(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 1476, depositata il 15 gennaio 2024.

1.In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro

Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza 1476 del 15 gennaio 2024), l’entità modesta del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro; occorre invece  valutare la condotta del lavoratore dal punto di vista sintomatico che può assumere rispetto ai suoi comportamenti futuri e che può incidere sulla fiducia, elemento essenziale nel rapporto di lavoro.

Una condotta che “manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standard conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale”, che non consentono la sottrazione di beni aziendali mediante comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto. È irrilevante, secondo la S.C., l’apparente tolleranza da parte del datore di lavoro, senza alcuna autorizzazione esplicita o implicita, perché ad essere messo in discussione è il dovere del lavoratore di non tenere comportamenti che possano ledere il vincolo di fiducia tra le parti.

La Corte ha in tal modo  confermato il licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva sottratto dal luogo di lavoro, in modo illegittimo e reiterato, dei generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro.

2.” […] Corte di Cassazione

[…]

RILEVATO CHE

1. La Corte di appello di Napoli, con la sentenza n. 1630/2020, ha confermato la pronuncia emessa, in sede di opposizione ex lege n. 92/2012, dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la quale era stata respinta l’impugnativa del licenziamento intimato l’11.1.2018 dalla Casa di Cura “S. Michele” srl al dipendente M.C., con qualifica di cuoco, per avere portato via, in una borsa di plastica e senza alcuna autorizzazione, all’esterno del locale dove svolgeva il proprio turno di lavoro, generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro, di cui si era appropriato illegittimamente e in modo reiterato da ottobre a novembre 2017, come da accertamento del 16 novembre 2017 effettuato dai Carabinieri di Maddaloni.

2. Il provvedimento di recesso era stato preceduto da altro similare, poi revocato dalla stessa Casa di Cura, per vizi procedurali.

3. I giudici di seconde cure, per quello che interessa in questa sede, hanno rilevato che: a) non vi era stata alcuna lesione del diritto di difesa dell’incolpato perché, pur avendo il lavoratore richiesto di essere sentito nella fase disciplinare, in relazione ad una prima audizione fissata per il 27.12.2017 e alla successiva audizione disposta per il 5.1.2018 e pur in presenza di certificazione medica riguardante la patologia di ansia reattiva da stress, diagnosticata dal 27.12.2017 al 15.2.2018, la prodotta certificazione medica non era idonea a giustificare un legittimo impedimento a presentarsi ed il rinvio della richiesta di audizione rivelava profili di pretestuosità, indicativi di un uso strumentale del diritto con finalità meramente dilatorie; b) il materiale istruttorio acquisito processualmente aveva confermato l’addebito e cioè la sottrazione, senza autorizzazione, di cibi cucinati in quantità non modesta e con condotta reiterata nonché l’inadempimento agli obblighi di fedeltà, lealtà e correttezza ascrivibili al lavoratore; c) il fatto era comunque illecito e la sanzione applicata era proporzionata in relazione al comportamento fraudolento posto in essere che comunque era penalmente rilevante.

4. Avverso la sentenza di secondo grado C. M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui ha resistito con controricorso la Casa di Cura “S. Michele” srl.

5. Le parti hanno depositato memorie.

6. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.

CONSIDERATO CHE

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in particolare la violazione dell’art. 7 legge n. 300 del 1970. Deduce che la Corte territoriale, da un lato, aveva erroneamente considerato il comportamento di esso lavoratore, con particolare riguardo alla richiesta di rinvio dell’audizione, come dilatorio e volto a protrarre i termini di conclusione del procedimento disciplinare e, dall’altro, erroneamente aveva opinato la non necessità dell’audizione che, in caso di formale richiesta, costituiva un indefettibile presupposto procedurale da cui non si poteva prescindere.

3. Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cc, per avere errato la Corte di appello nella valutazione degli elementi probatori relativamente all’accertamento della intensità della condotta e alla proporzionalità della sanzione. Viene ribadita l’assenza di illiceità del comportamento appropriativo, perché avente ad oggetto cibo cucinato e deteriorabile, e conseguentemente la giustificatezza del provvedimento espulsivo.

