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Analoga affermazione è stata fatta più recentemente (sentenze n. 120 e n. 194 del 2018) anche con riferimento alla CSE, che, quale strumento convenzionale inserito nel sistema del Consiglio d’Europa, si connota per la tutela che riconosce ai diritti fondamentali di natura sociale e, per questo suo contenuto, si affianca alla CEDU sì da essere definita suo «naturale completamento sul piano sociale» (sentenza n. 120 del 2018). Essa, infatti, amplia il perimetro di tutela dei diritti fondamentali oltre il tradizionale catalogo dei diritti civili e politici riconosciuti dalla CEDU, con apertura ai diritti sociali. La complementarità dei due Trattati imprime un carattere unitario alla tutela dei diritti fondamentali in essi prevista.
Può quindi ribadirsi l’attitudine della CSE, nel quadro generale del sistema multilivello dei diritti fondamentali, a valere come parametro interposto ex art. 117, primo comma Cost..
13.2.– Proprio l’art. 24 CSE, evocato dalla Corte d’appello rimettente, è considerato nella decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’11 settembre 2019, pubblicata l’11 febbraio 2020, resa sul reclamo collettivo n. 158 del 2017, proposto dalla CGIL; decisione che conclude ritenendo la violazione dell’art. 24 CSE da parte del d.lgs. n. 23 del 2015 a causa della previsione di un tetto all’indennizzo spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo (in senso conforme, più recentemente, vedi la decisione del 26 settembre 2022, resa sui reclami collettivi n. 160 e n. 171 del 2018, proposti dalla Confederation generale du travail contro Francia, con riferimento ad analogo tetto dell’indennizzo previsto dalla disciplina dei licenziamenti nell’ordinamento francese; mentre in precedenza il Conseil constitutionnel, nella decisione n. 2018-761 del 21 marzo 2018, aveva stabilito che il limite massimo all’indennizzo per licenziamento senza giustificato motivo non costituiva una limitazione sproporzionata dei diritti dei lavoratori). A tale decisione (quella relativa al d.lgs. n. 23 del 2015) ha poi fatto seguito la risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dell’11 marzo 2020 che ha invitato il Governo italiano a produrre un rapporto sullo sviluppo della legislazione nazionale per la piena attuazione dell’art. 24 CSE quanto all’indennizzo da licenziamento illegittimo (analoga raccomandazione lo stesso Comitato dei ministri ha indirizzato, il 6 settembre 2023, al Governo francese).
In proposito questa Corte ha riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, previsto dalla CSE, organo ausiliario privo di natura giurisdizionale, ancorché esse non siano vincolanti per i giudici nazionali (sentenze n. 120 e n. 194 del 2018).
Si è infatti affermato che «[n]el contesto dei rapporti così delineati fra la Carta sociale europea e gli Stati sottoscrittori, le pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza, non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta, tanto più se ‒ come nel caso in questione ‒ l’interpretazione estensiva proposta non trova conferma nei nostri princìpi costituzionali» (sentenza n. 120 del 2018).
Mentre le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato che ad esse viene attribuito all’esito dell’attività interpretativa operata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le disposizioni della CSE costituiscono di per sé, e per il loro contenuto oggettivo suscettibile di autonoma interpretazione, un parametro interposto ex art. 117, primo comma, Cost., ma nessun vincolo conformativo può derivare allo Stato contraente dall’interpretazione che di esse venga fatta dal Comitato europeo dei diritti sociali.
Né la CSE, né il Protocollo addizionale del 1995, entrato in vigore nel 1998, contengono, infatti, disposizioni di effetto equivalente all’art. 32 CEDU, il quale radica la competenza della Corte EDU in merito a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte a essa; né tanto meno il Protocollo addizionale alla CSE, che istituisce e disciplina il sistema dei reclami collettivi, contiene una disposizione di contenuto analogo all’art. 46 CEDU sulla forza vincolante delle pronunce della Corte di Strasburgo.
Il sistema dei reclami collettivi ha, quindi, la specifica funzione di promuovere una più piena attuazione dei diritti sociali nei Paesi del Consiglio d’Europa, segnalando criticità degli ordinamenti nazionali che possono sfociare anche in una raccomandazione del Comitato dei Ministri, così come è stato per la citata decisione sul reclamo collettivo n. 158 del 2017 relativo alla legislazione italiana. Si tratta, pertanto, di una funzione essenzialmente propositiva e sollecitatoria, ma priva di efficacia vincolante.
