(Studio legale  G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 29 luglio 2024, n. 21147.

Licenziamento collettivo. Procedura di mobilità. Lettere di licenziamento. Criteri di scelta. Ricorso. Rigetto.

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Rilevato che

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria, in riforma della pronuncia del Tribunale di Palmi, ha accolto il reclamo proposto da M.C.T. s.p.a. e dichiarato legittimo il licenziamento collettivo intimato a A.P. con lettera del 26.6.2017.

2. La Corte distrettuale ha, preliminarmente, ritenuto correttamente rappresentata la società, durante la procedura di mobilità e nelle lettere di licenziamento, da parte del Direttore generale dott. T., in considerazione: del potere (di cui era provvisto il suddetto Direttore generale e institore, Responsabile del personale e Consigliere di amministrazione) di rappresentare la società presso le organizzazioni sindacali e di condurre trattative; della natura di atto interno dell’approvazione, da parte della società, dell’operato del suo Direttore generale (senza alcuna necessità di forma scritta); della sottoscrizione, da parte sia del Presidente del Consiglio di amministrazione sia del T. della lettera di avvio della procedura ex art. 4 della legge n. 223 del 1991 e della espressa spendita del potere rappresentativo, da parte del T. (“per conto di MCT s.p.a.”) in sede sia di verbale congiunto e all’atto dell’intimazione del licenziamento (effettuato su carta intestata della società), senza, dunque, che vi fosse necessità di continui ed ulteriori richiami (nei verbali di accordo) al potere rappresentativo; della ratifica pervenuta, in ogni caso, ex post, con effetto retroattivo (lettera 18.6.2018 della Presidente del Consiglio di amministrazione che dichiarava di avere preventivamente autorizzato il T. a partecipare alla procedura sottoscrivendo in nome e per conto della società e di aver sottoscritto, in data 7.3.2018, un atto di ratifica dell’operato di T.); dell’applicabilità della disciplina dettata in materia di negozio concluso dal falsus procurator alla procedura dettata dalla legge n. 223 del 1991 (anche volendo ritenere il T. privo di potere rappresentativo, l’accordo siglato con le organizzazioni sindacali non può ritenersi né nullo né annullabile, ma solo temporaneamente inefficace, inefficacia fatta eventualmente valere esclusivamente dal falso rappresentato, e non dal terzo destinatario dell’atto, i lavoratori, che semmai dovevano espletare l’actio interrogatoria); del potere del T. di sottoscrivere la comunicazione prevista dall’art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991, potere – meramente attuativo dell’accordo sindacale – espressamente previsto dalla Statuto MCT fra le attribuzioni del Direttore generale.

Nel merito della fattispecie, la Corte territoriale ha accertato che la lettera di avvio della procedura di mobilità (del 31.3.2017) era esaustiva, in quanto conteneva, in nuce, le ragioni della riduzione dei volumi dei containers movimentati, dell’intervento della cassa integrazione guadagni sin dal 2011 e della tripartizione del personale in esubero, i “piazzalisti”, nei tre profili “gruisti”, “carrellisti” e “operatori di mezzi bassi”, sulla base della mansione prevalente svolta da ciascun lavoratore, con conseguente possibilità del sindacato di valutare consapevolmente la situazione di eccedenza e di concordare una riduzione dei licenziamenti programmati (obiettivo raggiunto durante le trattative);

la Corte ha, poi, rilevato la carenza di allegazione e di prova in ordine alla fungibilità delle mansioni tra i tre profili, diversità tra i suddetti tre profili ulteriormente dimostrata sia dal distinto livello di inquadramento al quale corrispondevano i “carrellisti” (IV livello) rispetto ai “gruisti” (III livello) sia dalla necessità di un modesto, ma comunque significativo, addestramento professionale per svolgere una mansione in luogo di un’altra (e la comparazione con i criteri di accesso alla cassa integrazione guadagni, avviata sin dal 2011, era errata, visto il diverso obiettivo, del tutto temporaneo, perseguito da questo istituto di sostegno al reddito);

 ha, inoltre, aggiunto che non vi era stata alcun violazione dei criteri di scelta, avendo la società correttamente proceduto ai licenziamenti in base alle quote di esuberi differenziate per singolo profilo, come indicato nella lettera di avvio della procedura, applicando criteri matematici per l’anzianità di servizi e per i carichi di famiglia nell’ambito delle distinte graduatorie (risultando, ininfluente la mancata tripartizione in occasione degli interventi precedenti di cassa integrazione guadagni, che rispondeva al diverso obiettivo di intervenire temporaneamente per la riduzione dei costi al fine di riprendere l’attività);

