(Studio legale  G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 12 dicembre 2024, n. 32155.

Licenziamento. Nuova turnazione oraria. Gravi offese. Casi analoghi puniti con sanzione conservativa. Vizio di sussunzione. Ipotesi di giusta causa. Tempestività della contestazione.

Da un punto di vista sistematico, è utile rammentare che dalla natura legale della nozione giusta causa (art. 2119 c.c.) deriva simmetricamente che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza solo esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011, Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018): l’apprezzamento della giusta causa di recesso rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, tenuto a valorizzare elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie. […].

Secondo il principio più volte affermato [dalla S.C.] in tema di licenziamento per giusta causa, la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie; tuttavia la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (cfr. Cass. n. 16784/2020; conf. Cass. n. 17231/2020; v. anche Cass. n. 1665/2022, n. 13865/2019, n. 2518/2023), essendo precluso al datore di lavoro di irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL applicato al rapporto in relazione ad una determinata infrazione (cfr. da ultimo Cass. 11665 del 2022, e da ultimo Cass. n. 3927 del 2024).

Ed infatti, condotte che pur astrattamente sarebbero suscettibili di integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva ha ricollegato ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solo una sanzione conservativa oppure quando il comportamento possa essere sussunto nell’ambito di una clausola generale ed elastica del CCNL”.

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Rilevato che

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Perugia, confermando il provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto la domanda proposta da S.B. nei confronti di C. s.p.a. tesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato il 16.1.2020 per avere, in occasione della comunicazione di una nuova turnazione oraria (ossia in data 17.12.2019), proferito gravi offese nei confronti del Responsabile di produzione dell’azienda (in presenza di altri colleghi) e, nel pomeriggio dello stesso giorno, ripetuto (passando con l’automobile di fronte alla sede aziendale) epiteti offensivi nei confronti della dirigenza della società.

2. La Corte territoriale – rilevato preliminarmente il rispetto dei requisiti della specificità e della tempestività della contestazione disciplinare – ha evidenziato che il quadro probatorio acquisito aveva consentito di verificare la ricorrenza di tutti i fatti addebitati; ha, poi, ritenuto che gli stessi integrassero gravi violazione del dovere di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c. nonché delle regole del vivere civile, a tal punto da minare l’affidamento del datore di lavoro nel futuro adempimento delle obbligazioni contrattuali, considerato altresì che le giustificazioni avanzate dal lavoratore (presunti ostacoli alla fruizione di permessi ex lege n. 104 del 1992 risalenti a vari anni addietro, adibizioni a mansioni non confacenti al suo stato di salute, licenziamento della moglie avvenuto 9 anni prima) erano rimaste mere asserzioni, prive di riferimenti specifici e di elementi di riscontro; ha, infine, sottolineato che il richiamo del lavoratore a casi analoghi puniti con sanzione conservativa (art. 69 del CCNL Industria Alimentare, piuttosto che art. 70 ove sono elencati le ipotesi di licenziamento) era del tutto generico e scarsamente circostanziato, e in ogni caso infondato vista l’obiettiva gravità della condotta offensiva.

3. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

La società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.

Considerato che

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione ed errata applicazione degli artt. 2016 e 2119 c.c., nonché art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970 posto che i fatti intervenuti il 17.12.2019 non costituivano insubordinazione di particolare gravità e non dovevano essere ritenuti tali da giustificare il licenziamento, come dimostrano le decisioni della Suprema Corte di alcuni casi simili; i giudici del merito avrebbero dovuto valutare i fatti in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi, all’intensità dell’elemento intenzionale; le reazioni scomposte del lavoratore sono state determinate dall’assegnazione ad una nuova linea di lavoro per la quale lo stesso lavoratore era stato dichiarato “non idoneo” dal medico aziendale e i testimoni hanno riferito che le parole proferite non sono state rivolte direttamente al superiore gerarchico, mentre l’episodio concernente le parole proferite dall’automobile non risulta compiutamente provato; inoltre, il comportamento del lavoratore non risultano connotate da quella gravità necessaria per adottare un provvedimento espulsivo.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione ed errata applicazione degli artt. 1362, 1363, 2106 c.c., 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970 in relazione agli artt. 69 e 70 del CCNL di categoria avendo il lavoratore invocato le condotte punite con sanzione conservativa come paragonabili a quelle addebitate e, in particolare, avendo richiamato il punto 9 dell’art. 69 ove si punisce con sanzione conservativa colui che si presti a diverbio litigioso, con o senza vie di fatto, fattispecie assai più adeguata rispetto alla previsione della “insubordinazione grave verso i superiori” punita con il licenziamento dall’art. 70 del CCNL.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione ed errata applicazione dell’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 300 del 1970 nonché dell’art. 68 del CCNL applicato avendo, la Corte territoriale, trascurato che le contestazioni disciplinari erano generiche e, inoltre, la seconda era tardiva.

4. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per plurimi motivi.

5. La censura, formulata come violazione ed errata applicazione di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.

Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

5.1. In particolare, la questione della inidoneità alle mansioni assegnate risulta espressamente smentita dall’accertamento effettuato dalla Corte territoriale che ha specificato come “i motivi addotti dal B. come scusanti dello scoppio d’ira – presunti ostacoli alla fruizione di permessi ex lege n. 104 del 1992 risalenti a vari anni addietro, adibizioni a mansioni non confacenti al suo stato di salute, licenziamento della moglie avvenuto ben nove anni prima – appaiono mere asserzioni, prive di riferimenti specifici e di elementi di riscontro”.

