(Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)
Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 20 dicembre 2024, n. 33531.
Il radicale difetto di specificità della contestazione disciplinare è stato considerato equivalente all’ipotesi di insussistenza del fatto.
“[…] La Corte di Cassazione,
(omissis)
Rilevato che
1. La Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato da M. S.p.a. a A.P. e condannato la società alla reintegrazione del ricorrente ed al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, oltre che al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al medesimo periodo; il licenziamento era stato intimato sulla base di contestazione che ascriveva al dipendente la carente attività di supporto nei confronti della società alla quale M. s.p.a. aveva commissionato un importante software gestionale, di talché, alla data stabilita, tale software era risultato ben lontano dall’essere pronto per l’implementazione e l’utilizzo;
2. il giudice di appello ha convenuto con il giudice di primo grado sulla genericità della contestazione disciplinare, connotata dalla totale indeterminatezza delle condotte disciplinarmente rilevanti ascritte al A.P., e sul fatto che una contestazione generica, priva di indicazioni necessarie ed essenziali per individuare nella loro materialità il fatto o i fatti ritenuti disciplinarmente rilevanti dalla parte datoriale, tale da impedire in modo radicale l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore, equivaleva all’ipotesi di illegittimità del licenziamento per inesistenza dei fatti contestati, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria; ha ulteriormente osservato che anche qualora dovesse ritenersi, come sostenuto dalla società, che la contestazione era specifica, risultavano comunque generiche le circostanze capitolate dalla società nella richiesta di prova orale; ciò sia per difetto di collocamento temporale delle condotte, sia per difetto di elementi di riscontro del nesso di causalità tra le contestate, generiche, omissioni ascritte al dipendente e le disfunzioni del programma di implementazione poste a carico del Paoletti; infine, la Corte di merito ha respinto la eccezione di aliunde perceptum formulata dalla società in quanto sfornita da adeguate allegazioni di supporto, il cui onere ricadeva sull’eccipiente società;
3. per la cassazione della decisone ha proposto ricorso M. s.p.a. sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso; parte ricorrente ha depositato memoria;
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e. e dell’art. 7 I. n. 300/1970 nonché del principio di specificità della contestazione, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto generico il contenuto della lettera di addebito;
2. con il secondo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 e. nonché degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c. e dell’art. 5 I. n. 604/1966 censurando la sentenza impugnata per non avere la Corte d’appello ammesso la prova testimoniale articolata ed osserva che venendo in rilievo condotte omissive non poteva delle stesse pretendersi un’esaustiva prova documentale; denunzia contraddittorietà di motivazione richiamando il dictum della sentenza n. 13157 del 2016 di questa Corte, secondo la quale il giudice di merito non può mettere a carico della parte richiedente il mancato raggiungimento della prova, dopo avere rigettato la istanza relativa all’espletamento dei mezzi istruttori;
3. con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e/o falsa applicazione degli 2119 e 2118 e.e. e delle clausole generali della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto l’intimato licenziamento non sorretto da giusta causa; sostiene la idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario;
4. con il quarto motivo, in via subordinata, deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 4 d. lgs. n. 23/2015, censurando la sentenza impugnata in punto di individuazione della tutela applicabile; sostiene che la natura formale del vizio rilevato comportava l’applicazione della tutela indennitaria e non reintegratoria;
5. il primo motivo di ricorso è inammissibile;
5.1 come noto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. civ. deve essere dedotto a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie, diversamente impedendosi alla Corte di Cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione (v. tra le altre, Cass. 29/11/2016 n. 24298; Cass. 03/08/2007 5353; Cass. 17/05/2006 n. 11501);
5.2 le doglianze articolate non sono sviluppate in conform1ta della richiamata giurisprudenza posto che parte ricorrente omette la indicazione delle affermazioni in diritto della sentenza impugnata – in concreto comunque non riscontrabili – da reputarsi in contrasto con la comune interpretazione dell’art. 7 St. lav. in punto di necessaria specificità del contenuto della contestazione di addebito; ciò che viene censurata, peraltro sulla base di un apprezzamento meramente contrappositivo a quello fatto proprio dal giudice di secondo grado, è infatti la concreta valutazione del giudice di merito, di non rispondenza della lettera di contestazione all’indispensabile canone di specificità, accertamento comunque non più in questa sede rivedibile ex art. 348 ter ultimo comma c.p.c. in quanto sorretto da < <doppia conforme>> ( v. sul punto lo storico di lite della sentenza impugnata, pag. 4), non avendo parte ricorrente le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, come suo onere (Cass. n. 5947/2023 Cass. n. 26774/ 2019, Cass. n. 19001/2016, Cass. n. 5528/2014);
5.3 la ricognizione dei contenuti espressi in una lettera di contestazione disciplinare, l’apprezzamento in ordine al rispetto del canone della specificità della contestazione, la valutazione della corrispondenza dei fatti addebitati rispetto a quelli che sono posti a fondamento del licenziamento, rappresentano infatti operazione ermeneutiche riservate al giudice del merito ( Cass. n. 7546/2006) la cui valutazione è sindacabile in cassazione solo mediante precisa censura, senza limitarsi a prospettare una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata ( Cass., n. 13667/2018)
