(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
Corte di Cassazione. Ordinanza 15 aprile 2024, n. 10083.
“non può gravare sul lavoratore, in difetto di una graduatoria delle varie posizioni, un onere di acquisizione (di assai arduo se non impossibile assolvimento) di notizie attinenti a tutti gli altri lavoratori da porre in comparazione”
Licenziamento collettivo. Annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta. Trasferimento. Interesse ad agire. Doppia conforme. Rigetto.
“[…] La Corte di Cassazione.
(omissis)
Rilevato che
con la sentenza impugnata è stata confermata la pronunzia del Tribunale di Perugia nella parte in cui era stata accolta la domanda proposta da G.B. nei confronti della “A. S.p.A.”, volta al conseguimento della declaratoria di illegittimità del licenziamento, intimatogli dalla menzionata società, per violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, primo comma, della l. n. 223 del 1991;
a sostegno della propria decisione, il giudice del gravame, in risposta ai motivi di doglianza espressi dalla società, ha evidenziato che il Tribunale non aveva esercitato un sindacato sulle scelte concernenti l’organizzazione e la gestione dell’azienda, poiché aveva chiarito, da un lato, che oggetto di censura, nell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, era stata la determinazione datoriale di non individuare i lavoratori da licenziare tra quelli addetti a mansioni connotate da professionalità omogenee impiegati nell’intero complesso aziendale, e, dall’altro, che il datore non aveva dimostrato le ragioni che giustificavano l’individuazione dei destinatari del licenziamento tra coloro che erano stati impiegati nel reparto operativo da sopprimere (ossia, la sede di Perugia);
il predetto giudice ha aggiunto che la proposta di acconsentire ad un trasferimento, formulata dalla datrice di lavoro ad una parte dei lavoratori dell’unità produttiva di Perugia, in epoca precedente all’apertura della procedura di licenziamento collettivo, non costituiva circostanza idonea a limitare la platea dei potenziali licenziandi, non rientrando la circostanza fra i criteri previsti dall’art. 5 della l. n. 223 del 1991, né poteva essere addotto, quale motivo valido a restringere la platea dei lavoratori destinatari del licenziamento a quelli impiegati presso un’unità destinata alla soppressione, il timore di maggiori costi conseguenti alla ricollocazione dei lavoratori presso nuove sedi, ovvero a contenziosi derivanti dall’eventuale rifiuto opposto ai provvedimenti aziendali di trasferimento; pertanto, la mancanza di un accordo con le organizzazioni sindacali sui criteri di scelta da applicare comportava l’operatività dei criteri previsti dal citato art. 5, e, di conseguenza, la necessità di comparare i lavoratori addetti a tutte le sedi dell’impresa, compresa quella di Padova, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla società, era una unità produttiva vera e propria, come si evinceva dalla visura camerale;
la Corte di appello ha poi rilevato che non era documentato che il lavoratore avesse espressamente rifiutato di essere trasferito a Carate Brianza, e, del resto, l’affermazione – contenuta nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, della richiamata l. n. 223 del 1991 e nella lettera di licenziamento – che “ove in ipotesi ricorressero i presupposti per un eventuale trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., si sarebbero venuti a determinare, a carico della nostra società, maggiori costi incompatibili con le stringenti esigenze di economia”, dimostrava non solo che non esisteva un rifiuto esplicito alla proposta di trasferimento, ma anche che, in realtà, fin dall’inizio l’azienda non aveva intenzione di trasferire i lavoratori addetti presso l’unità di Perugia in altre sedi, a causa dei costi che ciò avrebbe comportato;
la predetta Corte ha infine precisato che l’interesse ad agire del lavoratore discendeva dall’essere quest’ultimo stato incluso nell’ambito di una cerchia ristretta di lavoratori destinati ad essere licenziati, a prescindere da una qualsiasi comparazione con gli altri dipendenti che svolgevano mansioni omogenee, non potendo il lavoratore medesimo, in difetto di una graduatoria con attribuzione di punteggi ai lavoratori in base ai criteri individuati dall’art. 5 della l. n. 223 del 1991, conoscere i carichi familiari e l’anzianità di tutti gli altri dipendenti;
per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la “A. S.p.A.”, affidato a quattro motivi illustrati con memoria;
G.B. ha resistito con controricorso;
il P.G. non ha formulato richieste;
chiamata la causa all’adunanza camerale del 6 febbraio 2024, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art. 380 bis 1, secondo comma, c.p.c.).
