Licenziamento: non sono vincolanti le condotte tipizzate dal CCNL
Cassazione, sentenza n. 33811/2021Licenziamento: non sono vincolanti le condotte tipizzate dal CCNL.
Nota di Luigi Verde
1.La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 12 novembre 2021, n. 33811, ha affermato che il giudice non è vincolato dalle condotte tipizzate nel CCNL ai fini della valutazione del recesso del datore di lavoro.
Dopo aver accertato la sussistenza di una causa giustificativa del licenziamento, il giudice è tenuto infatti a valutare concretamente il fatto e la sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro.
2.La Corte di Cassazione ha statuito che anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, dev’essere effettuato in ogni caso un accertamento in concreto che prenda in considerazione la gravità del comportamento e la proporzionalità tra lo stesso e la sanzione espulsiva irrogata.
In un caso di licenziamento disciplinare per ripetuti episodi di negligenza di una lavoratrice, la Corte, dopo aver accuratamente riassunto, per respingere censure formali, lo stato dell’arte della giurisprudenza in materia d’interpretazione dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1070), ha rilevato, nel merito della sanzione disciplinare, che i giudici dell’appello avevano dichiarato legittimo il licenziamento sulla sola considerazione che il comportamento contestato era previsto dal codice disciplinare come riconducibile alle ipotesi di licenziamento. In proposito, viceversa, la Cassazione ha richiamato la propria giurisprudenza, secondo la quale le previsioni di licenziamento nel codice disciplinare non sono vincolanti in senso sfavorevole al lavoratore. Il giudice, infatti, deve per legge altresì valutare la gravità in concreto del comportamento censurato, nei suoi profili oggettivi e soggettivi, nonché la proporzionalità della sanzione espulsiva applicata.
La Corte, infatti, ha già affermato che “in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Cass. n. 17321/2020; Cass. 16784/2020)”.
La Cassazione ha pertanto ribadito che il giudice non è vincolato dalle condotte tipizzate nel CCNL ai fini della valutazione del recesso del datore di lavoro. Nello specifico, la Suprema Corte ha chiarito che -dopo aver accertato la sussistenza di una causa giustificativa del licenziamento- il giudice è tenuto a valutare concretamente il fatto e la sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro. È sempre necessario pertanto valutare la gravità in concreto di un comportamento riconducibile, nel CCNL, a un’ipotesi di licenziamento disciplinare.
3. Dal testo della sentenza n. 33811/2021.
[…] Fatti di causa.
1.Con la sentenza n. 381/2019 la Corte di appello di Firenze ha respinto il reclamo proposto da [una lavoratrice] nei confronti di [una Società] avverso la pronuncia n. 259/2019 emessa dal Tribunale di Lucca, all’esito del giudizio di opposizione ex lege n. 92 del 2012, con la quale era stato ritenuto legittimo il licenziamento intimato il 22.6.2016 dalla società, escludendo di conseguenza la denunciata natura ritorsiva dello stesso.
2.Il recesso era stato disposto a seguito di contestazione disciplinare avente ad oggetto un episodio di negligenza sul lavoro avvenuto il 7.5.2016 (omessa stampa di tutti i fogli con l’elenco dei dispositivi immessi nel carico per la sterilizzazione, mancata validazione nell’apposito riquadro, con conseguente mancato controllo del carico dell’autoclave) unitamente alla recidiva per precedenti sanzioni disciplinari per altri fatti di negligenza sul lavoro avvenuti il 23.3.2016 e il 29.3.2016, puniti rispettivamente con uno o più giorni di sospensione).
3.A fondamento della decisione la Corte territoriale ha rilevato che: 1) era stato dimostrato, attraverso la espletata prova testimoniale, che nella apposita bacheca era stata affissa la copia del CCNL nel quale era inserito il codice disciplinare; 2) i fatti oggetto di addebito del 23 e del 29 marzo 2016, con le relative sanzioni conservative applicate, dovevano ritenersi provate; 3) il licenziamento era da considerarsi legittimo non in base alla sola vicenda del 7.5.2016, ma come licenziamento per recidiva secondo la previsione del CCNL ex art. 79 lett. e) per gli episodi del marzo 2016, risultando irrilevanti gli altri relativi ad ulteriori infrazioni disciplinari precedenti; 4) la ritenuta legittimità del licenziamento escludeva successivamente la ritorsività dello stesso.