6. il secondo motivo è inammissibile;
6.1 la sentenza impugnata ha affermato che le prove richieste, anche ove ammesse, non sarebbero state in grado di confermare la sussistenza dei fatti contestati e la responsabilità disciplinare del Paoletti in quanto, da un lato, le informazioni che il dipendente avrebbe dovuto rappresentare alla società incaricata della realizzazione del software gestionale erano indicate in modo generico, senza preciso collocamento temporale, dall’altro, non vi era riscontro del nesso di causalità tra le generiche omissioni configurate a carico del dipendente e le disfunzioni del programma (quali il mancato abbinamento, caricamento di ordini di vendita ecc. ); secondo il giudice di secondo grado le omissioni poste a carico del Paoletti avrebbero dovuto essere identificate in modo rigoroso tanto più in presenza di attività svolta in equipe ( v. sentenza pag. 12 e 13) mentre nessun capitolo di prova era stato formulato in modo da ricondurre le singole anomalie riscontrate a specifiche manchevolezze imputabili al Paoletti anziché ai soggetti esterni tenuti a garantire l’efficace funzionamento del programma ;
6.2 le censure formulate da parte ricorrente si limitano a prospettare un mero dissenso valutativo rispetto all’apprezzamento del giudice di merito circa la inidoneità della prova articolata a fondare la responsabilità disciplinare del lavoratore; tale dissenso risulta quindi intrinsecamente inidoneo a dare contezza dell’errore ascritto in tesi alla Corte di merito, dovendo ulteriormente considerarsi che il giudizio sulla superfluità genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico (Cass. 34189/2022, Cass. n. 18222/2004), in concreto non denunziati e comunque non ravvisabili;
7. il terzo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di pertinenza delle doglianze formulate con le ragioni alla base della sentenza impugnata; parte ricorrente non si confronta con l’affermazione del giudice di secondo grado secondo il quale la genericità di contestazione non consentiva neppure la individuazione delle concrete condotte ascrivibili al dipendente, accertamento quest’ultimo necessariamente prodromico alla verifica della sussumibilità delle stesse nell’ambito della clausola generale della giusta causa ex art. 2119 e.e. o del giustificato motivo soggettivo ;
8. il quarto motivo di ricorso è infondato;
8.1 la sentenza impugnata ha ritenuto che il riscontrato difetto di specificità della contestazione, tale da impedire in modo radicale l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore, equivaleva alla ipotesi di illegittimità del licenziamento per inesistenza dei fatti contestati, sanzionata con la reintegrazione (sentenza, pag. 10); ha quindi osservato che, anche a voler seguire la tesi della società secondo la quale una volta provata dalla parte datoriale la sussistenza della giusta causa di licenziamento la declaratoria di illegittimità del recesso, comportava la applicazione della sola tutela indennitaria, nello specifico la carenza di deduzione e la inidoneità delle circostanze capitolate al fine della prova orale e la connessa, assoluta mancanza di prova del fatto oggetto di addebito determinavano la insussistenza dei fatti contestati (sentenza, pag. 12 e sg.) e quindi, ai sensi dell’art. 3 comma 2 d. lgs n. 23/2015, l’applicazione della sanzione ivi contemplata;
8.1 tanto premesso, al fine della individuazione della tutela applicabile, risulta dirimente la considerazione che, stante le accertate carenza di deduzione e inidoneità delle circostanze capitolate dalla società, non è stata offerta prova, della quale era onerata la parte datoriale, del fatto oggetto di addebito, di talché, sotto questo profilo, la concreta fattispecie ricade nell’ambito regolato dall’art.3, comma 2 d. lgs n. 23/2015 implicante l’applicazione della tutela reintegratoria;
8.2 in concorrente prospettiva può inoltre soggiungersi che correttamente, sul piano della selezione delle tutele, il radicale difetto di specificità della contestazione è stato considerato equivalente all’ipotesi di < <insussistenza del fatto>>; la decisione è sul punto conforme alla giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto di limitare la verifica della legittimità della sanzione ai soli fatti specificamente contestati, senza tener conto di quelli genericamente indicati (Cass. n. 19632/2018);
9. al rigetto del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali ed pagamento, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali, dell’ulteriore importo del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma quater p.r. n. 115/2002;
10. non si ravvisano le condizioni per l’accoglimento della richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c. alla luce del principio per cui la liquidazione del danno da responsabilità processuale aggravata, ex art. 96 c.p.c., postula che la parte istante abbia quantomeno assolto l’onere di allegare gli elementi di fatto, desumibili dagli atti di causa, necessari ad identificarne concretamente l’esistenza ed idonei a consentire al giudice la relativa liquidazione, anche se equitativa (Cass., n. 15175/2923, Cass.,n.27383/2005); parte controricorrente, viceversa, si e limitata al mero richiamo della vicenda processuale alla quale ha inteso conferire un connotato ingiustificatamente persecutorio nei confronti del lavoratore; tanto non è sufficiente a configurare una responsabilità aggravata a carico della parte ricorrente in quanto secondo il giudice di legittimità il presupposto della mala fede o colpa grave, a tal fine richiesto, deve intendersi quale espressione di scopi o intendimenti abusivi, ossia strumentali o comunque eccedenti la normale funzione del processo (Cass., n. 36591/2023, Cass. n. 19948/2023), elementi questi in concreto non ravvisabili al di là della personale valutazione della parte controricorrente;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso […]”.
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