non era stato, inoltre, dimostrato che gli spostamenti di alcuni lavoratori da un settore ad un altro perseguissero intenti fraudolenti (se non quello della necessità di una diversa organizzazione imprenditoriale) e, comunque, nessuna contestazione era stata allegata con riguardo al profilo di “carrellista” rivestito dal P., che, inoltre, non aveva allegato né dimostrato che l’applicazione dei criteri di anzianità e carichi di famiglia ad un’unica graduatoria (invece che nell’ambito delle tre distinte graduatorie elaborate dalla società in base ai diversi profili) gli avrebbe consentito di essere escluso dal novero dei lavoratori licenziati.

3. Per la cassazione di tale sentenza il lavoratore propone ricorso affidato a sei motivi; resiste la società con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.

Considerato che

1. Con i primi tre motivi il ricorrente denunzia violazione degli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991, 1387, 1398, 1399 cod.civ. (ex art. 360 c.p.c., primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato che solo la contemplatio domini consente di rendere palese alla controparte la capacità del rappresentante che non agisce in proprio ma nell’interesse del soggetto aliunde, essendo irrilevanti le eventuali potestà aggiuntive attribuite al T. (che agi nella sua qualità di Direttore generale); il Direttore generale, come previsto dallo Statuto della società, poteva licenziare dipendenti solamente a firma congiunta con il Presidente del Consiglio di amministrazione; l’accordo sindacale stipulato il 19.6.2017 era, dunque, inefficace; è inapplicabile l’istituto della ratifica in quanto non si discute di un atto di natura negoziale ma di un accordo collettivo gestionale (procedura di esame congiunto e verbale di accordo finale); infine, posto che i lavoratori sono estranei alla procedura prevista dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, la ratifica dell’operato del Direttore generale poteva semmai avere efficacia ex tunc solo con riguardo ai sindacati, il lavoratore rappresenta il soggetto “terzo” tutelato negli schemi degli artt. 1398 e 1399 c.c., nei cui confronti il licenziamento era inefficace al momento della intimazione del recesso.

2. Con il quarto motivo si denunzia violazione dell’art. 2697 c.c. (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, ingiustamente onerato il lavoratore della c.d. prova di resistenza del licenziamento, nonostante lo stesso aveva radicalmente contestato la legittimità dei recessi in considerazione della inefficacia del verbale di accordo sindacale (sottoscritto da persona sfornita del potere rappresentativo).

3. Con il quinto motivo si deduce violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c. per omesso esame dei motivi di reclamo in punto di insufficienza della comunicazione di avvio della procedura ex art. 4 della legge n. 223 del 1991 e della insussistenza delle esigenze tecnico-produttive.

4. Con il sesto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 132, comma 2, n. 4 e 118 disp.att. c.p.c. (ex art. 360 c.p.c., primo comma, nn. 4 e 5, cod.proc.civ.) per carenza di motivazione e contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, avendo, la Corte territoriale, in ordine al potere rappresentativo del Direttore generale, premesso che anche la procedura dettata dalla legge n. 223 del 1991 appare sottoposta alla disciplina generale in tema di negozio concluso dal falsus procurator e avendo, poi, configurato il lavoratore dapprima come soggetto “terzo destinatario” dell’atto (ex art. 1399, comma 2, c.c.) per affermare, successivamente, che lo stesso poteva esperire l’actio interrogatoria, riservata al terzo contraente ex art. 1399, comma 4, c.c.

5. I primi tre motivi di ricorso ed il sesto motivo sono inammissibili.

5.1. Le censure formulate come violazione o falsa applicazione di legge mirano in realtà alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità. 

5.2. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

5.3. Ancora di recente le Sezioni unite hanno ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);

5.4. Le censure in esame sono inammissibili in quanto involgono apprezzamenti di merito in ordine alla sussistenza del potere rappresentativo in capo al Direttore generale della società, valutazioni in quanto tali sottratti al sindacato di questa Corte, avendo la Corte territoriale accertato che il concorso di una molteplicità di elementi di fatto (le cariche apicali contestualmente ricoperte dal Direttore generale, la lettera di avvio della procedura ex artt. 24 e 4 della legge n. 223 del 1991, le previsioni dello Statuto della società, la spendita del potere rappresentativo in alcune occasioni, l’uso della carta intestata della società, gli atti interni di approvazione della condotta del Direttore generale mai smentiti in alcuna circostanza) dimostrava il suddetto potere.