4.Per la cassazione ha proposto ricorso […] affidato a sei motivi cui ha resistito con controricorso la Società […].
5.La ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.I motivi possono essere così sintetizzati.
2.Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione e interpretazione dell’art. 7 legge n. 300 del 1970 (e della previsione di cui all’art. 78 del CCNL Lavanderie Industriali), l’omessa considerazione ed applicazione dei principi stabiliti in sede di legittimità in materia di equipollenza di qualsiasi altra forma di pubblicità del Codice disciplinare che fosse diversa dalla affissione; il difetto di qualsiasi legittimo, valido ed efficace esercizio del potere disciplinare da parte datoriale, ex artt. 2106 cc e art. 7 legge n. 300 del 1970 e conseguente nullità di qualsiasi sanzione irrogata, in difetto di prova di alcuna preventiva affissione del codice disciplinare in azienda quanto meno alla data del 26.3.2016; denuncia, poi, la violazione/errata/omessa applicazione della previsione del comma 1 e 2 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
3.Con il secondo motivo si censura, ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e/o falsa applicazione della fondamentale regola generale sull’onere della prova, ex art. 2697 cc nonché dell’art. 115 co. 1 cpc, in ipotesi di insanabile contrasto oggettivo, tra difformi deposizioni testimoniali, gravando in capo al datore di lavoro l’onere di provare l’avvenuta precedente ed ininterrotta affissione del Codice disciplinare e comunque che essa fosse stata in atto al momento della commissione della prima infrazione contestata per la quale era stato poi intimato il recesso per giustificato motivo soggettivo.
4.Con il terzo motivo, ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione della norma di cui all’art. 2119 cc nonché dell’art. 3 legge n. 604/1966, per errata sussunzione dei fatti di causa in seno al paradigma della giusta causa piuttosto che del giustificato motivo di recesso essendo stato il licenziamento intimato con preavviso; si duole, altresì, della violazione e/o falsa applicazione della norma di cui all’art. 2106 cc per omessa, errata e comunque arbitraria valutazione della gravità della condotta di essa ricorrente ai fini della importanza dell’inadempimento. Deduce l’omesso/errato/arbitrario uso, da parte della Corte di appello, del criterio della proporzionalità tra sanzione e infrazione e della valutazione comparativa tra condotta contestata e sanzione massima prevista ed applicata; la disapplicazione del principio di non vincolatività del CCNL ai fini della concretizzazione delle nozioni/categorie legali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo; l’omessa/errata/arbitraria valutazione del parametro della soglia di disvalore delle singole condotte prese in considerazione ai fini disciplinari come individuato dalla Autonomia collettiva (artt. 78 e 79 del CCNL Lavanderie Industriali); la violazione/errata/omessa considerazione delle previsioni di cui all’art. 18 legge n. 300 del 1970 e, in specie, del comma 4; l’omessa considerazione della elaborazione giurisprudenziale di legittimità circa il necessario requisito della sussistenza giuridica e della indispensabile antigiuridicità del fatto ancorché esso risulti esistente sotto il profilo materiale; l’omessa e comunque arbitraria e non corretta applicazione delle regole di giudizio – indiziarie e presuntive- di cui agli artt. 2727 e 2729 cc; l’omessa considerazione dell’elaborazione giurisprudenziale sulla non vincolatività delle previsioni tipizzate dal CCNL (art. 77 e 79) al fine della congruità e proporzione della sanzione prevista rispetto alla inadempienza tipizzata; la violazione dell’art. 2106 cc, per omesso giudizio di proporzionalità necessario, secondo la gravità dell’infrazione ed errata/omessa applicazione delle specifiche regole ed elementi, oggettivi-soggettivi, da rispettare in ogni caso di valutazione del singolo comportamento inadempiente ascrivibile al dipendente al fine della contestazione dell’addebito e della adozione della conseguente sanzione disciplinare.