6. Come questa Corte ha affermato, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito – mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie – “è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (cfr. Cass. n. 13534 del 2019; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005), specifica denuncia che non è stata proposta dal ricorrente.

6.1. L’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento opera sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.

6.2. Solamente l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; invece, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta”, spettando inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (in termini Cass. n. 18247 del 2009 e Cass.n. 7838 del 2005).

6.3. La parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi (perché in tal modo trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto, di competenza del giudice di merito), ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono stati commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.), così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715 del 2016); il giudice di legittimità, invero, non può, “sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati … se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza”; “il sindacato di legittimità sulla ragionevolezza è, quindi, non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione” (così Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010).

7. Il secondo motivo di ricorso non è fondato.

7.1. Da un punto di vista sistematico, è utile rammentare che dalla natura legale della nozione giusta causa (art. 2119 c.c.) deriva simmetricamente che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza solo esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011, Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018): l’apprezzamento della giusta causa di recesso rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, tenuto a valorizzare elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie.

7.2. Secondo il principio più volte affermato da questa Corte in tema di licenziamento per giusta causa, la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie; tuttavia la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (cfr. Cass. n. 16784/2020; conf. Cass. n. 17231/2020; v. anche Cass. n. 1665/2022, n. 13865/2019, n. 2518/2023), essendo precluso al datore di lavoro di irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL applicato al rapporto in relazione ad una determinata infrazione (cfr. da ultimo Cass. 11665 del 2022, e da ultimo Cass. n. 3927 del 2024).

Ed infatti, condotte che pur astrattamente sarebbero suscettibili di integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva ha ricollegato ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solo una sanzione conservativa oppure quando il comportamento possa essere sussunto nell’ambito di una clausola generale ed elastica del CCNL.

7.3. Ai sensi degli artt. 69 e 70 del CCNL Industrie Alimentari, anche come evidenziati dalle parti, è punito con sanzione conservativa “chi si presti a diverbio litigioso, con o senza vie di fatto, semprechè il litigio non assuma carattere di rissa”; sono punite con il provvedimento espulsivo “le mancanze più gravi e, in via esemplificativa…gravi offese verso i compagni di lavoro; …insubordinazione grave verso i superiori”.

Le due previsioni negoziali contemplano due diversi comportamenti, in quanto la prima delinea un alterco, una disputa tra due colleghi di lavoro che può anche trasmodare in un’aggressione fisica, mentre la seconda ha riguardo ad affronti, offese recanti disprezzo della dignità della persona, di grave entità, rivolti verso colleghi e ad atteggiamenti, connotati da gravità, tenuti nei confronti di superiori gerarchici.

7.3. Nel caso di specie, i giudici di merito hanno condotto la loro valutazione in conformità ai principi di diritto richiamati ed hanno ancorato la gravità della condotta e la connessa proporzionalità della sanzione espulsiva sia alle specifiche, concrete, caratteristiche dei comportamenti tenuti dal lavoratore sia alla scala valoriale dettata dal CCNL applicato in azienda, correttamente escludendo la possibilità di sussumere le condotte nelle previsioni negoziali concernenti sanzioni conservative a fronte, da una parte, dell’assenza di una tipizzazione del comportamento addebitato e, dall’altra, della gravità e della reiterazione (nell’arco della stessa giornata) delle offese rivolte ai superiori gerarchici tale da integrare un atteggiamento di grave insubordinazione, previsto, dall’autonomia negoziale, come infrazione punibile con il recesso.

8. Il terzo motivo di ricorso non è fondato.

8.1. Questa Corte ha già affermato che la contestazione degli addebiti e il relativo grado di precisione risponde all’esigenza di consentire concretamente all’incolpato di approntare la propria difesa, sicché spetta al lavoratore, che si dolga della genericità della contestazione e della violazione del principio di sua immodificabilità, chiarire in che modo ne sia risultato leso il suo diritto di difesa (Cass. 9590/18; Cass. 30271/22).

8.2. La valutazione in ordine alla sufficiente specificità della contestazione disciplinare spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se non mediante precisa censura, senza che il ricorrente possa limitarsi – come nel caso di specie – a prospettare una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata (Cass. n. 13667 del 2018), neppure correttamente censurata la violazione dei canoni interpretativi, ma meramente enunciata (Cass. n. 13717 del 2006; Cass. n. 15350 del 2017; Cass. n. 11117 del 2019).

8.3. Nella presente fattispecie, concordemente sia il giudice di primo grado che la Corte territoriale hanno esaminato le contestazioni disciplinari ed hanno ritenuto che (a prescindere dalla trascrizione delle parole esatte, offensive, proferite dal lavoratore il 17.12.2019) il testo era chiaramente intellegibile, tale da essere stato ben compreso dal lavoratore stesso, che – nel corso dell’audizione – aveva optato per una linea difensiva ben definita (pag. 7 della sentenza impugnata); ne

8.4. In ordine alla tempestività della contestazione, questa Corte ha, più volte, ribadito che trattasi di requisito da declinare in senso relativo, a motivo delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa, ferma la riserva di valutazione delle suddette circostanze al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. n. 281 del 2016; Cass. n. 16841 del 2018; Cass. n. 23516 del 2019), motivazione compiuta e dettagliata che la Corte territoriale ha fornito nel caso di specie (pag. 7 della sentenza impugnata).

9. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

9. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”.