5.5. Il sesto motivo è carente, dunque, di decisività, rivolgendosi – a fronte di una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata in punto di potere rappresentativo del Direttore generale – ad una di tali ragioni fornita ad abundantiam (“In ogni caso… Anche ammesso che T. non avesse potere…”) dalla Corte, e ciò ne rende inammissibile, per difetto di interesse, l’esame in quanto il ricorrente non ha più ragione di avanzare censure che investono una ulteriore ratio decidendi, giacchè, ancorchè essa fosse fondata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della decisione anzidetta (cfr, ex plurimis, Cass. n. 13956 del 2005; Cass. n. 12355 del 2010; Cass. n. 9752 del 2017; da ultimo Cass. n. 27094 del 2021).

5.6. Inoltre, i motivi censurano solo alcune delle plurime rationes decidendi poste dalla Corte di merito a fondamento del rigetto dell’eccezione di carenza dei poteri rappresentativi da parte del Direttore generale della società.

In particolare, il motivo non investe le affermazioni contenute nella impugnata sentenza secondo cui nessuna forma scritta né alcun potere di rappresentanza sono previsti dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991 con riguardo ai verbali di accordo (intervenuti tra l’avvio della procedura e l’adozione del licenziamento), a fronte degli accertamenti svolti dalla Corte territoriali (insindacabili in questa sede di legittimità) circa la sottoscrizione della lettera di avvio da parte sia del Presidente del Consiglio di amministrazione sia del Direttore generale e la previsione nello Statuto della società altresì del potere (del Direttore generale) di rappresentare la società presso le organizzazioni sindacali con le quali condurre trattative; inoltre, il giudice di appello non si è limitato a ritenere sufficiente la spendita del nome in sede di esame congiunto, nella lettera di avvio della procedura di mobilità (congiuntamente al Presidente del Consiglio di amministrazione) e nella lettera di intimazione del licenziamento, ma ha anche correttamente affermato che la disciplina dettata dall’art. 1399 c.c. – che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo del potere di rappresentanza – è applicabile, in virtù dell’art. 1324 c.c., anche a negozi unilaterali come il licenziamento (Cass. n. 17461 del 2003; tra le tante conformi, cfr. da ultimo Cass. n.17999 del 2019).

6. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.

6.1. La censura difetta di decisività perché è dedotto l’errato riparto dell’onere della prova, da una parte, rinviando nuovamente ai profili di censura attinenti al potere rappresentativo del Direttore generale (già esaminati) e, dall’altra, sottolineando la legittimità astratta dei criteri di scelta e la superfluità della c.d. prova di resistenza a carico del lavoratore, laddove la Corte d’appello ha tenuto conto della peculiarità della fattispecie, ossia della suddivisione dei lavoratori in tre graduatorie corrispondenti a profili professionali diversi, riscontrandone la legittimità e la corretta applicazione, aggiungendo, solo come “ulteriore elemento ostativo all’accoglimento della domanda del lavoratore” la mancata dimostrazione che l’asserita violazione dei criteri di scelta abbia concretamente causato il suo licenziamento.

7. Il quinto motivo di ricorso è infondato.

7.1. In disparte la sufficienza della mera riproposizione “ai sensi e per gli effetti dell’art. 346 c.p.c. delle ulteriori difese ed eccezioni già formulate nel ricorso introduttivo del giudizio, nella memoria integrativa depositata previa autorizzazione del GL”, svolta nell’atto di costituzione del lavoratore in sede di reclamo (come dedotto dallo stesso ricorrente; sul punto, cfr. Cass. n. 33649 del 2023), la Corte territoriale ha chiaramente pronunciato sulla esaustività della lettera di avvio della procedura ex art. 4 della legge n. 223 del 1991 (pagg. 16 e ss) riassumendo, dapprima, il contenuto di detta lettera (le perdite subite dalla società, le “consecutive ammissioni a CIGS”, “la natura strutturale del sovrannumero e l’impossibilità di proseguire con la CIGS o con altri strumenti alternativi”, la concentrazione delle eccedenze in alcuni profili “principalmente gruisti e carrellisti”, l’allegato alla lettera ove erano precisati numericamente tutti questi aspetti) e rilevando, poi, che “La comunicazione conteneva pertanto in nuce, ma in modo inequivoco, le ragioni della tripartizione…” e che si trattava di scelta ragionevole e giustificata considerata la diversa esperienza e formazione richiesta per svolgere le distinte mansioni.

8. In conclusione, il ricorso deve rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

9. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”.