5.Con il quarto motivo la ricorrente lamenta: la violazione e/o falsa applicazione della norma contrattuale disciplinante il ricorso alla recidiva, di cui all’art. 77 CCNL di categoria sia per la contestazione e per la gravità dell’addebito, sia quale fatto prodromico e costitutivo del definitivo recesso del rapporto; la violazione delle regole e del principio che vieta di potersi tenere conto comportamenti risalenti nel tempo e comunque oltre il biennio a ritroso; l’omessa attuazione delle regole statuite dalla giurisprudenza sul punto, laddove la recidiva costituisca sostrato e presupposto (unico ancorché apparente) fondante il recesso; l’omessa valutazione, nella sentenza gravata, in ordine alla sussistenza in concreto della giusta causa e/o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, risultando il giudizio di proporzionalità frutto di una pura e semplice -oltre che automatica e acritica- applicazione della norma collettiva di riferimento datoriale (art. 79 CCNL); la violazione dell’art. 2119 cc e dell’art. 3 legge n. 604/1966 per difetto dei requisiti di verifica della correttezza dell’attività ermeneutica volta a ricostruire la portata precettiva della fattispecie di “recesso per recidiva” e di sussistenza del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa (paradigmatica del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa di recesso); la violazione dei principi posti dalla giurisprudenza di legittimità, sul punto, che la Corte territoriale ha disatteso, senza addurre validi elementi; l’errore nella configurazione in astratto di qualsiasi automatismo nella irrogazione di sanzioni disciplinari, specie per il licenziamento, permanendo sempre -anche in presenza di previsione Collettiva- il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione; la violazione e/o falsa applicazione dei principi di inderogabilità della disciplina dei licenziamenti e della previsione di conformità alla nozione legale di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo; la violazione del principio generale di ragionevolezza e proporzionalità (art. 2106 cc), necessario in relazione alla verifica, in concreto, degli indici che lo caratterizzano e della inconsistente rilevanza giuridico/fattuale e disciplinare dell’ultima mancanza del 7.5.2016 contestata da essa ricorrente; l’omessa valutazione della ineludibilità della applicazione, al caso di specie, di sanzioni conservative piuttosto che di quella espulsiva in virtù del principio di non vincolatività delle previsioni del CCNL; la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970; il difetto di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella gravata sentenza in contrasto con le norme regolatrici della singolare fattispecie e con i principi giurisprudenziali di legittimità.
6.Con il quinto motivo si obietta, ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc, il difetto grave di correttezza giuridica, di conseguenza- coerenza logico/formale e di completezza che affligge la gravata sentenza nella sussunzione dei fatti alle norme applicabili e nelle conseguenze ad essa correlate sotto il profilo della corretta applicazione delle regole decisorie in presenza di paradigma di licenziamento attuato con finalità ritorsiva/punitiva oltre che discriminatorio; la violazione e falsa/omessa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cc per non uso dei meccanismi presuntivi e del giudizio di verosimiglianza al fine di considerare l’unico motivo determinate e fondante il recesso e cioè quello, effettivo e di fatto, sotteso al “paravento” del recesso per recidiva, della ritorsività/punitività e sostanziale discriminazione della posizione lavorativa di essa ricorrente; la violazione e falsa applicazione della regola dell’art. 18 commi 1 e 2 legge n. 300 del 1970 e del diritto alle conseguenze reintegratorie piene in caso di recesso attuato per un motivo illecito determinante; la manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze; la motivazione incoerente ed il contrasto motivazionale irriducibile tra affermazioni inconciliabili.
