(Studio legale  G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 17 luglio 2024, n. 19740.

Licenziamento. Rapporto di lavoro subordinato. Contratto di cessione di azienda. Mancata impugnazione. Decorrenza del termine di decadenza. Riammissione in servizio. Rigetto

 “[…] La Corte di Cassazione.

(omissis)

Rilevato che

1. F.L. ed altri lavoratori adivano il giudice del lavoro chiedendo l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la convenuta C. s.p.a. in virtù di contratto di cessione di azienda ex art. 2112 c.c. stipulato tra quest’ultima società e il Fallimento di La S. s.r.l., società originaria datrice di lavoro, con ordine di riammissione in servizio alla cessionaria C. s.p.a.;

2. il giudice di primo grado ha respinto la domanda con statuizione confermata dalla Corte di appello di Napoli la quale ha premesso che:

a) la domanda dei lavoratori era fondata esclusivamente sull’allegazione di una vicenda traslativa ex art. 2112 c.c. per cui prive di pregio risultavano le ragioni di doglianza, formulate in sede di gravame, intese a porre a fondamento della pretesa (anche) l’accordo del 22.7.2011 stipulato tra le due società ai sensi dell’art. 47 l. n. 428/1990;

b) i licenziamenti in questione, comunicati ai lavoratori in data 14.9.2011, con differimento della relativa efficacia al 30.9.2011, non erano stati impugnati nel termine di decadenza ex art. 6 l. n. 604/1966;

c) il trasferimento di azienda stipulato il 26.9.2011 prevedeva un’efficacia differita al 1.10.2011. Sulla base di tali dati fattuali la Corte di merito ha quindi ritenuto che ben potevano le parti, nell’esercizio dell’autonomia privata, differire la efficacia del contratto di cessione di azienda ad un momento successivo alla stipula, non ostandovi il disposto dell’art. 1376 c.c.; la pattuizione con la quale le parti avevano inteso escludere dalla cessione di azienda i rapporti di lavoro della cedente di cui era prevista, in conseguenza degli intimati licenziamenti, la cessazione in data 30/9/2011, anche ove ritenuta nulla per contrasto a norma imperativa, risultava in concreto irrilevante atteso che l’operatività dell’art. 2112 c.c. richiedeva la sussistenza di un rapporto di lavoro valido ed efficace laddove al momento della stipula dell’accordo di cessione vi era già stata comunicazione del licenziamento che, stante la natura recettizia dell’atto, comportava il decorrere del termine di sessanta giorni per l’impugnazione; la mancata impugnativa del licenziamento nei confronti del Fallimento La S. s.r.l. non consentiva pertanto ai lavoratori di far valere la illegittimità del recesso e quindi invocare la continuità del rapporto di lavoro con la cessionaria C. s.r.l.;

3. per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso i lavoratori in epigrafe indicati sulla base di tre motivi; C. s.p.a. ha resistito con controricorso illustrato con memoria; il Fallimento La S. s.r.l. è rimasto intimato;

Considerato che

1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione degli artt. 1376, 2558, 2112 c.c. e dell’art. 1 direttiva 77/187/CEE modificata dalla Direttiva 98/50 CE e definitivamente sostituita la con Direttiva 2001/23 CE, censurando la sentenza impugnata per avere riconosciuto alle parti stipulanti il contratto di cessione di azienda di determinare <<arbitrariamente>> la data di decorrenza degli effetti della cessione, quanto alla posizione dei lavoratori della cedente; sostiene, infatti, che stante il carattere imperativo della disciplina comunitaria l’effetto traslativo doveva collegarsi, ai sensi dell’art. 1376 c.c., al momento della prestazione del consenso;