14.– Questa Corte, chiamata a scrutinare l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per contrasto con gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione anche all’art. 24 CSE, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale (sentenza n. 194 del 2018) nella parte in cui prevedeva l’automatismo di un’indennità fissa e crescente in funzione della sola anzianità di servizio, mentre ha ritenuto lo stesso indennizzo conforme ai parametri costituzionali, anche a quello interposto (l’art. 24 CSE), nella parte in cui esso risulta fissato nella soglia massima di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, sul presupposto che tale risarcimento non contrasti con la nozione di adeguatezza già elaborata in precedenti decisioni (sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n. 132 del 1985). Un’analoga conformazione del criterio di calcolo dell’indennizzo è conseguita alla richiamata sentenza n. 150 del 2020 con riferimento al licenziamento disciplinare illegittimo perché affetto da vizi formali o procedurali.
A seguito di questa complessiva reductio ad legitimitatem,il criterio di quantificazione dell’indennizzo è risultato conforme al canone di adeguatezza del risarcimento da licenziamento illegittimo già elaborato alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sicché va escluso che il legislatore delegato, nel prevedere un indennizzo determinato entro un limite minimo e massimo, abbia violato la delega ponendosi in contrasto con il citato parametro interposto.
Ribadito che non vi è un’esigenza costituzionale che reclami la reintegrazione in ogni caso di licenziamento illegittimo, potendo la tutela essere anche indennitaria di natura compensativa, si ha comunque che l’adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo il più incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.
Ciò che va salvaguardato è la «complessiva adeguatezza» della tutela che il legislatore può «adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche» (sentenza n. 150 del 2020).
È ben possibile una tutela più ampia e più incisiva, come quella sollecitata dal Comitato europeo dei diritti sociali nella citata decisione dell’11 febbraio 2020. Ma appartiene alle scelte di politica sociale, rientranti nella discrezionalità del legislatore (art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»), fissare il sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi nella gamma di quelli che, pur in misura diversa e con differente incisività, rispondono tutti, nel loro complesso, al canone costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasività.
15.– Non fondata è anche la seconda questione sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost.
Il presupposto interpretativo delle censure mosse dalla Corte d’appello rimettente risulta corretto: nel vigente regime sanzionatorio, la tutela applicabile nei confronti di rapporti di lavoro risolti in violazione dei criteri di scelta a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo è diversamente modulata secondo la data di costituzione del rapporto; per effetto dell’immediata applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sarà applicabile la tutela reintegratoria attenuata, con la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, alla regolarizzazione contributiva e a un’indennità riparatoria in misura non superiore a dodici mensilità, mentre ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 spetterà la tutela indennitaria, determinata ai sensi dell’art. 3 dello stesso decreto secondo i più favorevoli criteri dettati dalla sentenza di questa Corte n. 194 del 2018.
16.– In ordine alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., non è ravvisabile alcun profilo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà del diverso trattamento sanzionatorio previsto per gli assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.
In termini generali, secondo la giurisprudenza della Corte se «il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l’identica disciplina e, all’inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul “perché” una determinata disciplina operi, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo» (sentenza n. 89 del 1996; di seguito, sentenze n. 43 del 2022, n. 276 del 2020 e n. 241 del 2014; nello stesso senso, sentenza n. 5 del 2000).
16.1.– Sulla ragionevolezza del criterio di applicazione temporale del regime introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015 ai soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, questa Corte si è già pronunciata con riferimento ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ritenendo non fondata l’analoga censura di violazione dell’art. 3 Cost. (sentenza n. 194 del 2018).
In tale decisione si ricorda che «a proposito della delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo […] è costante l’affermazione […] che “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)” (sentenza n. 254 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto)» e che «[s]petta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme» (sentenza n. 104 del 2018; in senso conforme, sentenze n. 273 del 2011 e n. 94 del 2009).
Il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti individuali non viola il principio di uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole nella finalità perseguita dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).
Risponde al canone di ragionevolezza modulare le conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato al fine di rafforzare le opportunità d’ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, sicché «appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita» (sentenza n. 194 del 2018).
16.2.– Tale conclusione va predicata anche con riferimento ai licenziamenti collettivi, sussistendo la stessa logica di gradualità dell’applicazione della nuova normativa.
Nel limitare l’area del regime della reintegrazione ben poteva il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, conservare questa tutela per i lavoratori che, in quanto in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo, già ne fruissero e limitare l’innovazione normativa ai nuovi assunti, che tale garanzia non avevano, con la finalità perseguita di incentivarne l’occupazione, soprattutto giovanile, o la fuoriuscita dal precariato (ad esempio, con la trasformazione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato).