7.Con il sesto motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 1 e 5 cpc, si eccepisce: l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e per non corretta applicazione della norma (art. 2727 e 2729 cc in relazione all’art. 18 commi 1 e 2 legge n. 300 del 1970) entro cui è stata sussunta la fattispecie concreta; la manifesta infondatezza ed incongruenza motivazionale del percorso logico-giuridico che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze; la motivazione incoerente e contraddittoria oltre che afflitta da affermazioni inconciliabili; l’omesso esame della circostanza “proporzionalità” della massima sanzione disciplinare adottata rispetto all’addebito formulato che non è stato oggetto di alcun vaglio da parte della Corte territoriale; l’anomalia motivazionale, che risultava dal testo della sentenza e che si tramutava in violazione di legge costituzionalmente rilevante, attinente alla esistenza della motivazione in sé.
8.Il primo motivo è infondato.
9.Appare opportuno, preliminarmente, tratteggiare una breve ricostruzione giuridica dell’istituto del “Codice disciplinare”, ponendo l’accento in particolare sul suo contenuto, sugli oneri pubblicitari imposti per lo stesso nonché sulle sue finalità principali, al fine di verificare la correttezza della statuizione della Corte territoriale che ha ritenuto equipollente la affissione dell’intero contratto collettivo.
10.In primo luogo, va sottolineato che, al fine del rispetto dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, il codice disciplinare aziendale non deve necessariamente contenere un’analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e, in relazione alla loro gravità, delle corrispondenti sanzioni, secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale, essendo sufficiente per la sua validità che esso sia redatto in forma che renda chiare le ipotesi di infrazioni, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e che indichi le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze (Cass. n. 7370/1996; Cass. n. 4219/1991).
11.In secondo luogo, occorre precisare che la previa pubblicità del cosiddetto codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti i lavoratori, prescritta dall’art. 7 primo comma della legge 20 maggio 1970 n. 300, è richiesta soltanto ai fini del licenziamento intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo espressamente previste e così sanzionate dalla normativa collettiva o da quella unilateralmente posta dal datore di lavoro nei casi in cui ciò è consentito, e non anche quando il recesso sia fondato su ragioni giustificative previste unicamente e direttamente dalla legge (ex plurimis Cass. n. 307/1996; Cass. n. 9102/1991).
12.Si è consolidato in dottrina e in giurisprudenza il principio secondo cui la pubblicità mediante affissione del Codice disciplinare in luogo accessibile ai lavoratori costituisca un elemento essenziale del potere disciplinare, non potendosi giudicare equipollenti mezzi diversi di comunicazione che abbiano come destinatari lavoratori considerati individualmente. (Cass. n. 1208/1988; Cass. n. 1861/1990).
13.In conseguenza di ciò, il mancato rispetto di tale onere pubblicitario da parte del datore di lavoro determina la nullità della sanzione irrogata (Cass. n. 5222/1987), non suscettibile di sanatoria nemmeno con la prova dell’avvenuta conoscenza tramite altri mezzi da parte del lavoratore ed essendo altresì preclusa la possibilità di reiterazione della sanzione a seguito dell’attivazione di un nuovo procedimento disciplinare avente ad oggetto il medesimo fatto precedentemente contestato.
14. Ai fini dell’osservanza del predetto onere, è stato affermato che esso possa essere considerato assolto soltanto ove l’affissione sia realizzata in luogo idoneo a garantire la reale ed effettiva conoscibilità del Codice ai lavoratori, essendo pertanto necessario che la pubblicazione avvenga nel luogo di lavoro e non altrove (Cass. n. 692/1989; Cass. n. 1640/1990). Si è, poi, ritenuto che sia necessario che l’affissione avvenga non solo in un luogo ordinariamente accessibile a tutti i dipendenti, ma anche che tale luogo risulti di comune e frequente transito da parte degli stessi.
15. Conseguentemente, è stato escluso che possa considerarsi adempiuto adeguatamente tale onere qualora i luoghi prescelti per l’affissione siano privi dei requisiti pocanzi delineati.