2. con il secondo motivo deduce ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. violazione o falsa applicazione di norme di diritto in riferimento agli artt. 1334, 2118 cc., agli artt. 3 e 24 l. n. 223/1991, all’ art. 2112 c.c., all’art. 3 n. 1 Direttiva 77/187/CEE modificata dalla Direttiva 98/50 CE e definitivamente sostituita con Direttiva 2001/23 CE, all’art. 6 l. n. 604/1966, all’art. 32 l. n. 183/2010, censurando la sentenza impugnata per avere considerato invalido e pertanto non trasferibile il rapporto di lavoro dei ricorrenti nonostante che la cessione di azienda fosse avvenuta in costanza del rapporto di lavoro e precisamente durante il periodo di preavviso; argomenta che la dichiarazione di recesso produce effetti solo alla fine del periodo di preavviso e sostiene che alla luce dell’evoluzione dell’art. 2112 c.c. la successione automatica ed indisponibile del rapporto di lavoro è fattispecie idonea ad interrompere “la sequenza procedimentale iniziata con le intimazione di licenziamento del 14.9.2021”;

3. con il terzo motivo deduce ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione di norme di diritto in riferimento agli artt. 414 e 437 c.p.c. censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto inammissibile, in quanto non formulata in prime cure, la domanda dei lavoratori intesa a far valere il loro diritto all’assunzione sulla base dell’accordo stipulato tra il Fallimento di La S. s.r.l. e C. s.r.l.;

4. il primo ed il secondo motivo di ricorso, trattati congiuntamente per connessione, sono infondati; assume, infatti rilievo assorbente, rispetto ad ogni ulteriore considerazione, la pacifica mancata impugnazione dei licenziamenti in oggetto nel prescritto termine di sessanta giorni ex art. 6 l. n. 604/1966 (Cass. n. 15678/2006) la quale ha determinato il << consolidarsi>> dell’effetto estintivo del rapporto di lavoro in epoca anteriore al verificarsi del trasferimento di azienda che le parti stipulanti hanno inteso differire, rispetto alla data di stipula (26/9/2011), comunque successiva all’intimazione dei licenziamenti, al 1 ottobre 2011, quando era interamente decorso il periodo di preavviso (in tema di necessità che il termine di preavviso si esaurisca e il rapporto si risolva prima del trasferimento dell’azienda, v. tra le altre, Cass. n. 4944/1998, Cass. n. 2245/1995);

è invero principio ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte che il licenziamento, quale negozio unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore, sicché la decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione del recesso opera dalla comunicazione del licenziamento e non dal momento, eventualmente successivo, di cessazione dell’efficacia del rapporto di lavoro (Cass. 24/3/2014, n. 6845, Cass. 3 aprile 2019, n. 9268);

è dunque priva di ogni fondamento la tesi difensiva dei lavoratori fondata sull’illegittimità del differimento degli effetti della cessione in pregiudizio delle loro ragioni, essendo dirimente il rilievo che il licenziamento è stato intimato prima della stipula della cessione e la sua mancata impugnazione ne ha consolidato gli effetti anche nei confronti del cessionario, posto che eventuali doglianze a riguardo avrebbero dovuto essere necessariamente veicolate in sede giudiziale mediante domanda di accertamento della illegittimità/nullità dei licenziamenti;

5. il terzo motivo di ricorso è inammissibile;

5.1. la Corte di merito ha ritenuto che gli odierni ricorrenti fossero incorsi nel divieto di novum in appello nella parte in cui avevano posto a fondamento della pretesa ad essere assunti presso la cessionaria C. s.r.l. l’accordo sindacale del luglio 2011, stipulato ai sensi dell’art. l. 47 l. n. 428 /1990;

5.2. l’affermazione non è validamente contrastata dagli odierni ricorrenti i quali, in violazione del principio di autosufficienza ex art. 366, comma 1 n. 6 c.p.c., omettono la trascrizione degli atti alla base della censure e comunque svolgono la loro difesa in termini generici e meramente contrappositivi alla qualificazione operata dal giudice di appello; tale modalità di articolazione della censura risulta intrinsecamente inidonea a dare contezza dell’errore in tesi ascritto al giudice di merito;

6. al rigetto del ricorso consegue il regolamento secondo soccombenza delle spese di lite e la condanna della parte ricorrente al raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art.13, comma quater d.p.r. n. 115/2002, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali; 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 7.600,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge”.