Per i “vecchi” lavoratori l’eliminazione della reintegrazione avrebbe significato una diminuzione di tutela che il legislatore ha escluso. Per i “nuovi” lavoratori il mancato riconoscimento della reintegrazione nella fattispecie in esame (quella del licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta) era riconducibile al nuovo dimensionamento della tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi, che apparteneva alla discrezionalità del legislatore.
Favorire l’occupazione di questi ultimi, anche mediante la riduzione dell’area della reintegrazione, non richiedeva necessariamente anche di limitare la tutela dei lavoratori già in servizio sopprimendo la tutela reintegratoria: in ciò sta il bilanciamento delle garanzie e il fondamento non irragionevole di questa disciplina asimmetrica.
Nella successione delle leggi nel tempo è possibile, nei limiti della coerenza di sistema e della proporzionalità rispetto alla finalità perseguita, che permanga una differenziazione di disciplina ratione temporis.
Vi è del resto che – pur se, sul piano della procedura e nella fase di individuazione della tipologia dei vizi, il licenziamento collettivo costituisce una fattispecie autonoma e unitaria ad effetti plurisoggettivi che richiede una regolamentazione necessariamente uniforme – invece nella fase delle conseguenze sanzionatorie ciascun licenziamento assume rilievo autonomo in riferimento al singolo lavoratore sicché, rispetto a ogni distinta posizione lavorativa, è possibile applicare un regime sanzionatorio diverso ratione temporis,ove tale diversificazione soddisfi un criterio di razionalità.
L’autonomia sul piano sanzionatorio trova conferma anche nella considerazione che, secondo la giurisprudenza, l’illegittimità per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 non può essere fatta valere indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 22 maggio 2019, n. 13871; sentenza 1° dicembre 2016, n. 24558).
Anche per i licenziamenti collettivi, come per quelli individuali, la ragionevolezza di una disciplina differenziata va individuata nello scopo dichiarato nella legge delega di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi” assunti, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela indennitaria predeterminata, risultando indifferente rispetto a tale fine che il recesso sia individuale o collettivo.
17.– Le norme censurate non violano neppure gli artt. 4 e 35 Cost., in relazione al fatto che ai lavoratori “giovani” (quelli assunti a partire dal 7 marzo 2015) esse riconoscerebbero una tutela inadeguata e non dissuasiva, come tale insufficiente.
Il dubbio che rimedi diversi dalla reintegra siano inidonei ad assicurare una piena ed efficace tutela ai lavoratori arbitrariamente licenziati ed assunti dopo il 7 marzo 2015 è contraddetto dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, pur segnalando che la garanzia del diritto al lavoro impone l’adozione di temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, individua nella tutela reale solo uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro (sentenze n. 183 del 2022, n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 46 del 2000), spettando al legislatore modulare il sistema delle tutele «nell’esercizio della sua discrezionalità e della politica economico-sociale che attua», in considerazione del contesto economico e sociale di riferimento (sentenza n. 2 del 1986).
Questo profilo di censura ha comunque un’evidente sovrapposizione con la successiva questione, che ora si viene ad esaminare.
18.– Non fondata è anche la terza questione, sollevata con riferimento a plurimi parametri (artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117 Cost.), convergenti però in una censura unitaria di insufficienza di una tutela meramente indennitaria, quindi senza reintegrazione.
In particolare, la Corte rimettente dubita dell’adeguatezza di una tutela indennitaria determinata con la previsione di un “tetto” massimo, lamentandone l’inefficacia, o una debole efficacia, dissuasiva.
18.1.– Deve considerarsi che, a partire dalla sentenza n. 45 del 1965, questa Corte ha ricondotto la tutela contro i licenziamenti illegittimi agli artt. 4 e 35 Cost., interpretati in una prospettiva unitaria, affermando che il diritto al lavoro, «fondamentale diritto di libertà della persona umana», pur non essendo assistito dalla garanzia della stabilità dell’occupazione, «esige che il legislatore […] adegui […] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti».
Anche in seguito si è riconosciuto il «diritto a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991); si è ribadita la «garanzia costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541 del 2000 e ordinanza n. 56 del 2006); si è evidenziato che «la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del 2003) e che il «[i]l forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele» (sentenza n. 194 del 2018).
Quanto ai meccanismi di tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo, la stessa giurisprudenza ha valorizzato la discrezionalità del legislatore in materia, evidenziando che quello della tutela reale non costituisce l’unico paradigma possibile (vedi sentenza n. 46 del 2000 nonché, in tema di legittimità dell’esclusione della tutela reale nelle imprese sotto la prevista soglia dimensionale, sentenze n. 2 del 1986, n. 152 del 1975 e n. 55 del 1974).
Già la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i principi che si traggono dall’art. 4 Cost. «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», ha precisato che «[l]’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale» (successivamente, nello stesso senso, sentenze n. 55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986).