16.Nel corso del tempo si è, peraltro, sempre più diffusa un’interpretazione elastica e non formalistica dell’onere della pubblicazione del Codice disciplinare, secondo cui l’onere in oggetto può considerarsi ritualmente soddisfatto anche mediante affissione dell’intero contratto collettivo in cui è contenuto il Codice, non essendo necessaria la preventiva estrapolazione e la successiva esposizione delle singole clausole contrattuali contenenti la normativa disciplinare.
17.In tal caso si è ritenuto che sia ritualmente osservato l’onere pubblicitario imposto al datore di lavoro, il quale sarebbe dispensato dall’affissione di ogni singolo foglio del Codice disciplinare.
18. Invero, il precetto dell’art. 7, primo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300, concernente l’affissione in luogo accessibile a tutti delle norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni ed alle procedure di contestazione delle stesse, è soddisfatto – realizzandosi in entrambi i casi l’esigenza di una più agevole conoscibilità del potere punitivo del datore di lavoro e dei relativi limiti – sia quando le norme disciplinari siano affisse come tali, avulse dal contratto che le contiene, sia quando sia affisso il contratto che contiene le stesse norme (Cass. n. 3721/1986).
19. Anche relativamente alle modalità temporali dell’affissione possono enuclearsi in dottrina ed in giurisprudenza due impostazioni: da un lato, quella più rigorosa che sostiene che l’affissione debba perdurare senza soluzione di continuità anche in un momento successivo al compimento dell’infrazione da parte del lavoratore, dal momento che non perde rilevanza l’interesse del lavoratore a prendere visione della normativa disciplinare e non essendo, peraltro, previsto alcun termine decorso il quale si attenua la funzione pubblicitaria del codice disciplinare; dall’altro, la posizione meno formalista che ritiene che, ai fini del corretto e legittimo esercizio del potere disciplinare, è sufficiente che la normativa disciplinare risulti affissa in un luogo accessibile ai lavoratori nel momento in cui il lavoratore pone in essere il fatto contestato. Questa seconda impostazione si fonda sulla constatazione secondo cui sarebbe incongruo ed eccessivo rispetto alla ratio dell’art. 7 I. 300/1970 imporre che l’affissione debba persistere anche in un momento successivo alla violazione compiuta dal dipendente.
20. In considerazione dei principi sopra esposti, può quindi affermarsi che, qualora l’affissione dell’intero contratto collettivo osservi tutti i requisiti sopra detti (contenutistici, ubicazionali, temporali e finalistici), deve ritenersi mezzo equipollente di pubblicità del codice disciplinare.
21.Ciò premesso, nella fattispecie la Corte territoriale, attraverso l’esame delle deposizioni dei testi Balsamo, Semino ed Ulivi e superando anche profili di contraddittorietà con le dichiarazioni di altri testi, con un accertamento in fatto che si sottrae al sindacato di legittimità perché sufficientemente motivato, ha ritenuto che era stata fornita la prova dell’affissione, in luogo idoneo, dell’intero contratto collettivo, comprensivo del codice disciplinare, e che tale affissione c’era sempre stata e, quindi, tale statuizione resiste alle censure formulate in diritto dal ricorrente.
22. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
23.La censura, articolata nei termini di una violazione di legge, mira in realtà ad una nuova valutazione delle risultanze probatorie, risultando insindacabile l’apprezzamento compiuto dal giudice in ordine all’esito della prova, purché esso sia congruamente ed adeguatamente motivato.
24. Inoltre, non si rileva alcuna violazione della regola dell’onere della prova prevista dall’art. 2697 c.c., che si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, circostanza che non ricorre nel caso oggetto di giudizio. Tale inosservanza ricorre, infatti, allorquando il giudice abbia attribuito l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
25. Non è altresì ravvisabile alcuna inosservanza della previsione di cui all’art. 115 cpc per ipotesi di insanabile contrasto oggettivo tra difformi deposizioni testimoniali.
26. Invero, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., bisogna denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia conferito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dalla previsione di cui all’art. 116 cpc. (Cass. n. 11892/2016; Cass. n. 26769/2018; Cass. sez. un. 20867/2020).
