(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 12 aprile 2024 n. 9937.

“In caso di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica, la violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione”;

“in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la ‘insussistenza dei fatto’ (fatto da intendersi- nella giurisprudenza consolidata- comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore) va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso; inoltre, con la sentenza n. 59 del 2021, era già stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, un potere discrezionale del giudice in ordine all’applicazione della tutela reale”.

“[…] La Corte di Cassazione

(omissis)

Rilevato che

1. la Corte di Appello di Reggio Calabria, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di prime cure con cui era stata accertata l’illegittimità del licenziamento intimato a in data 8 aprile 2015, “per ritenuta inidoneità fisica”, con condanna di (…) Spa, ai sensi del comma 4 dell’art. 18 S.d.L. novellato dalla legge richiamata, a reintegrarlo nel posto di lavoro nonché a risarcirgli il danno pagando un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, nella misura di dodici mensilità, oltre accessori e rivalutazione monetaria e versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;

2. la Corte, in estrema sintesi e per quanto qui rileva, ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto “indimostrata l’impossibilità di repechage di ZZ ha rammentato l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità secondo il quale “deve ritenersi che sul lavoratore non grava alcun onere di indicare nel ricorso le posizioni alternative cui avrebbe potuto venire adibito”; ha poi argomentato: “ne deriva che l’onere datoriale di provare l’impossibilità del repechage, in quanto concernente un fatto negativo, potrà essere assolto non già sfruttando la mancata indicazione da parte del lavoratore, ma solo mediante la prova (presuntiva) che <tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento e che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni>”; ha, quindi, affermato: “una prova con siffatti contenuti anche nel presente giudizio non è stata offerta da YY 

3. circa la tutela conseguenziale, la Corte ha respinto il gravame della società indicando il precedente di legittimità secondo cui “la violazione dell’obbligo di repechege del lavoratore in mansioni per le quali non sussista inidoneità fisica e quindi compatibili con le sue condizioni di salute è sanzionato con la tutela reintegratoria prevista dalla legge n. 92 del 2012 (cfr. soprattutto in motivazione Cass. n. 26675 del 2018)”;

4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società, con tre motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;

parte ricorrente ha comunicato memoria;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

Considerato che 

1. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati;

1.1. il primo deduce: “violazione – ex art. 360, n. 3, c.p.c. – degli artt. 115 e 116, in ordine alla libertà dei mezzi di prova, nonché dell’art. 421, co. 2. c.p.c. in ordine ai poteri istruttori del giudice del lavoro, relativamente alla dimostrazione della insussistenza di posizioni lavorative disponibili”; ci si duole che la Corte territoriale abbia rifiutato l’ammissione della prova testimoniale in ordine alla indisponibilità di utili posizioni lavorative quale Ausiliario Uffici;

1.2. il secondo motivo denuncia: “violazione – ex art. 360, n. 3, c.p.c. – dell’art. 244 c.p.c., in ordine al modo di deduzione della prova in ordine alla insussistenza di posizioni lavorative disponibili con riferimento alla qualifica di Ausiliario Uffici”; si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto generico il capitolato articolato;

1.3. col terzo mezzo si denuncia la violazione dell’art. 18, commi 4, 5 e 7, St. Lav., “in ordine all’applicazione della tutela reintegrato ria conseguente alla ritenuta illegittimità del licenziamento”; si sostiene che nel caso di violazione dell’obbligo di repechage la tutela che può essere riconosciuta è quella indennitaria del comma 5 dell’art. 18 novellato;

2. i primi due motivi di ricorso, da valutarsi congiuntamente per connessione, non meritano accoglimento;

parte ricorrente trascura di considerare che, come riportato nello storico della lite, la Corte territoriale ha ricordato che, in punto di repechage, grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova che “tutti i posti di lavoro erano stabilmente occupati al momento del licenziamento” ma anche “che, dopo di esso e per un congruo periodo di tempo, non sono state effettuate assunzioni”; ha, quindi, argomentato che: “una prova con siffatti contenuti anche nel presente giudizio non è stata offerta da (…); chi ricorre non censura adeguatamente tale affermazione, riportando nei motivi i contenuti degli atti processuali dai quali evincere che era stato allegato e provato (o richiesto di provare) che dopo i licenziamento del (…) non erano state effettuate assunzioni da (…) ma si limita a contestare il mancato espletamento della prova sulla circostanza che la società non aveva, al tempo del licenziamento, posizioni lavorative disponibili con riferimento alla qualifica di Ausiliario Uffici; come noto, per risalente insegnamento di questa Corte, la mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011 più di recente Cass. 16214 del 2019); inoltre spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti – senza che possa neanche essere invocata la lesione dell’art. 6, primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo al fine di censurare l’ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) – con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);

nella specie, per il ragionamento espresso dalla Corte territoriale, risulta evidente che la prova non ammessa non poteva avere alcuna incidenza realmente decisiva sull’esito della lite;

3. privo di fondamento è il terzo motivo di ricorso;

anche a non voler considerare che, nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli (Cass. n. 6497 del 2021), la sentenza impugnata è dichiaratamente conforme al principio secondo cui, in caso di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica, la violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione (Cass. n. 26675 del 2018);

più in generale vale comunque che, con la sentenza n. 125 del 2022, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della l. n. 92 del 2012, limitatamente alla parola «manifesta», con la conseguenza che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la “insussistenza dei fatto” – fatto da intendersi nella giurisprudenza consolidata di questa Corte inaugurata da Cass. n. 10435 del 2018 comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore – va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso; inoltre, con la sentenza n. 59 del 2021, era già stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, un potere discrezionale del giudice in ordine all’applicazione della tutela reale (cfr. Cass. n. 16975 del 2022; Cass. n. 30167 del 2022; Cass. n. 34049 del 2022; Cass. n. 34051 del 2022; Cass. n. 35496 del 2022; Cass. n. 36956 del 2022; Cass. n. 37949 del 2022; Cass. n. 38183 del 2022; Cass. n. 1299 del 2023);

4. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con le spese regolate dalla soccombenza e attribuite al procuratore del controricorrente che si è dichiarato anticipatario;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso […]”.