Nel tempo la Corte ha negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., tra diritto al lavoro e libertà d’impresa, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000), ammettendo che il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché esso sia rispettoso del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, risulta dalla «sintesi […] dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994).
Sul piano della quantificazione, escluso che la regola generale della integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato abbia copertura costituzionale (sentenze n. 148 del 1999, n. 369 del 1996 e n. 132 del 1985), si richiede, ai fini dell’adeguatezza dell’indennizzo, che con esso venga riconosciuto un ristoro del pregiudizio sofferto, serio ed equilibrato, la cui funzione dissuasiva non sia inficiata dalla predeterminazione di un tetto massimo, fissato in un importo sufficientemente elevato e non condizionato esclusivamente all’anzianità.
18.2.– Più recentemente, con riferimento proprio al d.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte ha ritenuto compatibile con la Carta fondamentale una tutela meramente monetaria, purché improntata ai canoni di effettività e di adeguatezza, rilevando che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore», non impone «un determinato regime di tutela» (sentenza n. 194 del 2018).
In tale pronuncia si ricorda come sia stato più volte affermato, in occasione dell’esame di disposizioni introduttive di forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, che «“la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale” (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303 del 2011). La tutela, dunque, ancorché non necessariamente riparatoria dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere comunque equilibrata. Dalle stesse pronunce emerge, altresì, che l’adeguatezza del rimedio forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n. 132 del 1985).
Anche nella successiva sentenza n. 150 del 2020, si è affermato che la ragionevolezza, nell’àmbito della disciplina dei licenziamenti, dev’essere declinata come necessaria adeguatezza dei rimedi, «nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro. Il legislatore, pur potendo adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi, è chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore».
18.3.– Questa Corte ha, quindi, già riconosciuto che il limite massimo di ventiquattro mensilità, a maggior ragione dopo che il d.l. n. 87 del 2018, come convertito, lo ha elevato a trentasei mensilità (art. 3), non si pone in contrasto con il canone di necessaria adeguatezza del risarcimento, che richiede che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto.
Del resto, che il limite massimo (ventiquattro mensilità elevate a trentasei) costituisca un importo adeguato emerge anche dalla comparazione con l’indennità sostitutiva della reintegrazione, di cui all’art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970 o all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, stante che l’ammontare di tale indennità, introdotta come un equivalente sostitutivo della reintegrazione, è pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Si è poi già rilevato che la dissuasività della disciplina dell’illegittimità dei licenziamenti e l’adeguatezza del ristoro vanno valutate con riferimento alla regolamentazione complessiva, articolata nella tutela reintegratoria e in quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualità e proporzionalità che vede la tutela reintegratoria nei casi di violazioni più gravi e quella solo indennitaria negli altri.
Anche la fissazione di un limite massimo dell’indennizzo risponde, del resto, alla ragione di fondo della legge delega di incentivare le nuove assunzioni con la previsione di conseguenze sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento illegittimo.
La personalizzazione del ristoro resta in ogni caso garantita entro l’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, e comunque l’indennità, pur assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare ipotesi di danno ulteriore risarcibile, come nel caso di danni derivanti dal licenziamento ingiurioso (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 25 gennaio 2021, n. 1507).
19.– La Corte rimettente dubita, poi, dell’adeguatezza di una tutela indennitaria anche con riferimento all’art. 24 CSE, evocato non più sotto il profilo dell’eccesso di delega, ma ex se come parametro interposto.
Pur in questa diversa prospettiva, non possono che richiamarsi le considerazioni già svolte sopra ai punti da 12 a 14.
Ferma restando la natura non vincolante della richiamata decisione dell’11 febbraio 2020 del Comitato europeo dei diritti sociali e il carattere interlocutorio della risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dell’11 marzo 2020, va ribadito che l’adeguatezza e la dissuasività della normativa di contrasto dei licenziamenti illegittimi deve essere valutata con riferimento alla disciplina complessiva, che si compone della tutela reintegratoria e di quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualità e proporzionalità.
20.– Per tutto quanto finora argomentato vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, censurati sotto diversi profili e con riferimento agli indicati parametri, nella parte in cui hanno modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, fissando, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in misura di un indennizzo determinato entro un limite massimo fissato per legge ed escludendo quella reintegratoria.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 10, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, sotto il profilo della violazione dei criteri di delega, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, sotto il profilo della disparità di trattamento, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost., dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, sotto il profilo dell’inadeguata tutela, in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE, dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 2023.
[…] Depositata in Cancelleria il 22 gennaio 2024 […]”
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