4. Il primo motivo non è meritevole di accoglimento presentando profili di infondatezza e di inammissibilità.

5. E’ opportuno precisare che la decisione della Corte territoriale, in ordine alla questione della mancata audizione dell’incolpato nell’ambito della procedura disciplinare, è stata più articolata rispetto a quanto evidenziato nella censura.

6. La gravata sentenza, infatti, certamente ha ritenuto superflua la richiesta di audizione e sorretta da fini meramente dilatori, così aderendo alla impostazione del primo giudice che aveva sottolineato che la nuova audizione, rispetto alle difese già svolte nella precedente procedura che si era conclusa con la revoca del licenziamento per vizi procedurali, non fosse necessaria essendo state tutte le difese già svolte e non essendo state prospettate nuove esigenze difensive: l’assunto, in diritto, è conforme all’orientamento di legittimità (per tutte, Cass. n. 7493/2011, già richiamato dalla Corte territoriale, e Cass. n. 23510/2017) secondo cui, ai sensi dell’art. 7, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, 3 n. 300, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell’incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poiché l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile.

7. I giudici di seconde cure hanno, però, sottolineato anche che il lavoratore, per l’audizione fissata per il 27.12.2017, non aveva dato comunicazione tempestiva dell’impedimento, essendo la notizia pervenuta solo in tarda serata (ore 23:24) e ciò costituiva un indice sintomatico di un uso strumentale del diritto con finalità dilatorie; ma soprattutto hanno ritenuto che le certificazioni mediche inviate non erano idonee a documentare convincentemente uno stato di malattia nella sua gravità ostativa a presentare difese orali.

8. Si tratta di accertamenti di fatto, sorretti da motivazione congrua e formalmente logica e, in quanto tali, sottratti al sindacato di questo giudice di legittimità che non può procedere ad una rivisitazione del materiale istruttorio per pervenire a diverse conclusioni; inoltre, deve sottolinearsi la loro correttezza, in punto di diritto, perché conformi al principio statuito da questa Corte (Cass. n. 980/2020), in virtù del quale “Nell’ambito del procedimento disciplinare, la mera allegazione, da parte del lavoratore, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificarne l’impossibilità di presenziare all’audizione personale richiesta, occorrendo che egli ne deduca la natura ostativa all’allontanamento fisico da casa (o dal luogo di cura), così che il suo differimento a una nuova data di audizione personale costituisca effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile”.

9. Il secondo motivo è infondato.

10. Va ribadito il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

11. Nella fattispecie, pertanto, ritenute inammissibili tutte le doglianze riguardanti la ricostruzione e le modalità della vicenda in fatto, nonché quelle relative alla proporzionalità della condotta (“In tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità – Cass. n. 26010/2018”), con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. va condiviso l’assunto della Corte territoriale che ha ritenuto inadempimento importante, costituente giusta causa di recesso, la condotta contestata perché effettivamente essa, quale fatto costituente reato e già oggetto di episodi emulativi da parte di altri soggetti, sebbene riguardante cibi cotti e deperibili, non destinati ad esigenze personali del lavoratore o ad altri scopi umanitari, manifesta un significativo disvalore sociale e si pone in chiaro ed evidente contrasto con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale che non consentono la sottrazione di beni aziendali attraverso comportamenti reiterati e con una sistematica predisposizione di una organizzazione per il loro trasporto, sebbene vi possa essere stata una apparente tolleranza da parte del datore di lavoro ma senza alcuna autorizzazione esplicita o implicita, perché ciò che viene messo in discussione è il dovere del lavoratore di non porre in essere comportamenti che possano incidere sulla fiducia che l’azienda ha riposto nel dipendente stesso.

12. Deve, per concludersi, anche dare risalto al fatto che, in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (Cass. 11806/1997; Cass. n. 19684/2014).

13. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

14. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.

15. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso […]”.