Considerato che
con il primo motivo, la “A. S.p.A.” – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 41 Cost., 30 della l. n. 183 del 2010 e 2103 c.c., nonché contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia ritenuto che il Tribunale non avesse sindacato direttamente la scelta imprenditoriale di procedere con i licenziamenti piuttosto che con i trasferimenti, in quanto nell’ordinanza emessa a definizione della prima fase del procedimento di impugnazione era stato invece affermato, tra l’altro, che il datore ben avrebbe potuto, nel caso di specie, disporre unilateralmente «il trasferimento del lavoratore dall’unità di Perugia soppressa all’unità di Carate Brianza»; ed anche nella sentenza emessa dal Tribunale a definizione della fase di opposizione, il sindacato delle scelte datoriali era stato nuovamente esplicitato, come evincibile dall’affermazione che «se, come sostenuto nella comunicazione di avvio della procedura di mobilità, non vi fosse stata la necessità di ridurre l’organico, il datore di lavoro, tenuto conto della chiusura dell’unità perugina, avrebbe dovuto disporre il trasferimento dei lavoratori impiegati presso di essa in quanto avrebbe avuto, in ogni caso, la necessità di disporre del medesimo numero di lavoratori e delle medesime professionalità»;
con il secondo motivo – denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, nonché contraddittoria motivazione su un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice abbia considerato la circostanza del rifiuto al trasferimento volontario non idonea a limitare la platea dei potenziali licenziandi, benché nella comunicazione di apertura della procedura dell’8 novembre 2018 la società avesse sottolineato l’esigenza che i dipendenti di Perugia si trasferissero, con la conseguenza che un loro eventuale rifiuto avrebbe portato allo scioglimento del rapporto di lavoro; pertanto, la predetta società aveva chiarito sia le ragioni organizzative che limitavano i licenziamenti ai dipendenti dell’unità di Perugia, sia quelle, integrate dal rifiuto preventivamente opposto dagli interessati, “per cui non riteneva di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive (tantomeno vicine)”;
con il terzo motivo – denunziando omessa motivazione circa un fatto decisivo, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c. – si duole, in primo luogo, che la Corte territoriale abbia omesso l’esame del verbale di riunione tenutasi il 22 gennaio 2019 nella fase amministrativa della procedura, dal quale emergeva che le OO.SS. avevano ritenuto l’incentivo all’esodo avanzato dall’azienda non esaustivo per poter raggiungere un accordo, sicché il predetto verbale dimostrava inequivocabilmente il rifiuto dei dipendenti di Perugia al trasferimento volontario, che determinava la necessità di valutare diversamente le esigenze produttive ed organizzative poste alla base dei licenziamenti; lamenta, in secondo luogo, che la richiesta ai dipendenti di esprimersi in merito alla proposta di trasferimento volontario era stata sì sottoposta ad un termine non perentorio, ma ciò, tuttavia, non significava che gli interessati potessero rinviare “sine die” le proprie risposte, atteso che la sussistenza dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede imponeva un riscontro in tempi ragionevoli e coerenti con la procedura di mobilità, che aveva avuto la durata due mesi e mezzo;
con il quarto motivo – denunciando falsa applicazione degli artt. 100 c.p.c. e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame, nel disattendere l’eccezione riguardante la carenza di interesse ad agire del lavoratore, non abbia applicato il principio secondo cui l’annullamento del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento.
Ritenuto che
il quarto motivo, da trattare con priorità per ragioni logiche, è da disattendere, poiché, concernendo la procedura di mobilità tutti (e solo) i dipendenti in servizio presso l’unità produttiva di Perugia, l’interesse all’impugnazione del licenziamento è da ritenersi “in re ipsa”, essendo stato l’atto espulsivo intimato – per come si vedrà – sul presupposto che ciascuno dei predetti dipendenti avesse rifiutato il trasferimento volontario;
ma anche nella concorrente prospettiva, altresì tratteggiata nella sentenza impugnata, della necessaria operatività, nel caso in esame, di tutti i criteri stabiliti dal richiamato art. 5 della l. n. 223 del 1991, vale quanto affermato nella sentenza in questione, ossia che non può gravare sul lavoratore, in difetto di una graduatoria delle varie posizioni, un onere di acquisizione (di assai arduo se non impossibile assolvimento) di notizie attinenti a tutti gli altri lavoratori da porre in comparazione;
il terzo motivo, da esaminare altresì con precedenza rispetto ai restanti, è del pari da rigettare, poiché, da un lato, l’esame del denunziato vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., è precluso per via dell’operatività della cd. “doppia conforme”, in difetto di dimostrazione che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, siano tra loro diverse (cfr., tra le altre, Cass. 28/02/2023, n. 5947); senza contare, in ogni caso, che nel verbale sopra indicato non risulta, avuto riguardo a quanto si legge in ricorso, l’esplicito rifiuto dei dipendenti (e, comunque, del controricorrente) di accettare il trasferimento proposto dalla società; dall’altro, il profilo del rifiuto tacito (o dell’esecuzione del contratto in violazione del canone di buona fede, per non avere il lavoratore manifestato nel periodo di svolgimento della procedura il suo consenso al trasferimento), che non risulta dedotto – benché in memoria vi sia mera asserzione del contrario – nei precedenti gradi del giudizio, investe, comunque, accertamento di fatto sottratto al sindacato di legittimità;
il secondo motivo è pertanto assorbito, giacché la giustificazione della sopra indicata limitazione della platea dei licenziandi è il derivato – secondo la stessa prospettazione della società ricorrente (avuto altresì riguardo alla comunicazione di apertura della procedura in data 8 novembre 2018, ove, per quanto qui interessa, si legge che “Una eventuale situazione di eccedenza potrà dunque ingenerarsi solo ove, e nei limiti in cui, i dipendenti occupati presso l’unità di Perugia dovessero rifiutare il trasferimento”) – del predetto rifiuto, per converso dal giudice di merito escluso, in quanto ritenuto non provato;
per conseguenza, è assorbito anche il primo motivo, già comunque inammissibile per via sia dell’operatività della cd. “doppia conforme”, sia della non decisività, ai fini della decisione adottata dal giudice del gravame, della parte di motivazione della pronunzia di primo grado di cui è assunta, in ricorso, la inesatta lettura ad opera del predetto giudice;
segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come in dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso […]”.
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