27. Quindi, la violazione dell’art. 115 c.p.c. come vizio di legittimità può prospettarsi non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due ulteriori profili: da un lato, qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza ovvero, quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale.
28.Nel caso di specie, invece, il ricorrente richiede un nuovo apprezzamento delle risultanze probatorie rispetto a quello compiuto dal Giudice di merito, lamentandone una pretesa erronea valutazione.
29. I motivi tre, quattro, cinque e sei possono trattarsi congiuntamente, risultando connessi.
30. Essi presentano motivi di inammissibilità in relazione a tutte le censure dirette ad ottenere una diversa ricostruzione della vicenda in fatto (dimostrazione dei fatti oggetto di addebito, irrogazione delle precedenti sanzioni conservative e sussistenza della recidiva), insindacabile in sede di legittimità, ovvero finalizzate a criticare la sussunzione della fattispecie del recesso in quella del giustificato motivo soggettivo anziché in quella della giusta causa, essendo pacifico che, al di là dei richiami giurisprudenziali svolti nella gravata pronuncia, il licenziamento era stato intimato con preavviso.
31. Risultano, altresì, inammissibili le doglianze attinenti alla presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c.
32. Le predette violazioni, infatti, ricorrono allorquando il giudice di merito, dopo aver qualificato gli indizi raccolti come gravi precisi e concordanti, non li ritenga inidonei a fornire la prova presuntiva, oppure, al contrario, sebbene li abbia reputati privi dei requisiti previsti dall’art. 2729 c.c., li consideri comunque sufficienti a dimostrare il fatto controverso. (Cass. n. 29635/2018; Cass. n. 3541/2020).
33.Pertanto, affinché possa essere correttamente censurata l’applicazione dell’art. 2729 c.c., è necessario che la censura verta sull’insussistenza dei requisiti della presunzione nel ragionamento condotto nella sentenza impugnata, mentre non può contenere argomentazioni atte a ad indebolirne l’attendibilità mediante la critica della ricostruzione del fatto o l’utilizzazione di altri ed ulteriori fatti storici non risultanti dalla motivazione. (Cass. n. 1163/2020; Cass. n. 18611/2021).
34.I quattro motivi sono invece fondati e meritano accoglimento in relazione alla doglianza vertente sulla mancata valutazione di gravità e proporzionalità del fatto unitariamente inteso da cui è discesa l’irrogazione della sanzione espulsiva da parte della società datrice (episodio del 7.5.2016 con la contestata recidiva).
35.Occorre preliminarmente sottolineare che nell’ambito dei rapporti tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento di licenziamenti ontologicamente disciplinari la contrattazione collettiva non è una fonte vincolante in senso sfavorevole per il dipendente.
36. Anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare (nel caso de quo fattispecie ex art. 79 CCNL), stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, deve essere effettuato in ogni caso un accertamento in concreto che prenda in considerazione la gravità del comportamento e la proporzionalità tra lo stesso e la sanzione espulsiva irrogata.
37. Questa Corte, infatti, ha affermato che, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Cass. n. 17321/2020; Cass. 16784/2020).
38. Questo duplice ed articolato accertamento è stato, invece, omesso dalla Corte territoriale, essendosi quest’ultima soltanto limitata ad accertare e concludere che il fatto contestato alla lavoratrice rientrasse nella previsione dell’art. 79 del CCNL, che prevede la più grave sanzione a fronte della recidiva.
39. Era necessario, pertanto, che i giudici di seconde cure, dopo aver accertato la sussistenza di una causa giustificativa del recesso, completassero l’iter logico-giuridico avente ad oggetto la valutazione di gravità in concreto del fatto e la sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore.
40. Alla stregua di quanto sopra esposto, vanno accolti il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo per quanto di ragione; rigettato il primo ed inammissibile il secondo; la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione che procederà ad un nuovo esame attenendosi ai principi sopra richiamati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo per quanto di ragione, rigettato il primo ed inammissibile il secondo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità […]”
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